Le risultanze delle indagini finanziarie vanno smentite dal contribuente

le indagine basate sui movimenti bancari stanno diventando sempre più importanti per la lotta all’evasione fiscale: ecco quali prove deve fornire il contribuente per smontare queste presunzioni

L’ordinanza n. 28160 del 21 dicembre 2011 (ud. 23 novembre 2011) della Corte di Cassazione ha confermato che In tema di accertamento dell’IVA, la presunzione, stabilita dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 2, secondo la quale i singoli dati ed elementi risultanti dai conti bancari sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dal successivo art. 54, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili, ha un contenuto complesso, consentendo di riferire i movimenti bancari all’attività svolta in regime IVA, eventualmente dalla persona fisica, e di qualificare gli accrediti come ricavi e gli addebiti come corrispettivi degli acquisti; essa può essere vinta dal contribuente che offra la prova liberatoria che dei movimenti egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che questi non si riferiscono ad operazioni imponibili (Cass. n. 3929/2002)”.

 

Brevi note

La Corte di Cassazione continua a dare ragione al Fisco in materia di indagini finanziarie, forte del tatto normativo che ribalta l’onere della prova sul contribuente.

Come è noto, l’’indagine creditizia e finanziaria costituisce un’autonoma attività istruttoria che può essere esercitata anche indipendentemente da precedenti attività di controllo, quali verifiche o ispezioni documentali, sia pure nell’osservanza delle regole fissate dai novellati numeri 7 degli articoli 32 del D.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del D.P.R. n. 633 del 1972, a differenza di quanto previsto dai numeri 6-bis, pur essi novellati, che invece necessitano sempre dell’attivazione di una preventiva procedura di accertamento, ispezione o verifica.

In particolare, ai fini reddituali, il numero 2 del comma 1 dell’articolo 32 del D.P.R. n. 600 del 1973 prevede che i dati e gli elementi risultanti dai rapporti e dalle operazioni intercettati ai sensi del successivo numero 7 o rilevati secondo la particolare procedura di cui all’art. 33, cc. 2 e 3, sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine.

In proposito, sottolineano i redattori del documento di prassi n. 32/2006, il dato letterale della disposizione, al pari dell’omologa previsione in materia di Iva, fa riferimento all’endiadi “dati ed elementi“, mentre il testo anteriore alla novella utilizzava l’espressione “i singoli dati ed elementi“. La mancata conferma dell’aggettivo “singoli” non consente di ritenere che la contestazione dei singoli addebiti possa avvenire per “masse” o addirittura sulla base di un mero “saldo contabile“, atteso che, anche dopo tale soppressione, l’analisi deve riguardare ogni singolo elemento della movimentazione, quand’anche ricompresa in un’operazione unica e, a maggior ragione, quando si tratti di operazioni autonome.

Sotto altro profilo, stante l’espresso richiamo della norma alle ordinarie tipologie di accertamento induce l’Amministrazione finanziaria a ritenere che l’operatività delle presunzioni in esame si estenda, almeno dal lato dei versamenti, alla generalità dei soggetti passivi e delle diverse categorie reddituali.

Analogamente, il medesimo numero 2 prevede che, alle “stesse condizioni” (mancata considerazione in dichiarazione e rilevanza fiscale), i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito di tali rapporti od operazioni e non risultanti dalle scritture contabili, nel caso in cui il soggetto controllato non ne indichi l’effettivo beneficiario, sono considerati ricavi o compensi e accertati in capo allo stesso soggetto.

La disposizione intende procedimentalizzare l’analisi, da parte dell’ufficio finanziario, della maggior capacità di spesa non giustificata dal contribuente, e correlare tale maggior capacità di spesa con le ulteriori operazioni attive effettuate presuntivamente “in nero“.

La normativa sulle indagini finanziarie opera in modo automatico, non richiedendo ulteriori elementi di riscontro per conferire validità al controllo, consentendo, però, al contribuente – anche attraverso il contraddittorio – di dimostrare l’irrilevanza fiscale delle movimentazioni riscontrate.

Dal punto vista giurisprudenziale, di recente, la Suprema Corte, con la sentenza n. 16650 del 29 luglio 2011 (ud. del 15 aprile 2011) aveva confermato il principio secondo cui le risultanze delle indagini finanziarie sono presunzioni legali relative, accordando, comunque, al contribuente di provare l’opposto, in maniera dettagliata e circostanziata. “In virtù della presunzione stabilita dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, – che, data la fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c., per le presunzioni semplici – sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari del contribuente vanno imputati a ricavi conseguiti dal medesimo nella propria attività d’impresa, se questo non dimostra di averne tenuto conto nella determinazione della base imponibile oppure che sono estranei alla produzione del reddito (v. tra le altre Cass. nn. 9103/2001, 15447/2001)”. Tale presunzione legale è superabile attraverso una valida prova contraria fornita dal contribuente e detta prova va “valutata dal giudice in rapporto agli elementi risultanti dai suddetti conti, per verificare, attraverso i riscontri possibili (date, importi, tipo di operazione, soggetti coinvolti), se ed eventualmente a quali movimenti la documentazione fornita dal contribuente si riferisca, così da escludere dal calcolo dell’imponibile esclusivamente quanto risultante dai singoli movimenti bancari ritenuti riferibili alla produzione documentale del contribuente”. Prosegue la sentenza: “ne consegue che non può ritenersi attendibile valutazione di una eventuale prova contraria offerta dal contribuente il fatto che nella sentenza impugnata si faccia un generico riferimento – privo del benché minimo accenno ad un qualsivoglia riscontro effettuato in rapporto ai dati emergenti dai conti correnti – alla produzione di distinte relative a somme ricevute per il versamento di imposte per conto di clienti, a incassi per polizze assicurative o al recupero di crediti extraprofessionali”.

La Corte di Cassazione, quindi, come peraltro rilevato dalla sentenza che si annota, giunge alla medesima conclusione: i movimenti bancari vanno giustificati dal contribuente.

In presenza di accertamenti bancari, costituisce onere del contribuente dimostrare che i proventi “desumibili dalla movimentazione bancaria non debbono essere recuperati a tassazione“, o perchè egli ne ha già “tenuto conto nelle dichiarazioni“, o perchè (Cass. nn. 9573/2007 e 1739/2007) “non sono fiscalmente rilevanti” in quanto “non si riferiscono ad operazioni imponibili“.

Invero nei casi previsti dalle norme contenute, per l’IVA, nel D.P.R. n. 633 del 1972,art. 51 e, per l’imposta sul reddito, nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 (Cass., 26 febbraio 2009, n. 4589; Cass., 20 giugno 2008 n. 16837), “l’onere dell’amministrazione di provare la sua pretesa è soddisfatto, per volontà di legge, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti bancari” per cui “resta … a carico del contribuente l’onere di provare il contrario, realizzandosi così la riferita ipotesi d’inversione dell’onere della prova” (Cass. nn. 14018/2007, 2450/2007, 19920/2006, 28342/2005) in quanto (Cass., 14 novembre 2003 n. 17243; Cass, 16 aprile 2003 n. 6073; Cass., 1 aprile 2003 n. 4987) la presunzione di riferibilità dei movimenti bancari od operazioni imponibili si correla ad una valutazione del legislatore di rilevante probabilità (id quod plerumque accidit) che il contribuente si avvalga di tutti i conti di cui possa disporre per le rimesse ed i prelevamenti inerenti all’esercizio dell’attività“.

La stessa Corte di Cassazione, già precedentemente (sent. n. 13819 del 3 maggio 2007, dep. il 13 giugno 2007), aveva già ritenuto che la prova liberatoria, che consente di superare la presunzione di cui all’art. 32 del D.P.R. n. 600/73, non può essere meramente generica e cioè relativa all’attività esercitata, ma deve essere, altresì, specifica in relazione ad ogni singola operazione.

Ancora successivamente, con sentenza n. 6617 del 19 marzo 2009 (ud. del 23 dicembre 2008) la Corte di Cassazione ha interpretato la norma nel senso che, in tema di accertamento delleimposte sui redditi, ed al fine di superare la presunzione posta a caricodel contribuente dall’art. 32 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, (in virtùdella quale i prelevamenti ed i versamenti operati su conto correntebancario vanno imputati a ricavi conseguiti nell’esercizio dell’attivitàd’impresa), “non è sufficiente al contribuente dimostrare genericamente diavere fatto affluire su un proprio conto corrente bancario, nell’eserciziodella propria professione, somme affidategli da terzi in amministrazione, maè necessario che egli fornisca la prova analitica della inerenza alla suaattività di maneggio di denaro altrui di ogni singola movimentazione delconto” (cfr. Cass. Civ., sez. 5′, n. 13819 del 13 giugno 2007).

 

2 febbraio 2012

Roberta De Marchi