Accertamento con adesione: alcuni interventi del giudice di legittimità

Analisi delle recenti sentenze di Cassazione in tema di accertamento con adesione: il caso del contribuente non convocato dall’ufficio ed il destino delle somme versate in eccesso a seguito della procedura di adesione

Accertamento con adesione senza la convocazione

La sentenza n. 3259 della Corte di Cassazione, sez. Tributaria, del 2 marzo 2012, n. 3259si segnala per un profilo, squisitamente procedimentale. Accogliendo le censure contenute in un secondo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione osserva che, qualora il contribuente abbia presentato istanza di accertamento con adesione, la sua convocazione

«costituisce per l’ufficio non un obbligo ma una facoltà da esercitare in relazione ad una valutazione discrezionale del carattere di decisività degli elementi posti a base dell’accertamento e dell’opportunità di evitare la contestazione giudiziaria».

Secondo il Giudice di legittimità, la mancata convocazione del contribuente non comporta la nullità dell’atto impositivo, mancando una previsione legale in tal senso. La mancata convocazione del contribuente, a seguito della presentazione dell’istanza ex D.lgs. n. 218/1997, non comporta la nullità del procedimento di accertamento adottato dall’Amministrazione finanziaria.

E’ legittimo l’atto impositivo e la conseguente cartella di pagamento anche se l’Ufficio non attiva il contradditorio sull’istanza di accertamento con adesione presentata dal contribuente.

avviso di accertamento con adesione e sentenze di cassazione

Infatti , le Sezioni Unite, del giudice di legittimità , con la sentenza 3676 del 2010, hanno precisato che: “in tema di accertamento con adesione, la mancata convocazione del contribuente, a seguito della presentazione dell’istanza ex art. 6 del d.lgs. 16 giugno 1997, n. 218, non comporta la nullità del procedimento di accertamento adottato dagli Uffici, non essendo tale sanzione prevista dalla legge” (Corte di Cassazione sentenza n. 29127 del 28 dicembre 2011).

E’ ius recptum (Cass. civ. Sez. V, Ord., 08-02-2011, n. 3112; Cass. civ. Sez. Unite, sentenza del 17-02-2010, n. 3676 ) che in tema di accertamento con adesione, la mancata convocazione del contribuente, a seguito della presentazione dell’istanza ex art. 6 del d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218, non comporta la nullità del procedimento di accertamento adottato dagli Uffici, non essendo tale sanzione prevista dalla legge.

In presenza di richiesta di accertamento con adesione la mancata convocazione del contribuente a seguito della sua richiesta non determina nullità dell’accertamento; secondo la Suprema Corte, infatti, la convocazione non costituisce per l’ufficio un obbligo, ma solo una facoltà da esercitare in relazione a una valutazione discrezionale del carattere di decisività degli elementi posti a base dell’accertamento e dell’opportunità di evitare la contestazione giudiziaria.

L’istanza di audizione invero non priva di efficacia l’accertamento, ma ne sospende soltanto il termine di impugnazione di 90 giorni, decorsi i quali, senza che sia stata perfezionata la definizione consensuale, esso diviene definitivo, salva l’impugnazione.

È invero soltanto “all’atto del perfezionamento della definizione” che “l’avviso perde efficacia”.

E qualora l’ufficio escludesse in radice l’opportunità di una composizione bonaria, l’obbligo della convocazione costituirebbe un inutile appesantimento dell’attività amministrativa.

Il termine di 90 giorni per il quale resta sospeso l’onere della impugnativa giudiziaria corrisponde del resto a quello stabilito per la formazione del silenzio rifiuto, sicché è coerente col sistema ritenere che, decorso quel termine dalla presentazione dell’istanza di audizione senza che l’Amministrazione abbia riposto, l’istanza medesima debba considerarsi tacitamente rigettata.

La mancata convocazione del contribuente non impedisce che l’accertamento, non impugnato nel più lungo termine concesso dal D.Lgs. n. 218 del 1997 art. 6, c. 3, diventi definitivo (Corte di Cassazione sezione tributaria sentenza n. 28051 depositata il 30 dicembre 2009).

E’ legittima l’iscrizione a ruolo, a titolo definitivo, nonostante l’ufficio non abbia provveduto all’attivazione della fase contenziosa, a seguito della istanza di adesione formulata dal contribuente sulla base dell’accertamento propedeutico, non impugnato dal contribuente.

Va disattesa la tesi secondo cui la sospensione, del termine per impugnare di novanta giorni prevista dall’articolo 6, comma 3, D.lgs. 218/97, non può operare a danno del contribuente stesso una volta scaduti e spirati i termini ordinari per l’impugnazione ove l’ufficio, venendo meno ad un adempimento obbligatorio in relazione all’istanza di adesione, non abbia permesso al contribuente di esporre le proprie ragioni; in particolare, nessuna conseguenza è prevista a seguito della inattività dell’ufficio, consistente nella mancata convocazione del contribuente prevista dall’articolo 6, comma 4, del dlgs 218/97 (sentenza n. 110 del 20 ottobre 2008 della Commissione Tributaria Regionale di Roma sez. 36).

Sussiste, peraltro, diverso minoritario orientamento giurisprudenziale secondo cui in caso di mancata risposta alla istanza di accertamento con adesione presentata dal contribuente, l’ufficio non è legittimato a procedere ad iscrizione a ruolo delle somme elencate nell’avviso di accertamento, che perde la sua efficacia a causa del comportamento omissivo dello stesso (CTR Toscana, 11 luglio 2007, n. 45; CTP Caserta, 24 maggio 2005, n. 97; Sent. n. 291 del 1° dicembre 2001 dep. il 21 dicembre 2001 della CTP di Ragusa, sez. I; Sent. n. 289 del 28 novembre 2003 dep. il 21 maggio 2004 della CTP di Siracusa, sez. II; CTP di Nuoro, sent. 1 febbraio, n. 280/01/05; CTP di Genova sent. 9 aprile 2009, n. 103; CTP di Torino sentenza del 16 luglio 2009, n. 96 )

 

Non sussiste per le somme versate in eccesso a seguito di accertamento con adesione il diritto al rimborso

Dopo che l’accertamento con adesione si è perfezionato con il versamento delle somme dovute, è esclusa la possibilità, per il contribuente, di proporre istanza di rimborso di quanto, a suo avviso, è stato versato in eccesso.

In base all’art. 2, c. 3 (per le imposte sui redditi e l’Iva), e all’art. 3, c. 4 (per le altre imposte indirette), del D.lgs. n. 218/1997, “l’accertamento definito con adesione non è soggetto ad impugnazione, non è integrabile o modificabile da parte dell’Ufficio”.

Ne consegue che il reddito definito con adesione non può successivamente essere rimesso in discussione e non possono, quindi, essere formulate istanze di rimborso afferenti l’annualità e/o l’imposta definita (Corte di cassazione, sentenza 29587 del 29 dicembre 2011; Cassazione nn. 20732/2010 e 18962/2005).

In tema di imposte sui redditi, poichè avverso l’accertamento definito per adesione è preclusa ogni forma d’impugnazione, devono ritenersi improponibili anche le istanze di rimborso in quanto costituirebbero una surrettizia forma d’impugnazione dell’accertamento in questione che, invece, in conformità alla ratio dell’istituto, deve ritenersi intangibile (Cass. civ. Sez. V, Sent., 29-12-2011, n. 29587:Cass. Sez. 5, Sentenza n. 20732 del 06/10/2010; Idem: Sez. 5, Sentenza n. 18962 del 28/09/2005).

Il fatto che avverso l’accertamento definito con adesione sia preclusa l’impugnazione (quali che siano le ragioni di doglianza avverso l’atto di definizione) non può che comportare la ovvia conseguenza della improponibilità di istanze di rimborso di quanto versato a perfezionamento dell’accordo, che deve ritenersi intangibile, in conformità alla ratio dell’istituto, connotata, a fronte dell’effetto premiale per il contribuente, dall’interesse pubblico alla immediata acquisizione delle somme risultanti dall’accordo, le quali, una volta versate, non possono più essere messe in discussione attraverso richieste di rimborso (con l’ulteriore effetto della deflazione del contenzioso).

Perciò, una volta che l’accertamento sia stato definito con adesione, e la definizione si sia perfezionata con il versamento delle somme dovute, ai sensi del citato D.Lgs., art. 3, è da escludersi che il contribuente conservi la facoltà di proporre istanza di rimborso di quanto a suo avviso versato in eccesso e per effetto di errore o altra ragione di supposta incongruità dell’adesione.

L’accertamento definito con adesione, mediante il procedimento dettato dal D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, ed il conseguente perfezionamento con il versamento delle somme dovute, ai sensi dell’art. 9 del medesimo decreto legislativo, preclude al contribuente la facoltà di proporre istanza di rimborso di quanto a suo avviso versato in eccesso a seguito di errore che avrebbe viziato, ex art. 1427 del codice civile, la volontà manifestata con l’istanza di adesione e con la successiva sottoscrizione dell’atto (di natura negoziale).

Invero, ai sensi degli artt. 2, c. 3 (per le imposte sui redditi e sull’Iva), e 3, c. 4 (per le altre imposte indirette), del D.Lgs. n. 218/1997,

“l’accertamento definito con adesione non è soggetto ad impugnazione, non è integrabile o modificabile da parte dell’ufficio”

(fatto salvo, limitatamente alle imposte di cui all’art. 2, l’esercizio dell’ulteriore azione accertatrice da parte dell’ufficio nelle ipotesi indicate nel comma 4 di detta norma).

Conseguentemente, il fatto che avverso l’accertamento definito con adesione sia preclusa l’impugnazione, per qualsiasi causa, non può che comportare la ovvia conseguenza della improponibilità di istanze di rimborso di quanto versato a perfezionamento dell’accordo. Tale assunto è stato precisato dalla Corte di Cassazione sezione tributaria con sentenza n. 20732 del 6 ottobre 2010

 

Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza 8 novembre 2011 – 2 marzo 2012, n. 3259

In fatto e in diritto

1. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate propongono ricorso per cassazione nei confronti della S. s p.a. (che resiste con controricorso) e avverso la sentenza con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di rettifica IVA relativo all’anno di imposta 1998. la C.T.R. Emilia Romagna, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva il ricorso introduttivo proposto dalla società.

In particolare, per quel che in questa sede ancora rileva, i giudici d’appello affermavano che le fatture utilizzate dalla società erano state emesse per coprire costi effettivamente sostenuti ma non documentabili e, pur rilevando che in dette fatture non era stata correttamente indicata la natura, qualità e quantità dei beni o dei servizi venduti o prestati, avevano ritenuto che i corrispettivi in esse indicati fossero relativi all’attività di impresa e che l’Iva su di essi applicata fosse stata correttamente liquidata, non risultando prove che le fatture utilizzate non erano state pagate ed avendo l’appellante affermato (in assenza di contestazioni da parte dell’Ufficio) che le ditte emittenti le fatture avevano regolarmente versato l’Iva addebitata in via di rivalsa, con conseguente mancanza di danno per l’erario.

I giudici d’appello aggiungevano: che l’art. 6 d.lgs. 218/97 prevede che il contribuente nei cui confronti sono stati effettuati accessi, ispezioni o verifiche può chiedere con apposita istanza la formulazione della proposta di accertamento ai fini dell’eventuale definizione; che una tale istanza era stata fatta dal contribuente; che non risultava che l’Ufficio vi avesse dato seguito, e, in particolare, che avesse, entro 15 giorni dal ricevimento dell’istanza suddetta, convocato il contribuente.

2. Preliminarmente deve essere accolla l’eccezione della controricorrente di inammissibilità del ricorso del Ministero, essendo stato l’appello depositato il 27.07.2004 ed avendo partecipato al giudizio d’appello solo l’Agenzia delle Entrate.

E’ invece infondata l’eccezione di tardività della notifica del ricorso (per essere stata la copia da notificare affidata alla posta solo il 16.03.2006. ossia il giorno dopo la scadenza del relativo termine), posto che, secondo la univoca giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la notifica a mezzo del servizio postale si perfeziona per il notificante con la consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario (non con l’affido alle poste, da parte dell’Ufficiale giudiziario, dell’atto da notificare), salvo nell’ipotesi (non ricorrente nella specie) in cui la notifica a mezzo posta venga eseguita, anziché dall’ufficiale giudiziario, dal difensore della parte ai sensi dell’art. 1 della legge n. 53 del 1994, dovendo in tal caso sostituirsi alla data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario la data di spedizione del piego raccomandato (v. cass. n. 17748 del 2009).

E’ peraltro da aggiungere che. secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, ove non venga esibita la ricevuta di cui all’art. 109 DPR 15 dicembre 1959, n. 129, la prova della tempestiva consegna all’ufficiale giudiziario dell’atto da notificare può essere ricavata dal timbro apposto su tale atto recante il numero cronologico e la data, e che solo in caso di contestazione della conformità al vero di quanto da esso indirettamente risulta, l’interessato deve farsi carico di esibire idonea certificazione proveniente dall’ufficiale giudiziario, la quale, essendo diretta a provare l’ammissibilità del ricorso, potrà essere esibita secondo le previsioni dell’art. 372 c.p.c. (v. SU n. 14294 del 2007).

E’ infine da precisare che nella specie a margine della prima pagina del ricorso risulta un timbro con numero cronologico recante la data del 15.03.2006 -identificata dalla stessa controricorrente come ultimo giorno utile per la notifica- e che non risulta alcuna contestazione della conformità al vero di quanto direttamente o indirettamente emergente dal suddetto timbro.

E’ infine altresì infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per mancata indicazione della sede dell’Agenzia ricorrente, posto che per i giudizi di cassazione -nei quali la legittimazione era riconosciuta esclusivamente al Ministero delle finanze (ossia all’organo centrale, non a quello periferico) ai sensi dell’art. 11 del r.d. 30 ottobre 1933. n. 1611- la giurisprudenza di questo giudice di legittimità ha ritenuto che la nuova realtà ordinamentale, caratterizzata dal conferimento della capacità di stare in giudizio agli uffici periferici dell’Agenzia in via concorrente ed alternativa rispetto al direttore, consente di ritenere che possano agire sia (come nella specie) l’Agenzia in persona del suo direttore pro tempore, sia (ma non necessariamente) l’Ufficio periferico di essa che ha partecipato al giudizio di appello, in tal senso orientando sia l’interpretazione sia il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità (v. SU nn. 3116 e 3118 del 2006).

Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 21 d.p.r. 633/72, l’Agenzia ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui i giudici d’appello hanno affermato che le fatture utilizzate dalla società erano state emesse per coprire costi all’epoca non documentabili e, pur rilevando che in dette fatture non era stata indicata la natura, qualità e quantità dei beni o dei servizi venduti o prestati, hanno ritenuto che i corrispettivi in esse indicati fossero relativi all’attività di impresa e che l’Iva su di essi applicata fosse stata correttamente liquidata, non risultando prove che le fatture utilizzate non erano state pagate ed avendo affermato l’appellante che le ditte emittenti le fatture avevano regolarmente versato l’ha addebitata in via di rivalsa, pertanto senza alcun danno per l’erario.

In particolare, la ricorrente, premesso che l’asserito pagamento dell’IVA addebitata in via di rivalsa ed il fatto che i corrispettivi indicati nelle fatture de quibus riguardavano comunque attività di impresa erano circostanze desunte in maniera acritica dalle deduzioni della società, evidenzia che si tratta di dati irrilevanti, posto che anche l’eventuale pagamento dell’IVA da parte del cedente non incide sul rapporto tra fisco e cessionario quando il primo contesti al secondo l’inesistenza delle fatture emesse.

In ogni caso secondo la ricorrente quanto affermato dai giudici d’appello è in contrasto con la corretta lettura dell’art. 21 citato, dal quale emerge che un’operazione deve ritenersi giuridicamente inesistente quando manchi degli elementi oggettivi e soggettivi che la individuano in quanto la ratio della stessa che regola l’obbligo di fatturazione è quella di rendere conoscibili in modo certo le operazioni commerciali, posto che il legislatore al citato art. 21 ha accolto una formulazione ampia tale da comprendere nel concetto di operazione inesistente ogni discrepanza tra il dato contabilizzato e il dato reale, avendo inteso colpire ogni divergenza tra la realtà commerciale e l’espressione documentale di essa.

La censura è fondata. Sono gli stessi giudici d’appello ad affermare che nelle fatture non era stata correttamente indicata la natura, qualità e quantità dei beni o dei servizi venduti o prestati. La giurisprudenza di questo giudice di legittimità è concorde nel ritenere che l’omessa indicazione nelle fatture dei dati prescritti dall’art. 21 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 integra quelle gravi irregolarità che, ai sensi dell’art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973. n. 600. legittimano l’Amministrazione finanziaria a ricorrere all’accertamento induttivo del reddito imponibile (v. tra le altre cass. n. 5748 del 2010). In ogni caso una fattura nella quale manchino i dati prescritti per legge non è idonea a fornire la prova dell’esistenza delle operazioni in esse riportate.

Pertanto se. in ipotesi di fatture ritenute relative ad operazioni inesistenti, grava sull’Amministrazione l’onere di provare che le operazioni, oggetto delle fatture, in realtà non sono state mai poste in essere, a fronte di fatture che invece non possono considerarsi tali perché mancanti dei requisiti normativi, grava sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate (non potendo essa ritenersi fornita con l’esibizione di fatture carenti di elementi indispensabili ai fini della identificazione dell’operazione posta in essere), così come accade nelle ipotesi in cui l’amministrazione fornisca validi elementi per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni (anche solo parzialmente) fittizie.

Col secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli arti. 6 d.lgs. 218/97, 112, 115 e 116 c.p.c., nonché omesso esame di un punto decisivo della controversia, la ricorrente censura l’Ufficio non aveva convocato il contribuente nei termini, rilevando sia che l’Ufficio aveva invitato la società al contraddittorio, tanto che era stato redatto un verbale in cui si dava atto del mancato accordo, sia che il citato art. 6 prevede che l’istanza per l’attivazione della procedura concordataria deve essere presentata prima dell’impugnazione dell’avviso di rettifica e che l’impugnazione di tale atto comporta rinuncia all’istanza di accertamento con adesione fa censura è fondata nei termini che seguono.

Prescindendo intatti da ogni considerazione circa l’intervento o meno di una tempestiva convocazione, è sufficiente rilevare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la presentazione di istanza di definizione da parte del contribuente, ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. 19 giugno 1997. n. 218, non comporta l’inefficacia dell’avviso di accertamento, ma solo la sospensione del termine di impugnazione per un periodo di 90 giorni, decorsi i quali senza che sia stata perfezionata la definizione consensuale, l’accertamento diviene comunque definitivo, in assenza di impugnazione, anche se sia mancata la convocazione del contribuente, che costituisce per l’Ufficio non un obbligo ma una facoltà, da esercitare in relazione ad una valutazione discrezionale del carattere di decisività degli elementi posti a base dell’accertamento e dell’opportunità di evitare la contestazione giudiziaria. (V. cass. n. 28051 del 2009) ed inoltre che la mancata convocazione del contribuente, a seguito della presentazione dell’istanza ex art. 6 del d.lgs. 16 giugno 1997, n. 218 non comporta la nullità del procedimento di accertamento adottato dagli Uffici, non essendo tale sanzione prevista dalla legge (v. SU n. 3676 del 2010).

3. Alla luce di quanto sopra esposto, il ricorso del Ministero deve essere dichiarato inammissibile e, in assenza di attività difensiva, nessuna decisione deve essere assunta con riguardo alle relative spese. Il ricorso dell’Agenzia deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio ad altro giudice che provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso dei Ministero e accoglie il ricorso dell’Agenzia. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese a diversa sezione della C.T.R. Emilia Romagna.

 

17 aprile 2012

Antonio Terlizzi