Non si possono vendere immobili sotto costo

Anche nel caso delle vendite immobiliari è applicabile il concetto di antieconomicità: nel caso in cui si desuma che il prezzo di vendita indicato non sia realistico rispetto ai parametri su cui si basa la valutazione dell’immobile, l’Ufficio può procedere ad accertamento induttivo.

Con ordinanza n. 1972 del 10 febbraio 2012 (ud. 11 gennaio 2012) la Corte di Cassazione ha legittimato l’accertamento effettuato dall’ufficio ad una impresa immobiliare che vendeva sotto costo.

 

Il fatto

vendita di immobili sottocostoLa CTR della Lombardia ha rigettato l’appello proposto da un contribuente nei confronti dell’Agenzia delle entrate, confermando il recupero a tassazione, per l’anno 2005 (IVA e II.DD.), di maggiori ricavi (€ 284.350 oltre a IVA 4%), pari alla differenza tra l’importo contabilizzato per la vendita di tre unità immobiliari (€ 365.000) e quello determinato dall’ufficio (€ 649.350).

La decisione è motivata e di conseguenza viene ritenuto legittimo l’accertamento sull’assai significativo scostamento dei valori riportati in atto rispetto a quelli obiettivamente rilevati, per epoca e zona, dall’osservatorio del mercato immobiliare (OMI; con l’incremento del 30% per gli immobili di nuova costruzione).

I giudici hanno rilevato, inoltre, che:

a) il costo contabilizzato di costruzione dei tre immobili venduti, al netto della mano d’opera, era solo di poco inferiore (€ 18.349,32) al prezzo di vendita, al lordo delle imposte;

b) l’importo dei mutui contratti dagli acquirenti era addirittura superiore al prezzo di acquisto dichiarato;

c) vi era incoerenza assoluta tra gli stessi prezzi dichiarati, atteso che un primo alloggio di 120 mq (con box di 46 mq) era stato venduto per € 125.000, mentre un secondo alloggio di ben 162 mq (con box di 39 mq) era stato inspiegabilmente venduto a soli € 120.000.

 

 

Il ricorso in Cassazione del contribuente

Il contribuente ha proposto ricorso per cassazione, per violazione di legge (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, c. 1), “lamentando che l’Ufficio e la CTR avrebbero trasformato in prova il metodo induttivo di valutazione, così invertendo il processo logico degli accertamenti, il tutto in contrasto col principio comunitario “del corrispettivo” e dando credito a semplici congetture, quali quelle desunte dalle analisi statistiche dell’osservatorio del mercato immobiliare o da elementi esterni sfuggenti come i mutui stipulati dai compratori”.

Inoltre, lamenta che “la CTR non avrebbe valutato correttamente né le insindacabili scelte imprenditoriali sulla convenienza dei prezzi, né l’entità reale dei mutui dei compratori, nè il fatto che il contribuente, quale artigiano, trova remunerazione nell’utile d’esercizio e non dal tempo di presenza in cantiere”.

 

 

La sentenza

sentenza corte di cassazioneLa Corte, innanzitutto, rileva che, in entrambe le censure, ciò che viene contestato non è l’applicazione e/o l’interpretazione di norme di legge, bensì la valutazione di dati di fatto emersi in sede di merito circa l’affermata inattendibilità dei valori monetari indicati come prezzi di vendita, quali il forte scostamento rispetto alle risultante dell’osservatorio del mercato immobiliare, l’esiguità dell’utile contabile dell’intera operazione (€ 18.349,32) rispetto ai rilevanti costi contabilizzati (€ 346.650,68), la ricostruzione comparativa degli importi mutuati dai compratori rispetto ai costi finali d’acquisto (comprensivi di oneri fiscali, notarili, di mediazione…).

 

Riafferma la Corte che 

“è noto che l’ufficio legittimamente procede a rettifica quando vi siano condotte non economicamente giustificate quali l’antieconomicità di comportamenti imprenditoriali che il contribuente non spieghi in alcun modo (Cass. 26635/08, 417/08) e siano in conflitto con i criteri della ragionevolezza (Cass. 13915/09, 26635/08, 10649/01).

Quella rilevata dalla CTR, è una grave incongruenza tra i ricavi contabilizzati delle tre operazioni di vendita immobiliare, pari a una frazione del tutto esigua dei prezzi e dei costi contabilizzati, e i ricavi ragionevolmente ritraibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività, il tutto in presenza d’incongruenze intrinseche (prezzi/mq) ed estrinseche (mutui)”.

 

Il ragionamento dei giudici di secondo grado

“non è fondato sul semplice scostamento tra il valore normale di vendita e il prezzo ma valorizza la presenza anche di altri elementi presuntivi, i quali, tra loro associati, sono astrattamente idonei a sostenere la pretesa tributaria in fase contenziosa, senza che ciò sì risolva in alcuna violazione di principi di diritto nazionale o comunitario, atteso che l’armonizzazione di tributi sulla cifra d’affari non pone barriere alla potestà accertatrice domestica, anche in funzione antielusiva e con il solo basarsi anche su presunzioni semplici per la prova a carico del fisco (cfr. da ultimo la Legge Comunitaria 2008, 7 luglio 2009, n. 88, art. 24)”.

 

Il ricorso del contribuente attiene, quindi,

“più che ad aspetti di diritto, a profili valutativi di risultanze di fatto che, risolvendosi nel tentativo di una rivisitazione generalizzata delle emergenze processuali, appartiene esclusivamente al giudice del merito e va, dunque, sanzionata con l’inammissibilità del ricorso.

Inoltre, la denunciata violazione di legge si risolve in una ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultante di causa e attinge la tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è ammissibile, in cassazione, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione.

Lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal rilievo che solamente quest’ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultante di causa (Cass. 19748/11, GD n. 45/11,52)”.

 

Infine, il ricorso pecca pure di autosufficienza atteso che, censurando la sentenza della CTR nella sua adesione al contenuto dell’avviso d’accertamento, omette di riportare prima di tutto i passi della motivazione dell’atto impositivo che si assumono erronei ed erroneamente condivisi dai giudici d’appello (cfr. in generale Cass. 12786/06 e 13007/07).

Viene, quindi, ribadito, in conformità del resto a una giurisprudenza più che consolidata, che è necessario che essa ottemperi al principio di autosufficienza del ricorso (correlato all’estraneità del giudizio di legittimità all’accertamento del fatto), riportando la situazione documentale della quale si chiede un’adeguata valutazione, ivi comprese anche le fonti contrattuali (vendite e mutui) in discussione, delle quali in particolare non solo non v’è trascrizione, neppure delle parti salienti (Cass. 19495/11, GD n.44/2011, 67), ma non v’è neanche alcuna specifica indicazione per il loro materiale reperimento (SU 22726/11).

 

 

Antieconomicità e accertamento fiscale – Brevi note

La sentenza che si annota – che rientra nel filone della cd. antieconomicità – pone in evidenza proprio le scelte di gestione, ponendo al centro del procedimento di accertamento – attraverso una serie di elementi non smentiti – il principio della prevalenza della sostanza sulla forma.

L’atto di accertamento ritenuto legittimo, infatti, si fonda non solo sul rilevato scostamento dall’OMI, ma dalla constatazione di ulteriori indizi di evasione:

a) il costo di costruzione dei tre immobili venduti, al netto della mano d’opera, era di poco inferiore al prezzo di vendita, al lordo delle imposte;

b) l’importo dei mutui contratti dagli acquirenti era superiore al prezzo di acquisto dichiarato;

c) discordanza fra i prezzi dichiarati (alloggi più grandi venduti a prezzi inferiori rispetto ad alloggi più piccoli).

 

Il comportamento dei verificatori di fronte a situazioni antieconomiche, che possano far ritenere sussistente un fatto elusivo, se è vero che trova un limite nella mancanza, nell’ordinamento tributario, di una norma antielusiva generale, trova oggi forza nei diversi contributi giurisprudenziali della Corte di Cassazione che hanno aperto ampi varchi all’Amministrazione finanziaria.

Il procedimento presuntivo consiste nella interpretazione di un fatto certo per risalire ad un fatto ignoto, e che viene ritenuto provato in quanto correlato con logica consequenzialità al primo. E nel caso di specie la convergenza di 4 indizi fanno più che una prova.

Né vale invocare in senso contrario la libertà delle scelte imprenditoriali, dato che il criterio direttivo che si pone come limite rimane quello della economicità.

Se è vero, infatti che le scelte economiche dell’imprenditore sono normalmente insindacabili, tuttavia l’amministrazione finanziaria non è tenuta a credere che un imprenditore agisca in modo antieconomico.

Sicché, in presenza di un comportamento antieconomico dell’imprenditore, è lecito dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate, con la conseguenza che l’ufficio può presumere maggiori ricavi e l’onere della prova si sposta sul contribuente. Prova non offerta nel caso di specie.

In tal caso, dunque, non solo è legittima la contestazione della veridicità ed esattezza delle registrazioni, ma l’inversione dell’onere della prova determina a carico del contribuente l’onere di dimostrare la ragionevolezza economica delle operazioni, mentre non è sufficiente sostenere genericamente le ragioni di una propria strategia imprenditoriale.

Invero, l’imprenditore, proprio perché tale, non può che agire secondo criteri di logica economica intesi ad ottenere il profitto più elevato.

Non si può escludere, certo, né che l’imprenditore compia errori di valutazione, né che considerazioni di strategia generale lo inducano a compiere operazioni di per sé antieconomiche in vista di benefici su altri fronti, ma occorre in tal caso dimostrare che le varie operazioni rispondano, almeno nelle intenzioni di chi le pone in essere, a criteri di logica economica, sia pure intesa in senso ampio ( cfr. Corte di Cassazione, sentenze nn. 417 e 418, depositate l’11 gennaio 20081).

Non appare, infatti, ragionevole né economico, vendere un alloggio di 100 metri quadri ad un prezzo inferiore a quello di 50 metri quadri.

 

1 marzo 2012

Gianfranco Antico

 

NOTE

1 Cfr. La Face, Dall’antieconomicità all’analitico-induttivo il passo è breve, in “Fiscooggi”, ed. del 7 febbraio 2008.