Alcune riflessione sull’indeducibilità dei costi da reato

un quadro della situazione dell’eventuale deducibilità dei costi da reato: le recenti disposizioni normative, la posizione della Corte Costituzionale e la prassi dell’Agenzia (a cura Fabrizio Stella e Nicola Monfreda)

1. Premessa

Come è ben noto, il c.d. Decreto semplificazioni, approvato in data 1° marzo 2012, attraverso l’art. 8, ha introdotto specifiche e rilevanti modifiche in tema di tassazione dei redditi illeciti e di indeducibilità dei costi afferenti ad attività qualificabili come reato, aspetti disciplinati dai commi 4 e 4 bis dell’articolo 14 della Legge n. 537/1993.

La principale modifica normativa, come di seguito specificato, concerne essenzialmente il presupposto di fatto al ricorrere del quale l’Amministrazione Finanziaria è legittimata a disconoscere la deducibilità di determinate componenti negative di reddito. Infatti, nella formulazione previgente al 1° marzo 2012, il principio di indeducibilità dei costi da reato trovava applicazione in presenza di meri fatti “qualificabili”, anche potenzialmente, come illeciti di rilevanza penale e, quindi, l’istituto in rassegna operava a seguito della trasmissione alla Procura della Repubblica della notitia criminisa carico del contribuente, non essendo necessaria la formulazione da parte del Pubblico Ministero competente della conseguente ipotesi accusatoria tramite la richiesta di rinvio a giudizio, né un provvedimento di condanna.

Con l’art. 8 del decreto del 1° marzo 2012 sono state introdotte rilevanti modifiche al delineato assetto normativo poiché il disconoscimento di costi dipendenti da atti costituenti reato è stato strettamente vincolato alla sussistenza di fatti penalmente rilevanti – delitti non colposi per i quali l’Autorità Giudiziaria abbia già accertato un c.d. Fumuscommissi delicti, poiché è necessario che il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 c.p.p. ovvero sia stata emessa una sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale. Ex pluribus, è richiesto che vi sia una relazione diretta tra gli atti costituenti reato e le componenti negative delle quali, in virtù della normativa in analisi, ne viene disconosciuta la deducibilità ai fini delle imposte sui redditi.

Le modifiche normative alle disposizioni de quibus hanno sicuramente circoscritto l’alveo applicativo del principio di indeducibilità dei costi connessi a reati, ma, d’altra parte, hanno adeguato la concreta applicabilità del dianzi citato principio alle esigenze di tutela dei diritti del contribuente, accogliendo, altresì, alcune delle più importanti posizioni giurisprudenziali formatesi durante la vigenza della precedente formulazione del comma 4 bis dell’art. 14 della Legge n. 537/1993; infatti, a tal proposito, si ritiene sufficiente sottolineare che, a differenza del passato, la nuova disposizione di legge prevede che in caso di assoluzione in sede penale per determinati fatti in relazione ai quali si è proceduto a disconoscerne i relativi costi di produzione, compete al contribuente il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione.

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 190 del 4 luglio 2012, si è espressa circa la legittimità del principio di indeducibilità in analisi, soffermandosi, altresì, sulle novità normativa introdotte dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 aprile 2012, n. 44. In particolare, era stata sollevata da una Commissione Tributaria una questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, c. 4 bis della Legge n. 537/1993 fondata sui seguenti presupposti:

  • non è ragionevole che un prelievo tributario, per sua natura fondato sul principio di solidarietà, abbia una connotazione sanzionatoria derivante dall’indeducibilità di costi effettivamente sostenuti;

  • la sanzione è irrazionale ed arbitraria;

  • una sanzione pecuniaria con un ammontare indeterminato nel minimo e nel massimo, non proporzionato alla gravità dell’illecito, in quanto influenzato da fattori casuali (come il diverso rapporto tra costi e ricavi nei vari settori commerciali) e, quindi, indipendente dall’entità dell’imposta evasa, si pone in contrasto con i principi costituzionali di legalità e di offensività;

  • sussiste una violazione dell’art. 27, c. 1, Cost., perché la norma è in contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale e determina una conseguenza sanzionatoria automatica ed oggettiva a carico degli enti persone giuridiche per le condotte penalmente rilevanti dei propri amministratori o legali rappresentanti alle quali siano riconducibili costi o spese di esercizio rivolti ad obiettivo vantaggio della persona giuridica;

  • sussiste una violazione dell’art. 53 Cost., perché, la norma è in contrasto con il principio della neutralità fiscale (il quale imporrebbe la deduzione di ogni costo correlato alla produzione di proventi, siano essi leciti od illeciti) e nonostante siano assoggettati a tassazione i proventi derivanti dalle attività penalmente illecite, comporta l’assoggettamento ad imposta di componenti negative del reddito non espressive della capacità contributiva dell’impresa, cosí ampliando irragionevolmente la base imponibile e ridefinendo in termini “eticamente orientati” il concetto di «inerenza» dei costi all’impresa; concetto che, invece, deve essere ancorato esclusivamente alla rilevanza tributaria e, quindi, soltanto alla capacità di determinare il complessivo risultato d’esercizio;

 

La Corte Costituzionale, nell’ordinanza dianzi citata, considerato che:

  • con la nuova formulazione del censurato comma 4-bis, il legislatore, da un lato, ha ridotto l’àmbito dei componenti negativi connessi ad illeciti penali e non ammessi in deduzione nella determinazione dei redditi di cui all’art. 6, c. 1, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), limitandolo ai «costi e […] spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo» e, dall’altro, ha richiesto che, in relazione a tale delitto, «il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, […] il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale […]»;

  • che il comma 3 dell’art. 8 del decreto-legge n. 16 del 2012, disciplinando l’applicazione nel tempo dei commi 1 e 2 dello stesso art. 8, ha previsto che essi «si applicano in luogo di quanto disposto dal comma 4-bisdell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove piú favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4-bisprevigente non si siano resi definitivi»;

  • che, a fronte di taleius superveniens– il quale incide direttamente sulla norma censurata ed è applicabile retroattivamente, ove piú favorevole –, spetta al giudice rimettente procedere ad una nuova valutazione della rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni sollevate;

ha disposto la restituzione degli atti al giudicea quoaffinché proceda alla suddetta valutazione alla luce del nuovo quadro normativo

 

2. La Circolare n. 32/E del 3 agosto 2012 dell’Agenzia delle Entrate

Con la Circolare n. 32 del 3 agosto 2012, l’Agenzia delle Entrate è tornata a occuparsi della questione dell’indeducibilità dei costi connessi a reati, già affrontata con la circolare n. 42/E del 2005. Tra i principali aspetti trattati dal testo di prassi in esame, gli Uffici hanno posto l’attenzione, altresì, sugli aspetti di seguito riportati:

  • trattamento sanzionatorio in caso di costi relativi a beni o prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di attività delittuose non colpose, consistente nell’applicazione delle sanzioni dal cento al duecento per cento della maggior imposta per “infedeltà” della dichiarazione; in tale caso, viene precisato come rimanga in facoltà del contribuente scongiurare l’inizio di un’attività di controllo attraverso la presentazione di una dichiarazione integrativa recante le variazione in aumento del reddito imponibile corrispondenti ai costi indebitamente dedotti,

  • conseguenze processuali connesse alla vicenda penale posta a base del disconoscimento di determinate componenti di reddito: viene ribadito che qualora, successivamente all’azione di controllo dell’Ufficio, intervenga in favore del contribuente una sentenza definitiva di assoluzione ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla prescrizione, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere, al contribuente compete il rimborso delle maggiori imposte versate in seguito alla contestata non ammissibilità in deduzione degli stessi e dei relativi interessi. Suddetto rimborso deve estendersi anche alle sanzioni, benché non richiamate esplicitamente nel dettato normativo. Tale obbligo restitutorio scatta anche con riguardo alle somme versate in ipotesi di ravvedimento operoso nonché nei casi i cui il contribuente abbia definito la pretesa tributaria attraverso il ricorso agli istituti definitori di cui al D.Lgs. n. 218/1997 o D.Lgs. n. 546/1992.

 

17 novembre 2012

Fabrizio Stella e Nicola Monfreda