Contestazioni del Fisco sull'antieconomicità delle scelte d'impresa

Comportamenti antieconomici e possibili strategie difensive da parte del contribuente, alla luce della giurisprudenza. A cura di Giuseppe Pagani.

Le contestazioni di antieconomicità dell’impresa – Premessa

Ad oggi viene comunemente riconosciuta all’amministrazione finanziaria la possibilità di contestare la validità delle scelte e delle azioni poste in essere da un’impresa, qualora queste non siano in alcun modo giustificabili alla luce dell’ordinaria ricerca del profitto, economicamente inteso.

Cerchiamo di esaminare come tale azione possa esplicarsi, in sede di accertamento, di delineare le logiche che devono guidare le strategie difensive per i contribuenti “incisi” dalle contestazioni in esame, ed infine, quali linee giurisprudenziali si sono originate in materia nel corso degli ultimi anni.

 

 

Una definizione civilistica di impresa e di imprenditore…

…utile a circoscrivere e definire il concetto di comportamento “economico”.

Soffermarsi su questi aspetti, potrebbe apparire superfluo e didascalico; al contrario, come vedremo, è necessario, al fine di “inquadrare” compiutamente la problematica oggetto della presente analisi.

 

Chi è l’imprenditore

Il codice civile non definisce l’impresa, bensì l’imprenditore, con l’articolo 2082, che testualmente recita:

“E’ imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.”

La “professionalità” dell’esercizio consiste nell’”abitualità” dello stesso, da non confondere :

  • con la “continuità” : infatti può definirsi imprenditore anche chi esercita attività stagionali;

  • con la “prevalenza” od “esclusività” dell’attività svolta : ad ogni effetto può definirsi “imprenditore” chi svolge l’attività d’impresa in maniera non esclusiva o, addirittura, delegando ad altri la gestione operativa della medesima.

 

La natura “economica” dell’attività esercitata ed “organizzata”, implica l’utilizzo di fattori produttivi (lavoro, materie prime e capitali…) al fine di produrre o scambiare beni o servizi dotati di un valore economico : qualora infatti i prodotti realizzati risultassero privi di un proprio valore di scambio, essi non costituirebbero prodotti, nel senso “economico” del termine, né potrebbe dirsi “economica” l’attività che li ponga in essere.

 

Cos’è l’impresa

Passando alla definizione di “impresa”, che come si è detto, è soltanto di tipo mediato, essa trova un riferimento esplicito nell’articolo 2555 del codice civile, che definisce l’azienda, come

“…il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa.”

 

L’impresa, conseguentemente, potrebbe essere descritta come il frutto della “organizzazione” imprenditoriale di un complesso di beni (il patrimonio aziendale…), con finalità di produzione o scambio di beni o servizi aventi un qualche valore economico sul mercato finale di riferimento.

Non è affatto evidente che la finalità ultima della citata attività d’impresa sia quella di realizzare un profitto (o utile che dir si voglia); come è noto, infatti, esistono imprese aventi finalità “mutualistiche”, come le cooperative, tese a fornire ai soci condizioni di lavoro ovvero beni e servizi a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle presenti sui relativi mercati di riferimento.

Esistono, ancora, le imprese cosiddette “no profit”, non aventi finalità di lucro, e che non distribuiscono eventuali utili ai “soggetti” che ne detengono la titolarità.

Premesso e chiarito quanto precede, è pur tuttavia innegabile che l’attività d’impresa sia soggetta al rischio del capitale in essa investito : quanto precede, evidentemente, richiede una remunerazione di detto rischio, consistente, appunto, nella quasi totalità dei casi, nell’utile economico, o profitto.

 

 

L’antieconomicità ed il suo utilizzo in caso diaccertamento

La nota interna n° 55440/2008 dell’Agenzia delle Entrate 

comportamento entieconomico dell'imprenditore e accertamento fiscaleUna volta ammesso che il raggiungimento di un utile economico costituisca la “naturale” finalità della gestione di un’attività d’impresa, appare di conseguenza giustificata la considerazione logica secondo la quale l’antieconomicità ravvisata in tale ambito costituisca, per il fisco, un indice di evasione o, perlomeno, di elusione.

Accade pertanto che gli uffici, una volta rilevata l’esistenza di scelte o comportamenti non giustificabili dal punto di vista economico, procedano a rettificare i componenti reddituali contabilizzati in conseguenza di dette scelte, andando così ad incidere sulla correlata dichiarazione dei redditi presentata dall’impresa sottoposta a verifica.

In particolare i verificatori, pur non rilevando, nel corso del controllo, specifiche violazioni della normativa fiscale, possono notare operazioni che, a loro giudizio:

  1. trattandosi di acquisti, configurino costi sostenuti, in tutto o parte, non deducibili, perchè non inerenti ;
  2. trattandosi di operazioni attive, risultino sotto stimate, conducendo alla contestazione circa l’esistenza di maggiori ricavi.

 

A conferma di quanto affermato poc’anzi è intervenuta, nel corso del 2008, la nota interna numero 55440, emessa dall’Agenzia delle Entrate, secondo cui i comportamenti che sono da definirsi come palesemente antieconomici, possono configurarsi, sia con l’eccessivo ammontare di componenti negativi di reddito, sia con un illogica compressione di componenti positivi.

Secondo l’Agenzia, a seguito dell’individuazione da parte dell’Ufficio di una condotta antieconomica, segue un ribaltamento dell’onere della prova sul contribuente1: quest’ultimo è chiamato a fornire una ragionevole giustificazione circa il comportamento adottato. Qualora non risultasse in grado di fornire adeguata motivazione, si vedrà rettificare il componente negativo (in tutto o parte) dedotto, ovvero il componente positivo non dichiarato (o dichiarato soltanto parzialmente).

 

Alla luce delle istruzioni impartite agli uffici, questi sarebbero tenuti ad osservare una determinata sequenza di adempimenti, che vado a descrivere di seguito :

  • individuazione del costo o del ricavo considerato anomalo, rispetto alle “dimensioni” ed alla tipologia dell’attività d’impresa;

  • descrizione delle ragioni alla luce delle quali si descrive come“antieconomica” una certa soluzione, o scelta operativa, che ha generato i costi (od i ricavi) oggetto di contestazione;

  • identificazione della “corretta entità” da attribuire ai componenti reddituali rettificati, onde poterli ricondurre ad un ambito ritenuto congruo, rispetto alle caratteristiche ed ai dati tipici dell’impresa oggetto di verifica;

  • attivazione di un contraddittorio tra l’ufficio ed il contribuente sottoposto a controllo, teso a testare concretamente la solidità delle pretese dell’amministrazione, poste a confronto con le giustificazioni difensive portate dallo stesso contribuente. Quanto precede facendo attenzione a distinguere i casi in cui le operazioni sotto osservazione abbiano interessato soggetti appartenenti ad un medesimo “gruppo”, ovvero un unico centro di interesse economico.

  • A seguito del predetto contraddittorio, l’ufficio, nella motivazione dell’atto impositivo emesso, illustrerà le ragioni che lo hanno condotto a considerare inconsistenti, o comunque insufficienti, le motivazioni addotte dal contribuente, perseverando quindi nelle proprie posizioni, circa l’antieconomicità delle operazioni da questi poste in essere, e le rettifiche eseguite sui componenti reddituali ad esse connessi ;

  • l’ufficio dovrà, quindi, procedere ad una debita evidenziazione, nel medesimo atto impositivo, delle argomentazioni giurisprudenziali e dottrinali, poste a supporto delle rettifiche in esame; particolare attenzione dovrà essere prestata alle considerazioni inerenti la “congruità dimensionale” dei componenti di reddito interessati dalle rettifiche, rispetto alla realtà dell’impresa sottoposta a controllo ;

  • formalizzazione dei rilievi così descritti e motivati, in base al disposto di cui all’articolo 39, comma 1, lettera d, del d.p.r. n. 600/73. Quanto precede deve essere accompagnato dalla precisazione, di assoluto rilievo, secondo cui non viene messa in discussione l’attendibilità complessiva delle scritture contabili, bensì la rappresentazione fiscale di operazioni che sono state oggetto di analitiche contestazioni e rettifiche.

 

La richiamata direttiva impartita agli uffici ricorda, inoltre, come i rilievi fondati sull’antieconomicità abbiano risvolti e conseguenze impositive che si estendono anche all’ambito dell’imposta sul valore aggiunto: le rettifiche inerenti la ripresa a tassazione di un costo, ad esempio, comporteranno il recupero dell’Iva indebitamente detratta al momento dell’acquisto.

D’altro canto, le rettifiche relative ad una diversa e maggiore quantificazione dei componenti positivi di reddito, saranno foriere di un maggior debito Iva, a carico del soggetto sottoposto a verifica.

 

 

Le principali fattispecie applicative e le correlate strategie difensive.

Ribaltamento dell’onere probatorio

Come si è avuto modo di evidenziare in precedenza, l’individuazione di comportamenti considerati dai verificatori come “non rispondenti” ai criteri di economicità, di norma utilizzati quali “bussola” per le scelte d’impresa, legittima l’accertamento analitico-presuntivo, esperito ai sensi dell’articolo 39, comma 1, lettera d, del d.p.r. n. 600/73.

La citata tipologia di accertamento consente agli uffici di procedere a rettifiche capaci di incidere sulla base imponibile, “…anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”.

Orbene ritengo di primaria importanza cercare di chiarire cosa concretamente si intenda con tale locuzione, cui siamo da tempo abituati, ma che non sempre “abbaglia” per chiarezza, specie con riferimento ai propri risvolti applicativi.

 

Quando una presunzione può dirsi “semplice”?

Le “presunzioni semplici” sono quelle che la legge lascia al libero apprezzamento del giudice, diversamente da quelle “legali”, che sono quelle il cui valore probatorio è riconosciuto in via definitiva dalla legge, senza che il giudice ne possa valutare la consistenza in piena autonomia.

Le presunzioni “legali” si possono poi distinguere in “relative” o “assolute”, a seconda che, contro di esse, sia possibile, o meno, fornire prova contraria.

L’articolo 2729 del codice vigente, in materia di “Presunzioni semplici” recita testualmente : “Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice…”.

Ne consegue che si tratta di logiche presuntive utilizzate dal giudice per risalire ad un fatto ignoto, partendo da uno noto. La norma civilistica citata prosegue poi affermando che il giudice

“… non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti.”

Con l’ espressione citata, la norma evidenzia che la libertà di valutazione assegnata ai giudici non è illimitata, dovendo al contrario essere accompagnata da particolare cautela, tesa a delimitare attentamente le possibilità di utilizzo, in ambito processuale, di ragionamenti di tipo presuntivo.

Nello specifico, con la definizione “gravi e precise”, si intende che le logiche presuntive, per essere utilizzabili nel processo, devono essere “serie”, cioè fortemente conseguenziali in senso deduttivo.

Ulteriore condizione necessaria e concomitante con la gravità e precisione, è quella della “concordanza”: nel caso in cui si intendano utilizzare più “indizi”, questi dovranno avere carattere concordante, nel senso di “convergente” in una stessa direzione logica.

Sebbene le principali direttive siano orientate nel richiamare l’attenzione degli uffici sulle casistiche di macroscopica evidenza, di fatto si assiste con una certa frequenza al ricorso al criterio dell’antieconomicità, con riferimento a casi aventi rilevanza “dimensionale” e quantitativa piuttosto modesta.

Sono infatti sufficienti un risultato economico negativo, o l’acquisizione di fattori produttivi presso un fornitore appartenente ad un medesimo gruppo societario, per far scattare i controlli: da notare, poi, che nell’ambito di operazioni effettuate tra partecipanti ad un medesimo gruppo, l’attenzione dei verificatori volge ad aspetti tra loro contrastanti, ed in aperta contraddizione logica, al semplice variare del soggetto sottoposto a verifica.

Qualora il controllo riguardi l’impresa acquirente, le rettifiche contesteranno l’eccessivo ammontare degli oneri dedotti ; se invece, specularmente, la verifica fosse rivolta all’impresa venditrice, le rettifiche avrebbero ad oggetto la sottostima dei componenti positivi dichiarati da quest’ultima.

Quanto precede, evidentemente, espone i contribuenti ad una sostanziale “arbitrarietà” dell’azione erariale, evidenziando l’assenza di regole precise e definite, cui poter fare riferimento.

Conseguentemente, anche l’azione difensiva, svolta a tutela del contribuente, andrà “calibrata” di volta in volta, alla luce della casistica che concretamente viene a configurarsi; restano due punti fermi sui quali conviene soffermare l’attenzione:

  • occorre contestare la potestà degli uffici di rettificare componenti di reddito, unicamente basandosi sull’antieconomicità dei comportamenti che hanno generato i predetti costi e ricavi, illustrando la giurisprudenza che si è espressa in tal senso;

  • occorre, inoltre, contestare l’antieconomicità delle scelte richiamate dai verificatori, portando le debite considerazioni ed ogni documentazione probatoria favorevole, ed evidenziando l’assenza di qualsivoglia risparmio d’imposta, in conseguenza delle scelte operate.

 

Si rende necessario, in questa sede, precisare al giudice che i casi di giurisprudenza favorevole all’amministrazione, cui fa riferimento l’atto impositivo emesso, riguardano casi in cui i comportamenti antieconomici sono del tutto manifesti, e portano ad evidenti distorsioni della “realtà” d’impresa cui si riferiscono : tutto ciò, tuttavia, non può introdurre un generico potere di contestazione su atti od operazioni, di per sé legittimi, secondo arbitrarie prese di posizione degli uffici, utili unicamente ad aumentare artificiosamente la base imponibile del soggetto verificato.

 

Effettuata questa doverosa premessa, utile a far luce sulla natura delle presunzioni utilizzabili dagli accertatori, ed all’esame del “meccanismo” procedurale da seguire ad opera degli uffici, cercherò di esaminare le principali fattispecie che possono “innescare” le rettifiche da antieconomicità… .

 

I compensi agli amministratori : contestazioni ed ipotesi difensive.

L’ufficio rettifica il costo dedotto dalla società, evidenziandone l’eccessivo ammontare e la conseguente antieconomicità: di seguito procede ad attribuire al predetto costo un valore ritenuto corretto, riprendendo a tassazione la parte o quota eccedente rispetto a tale ammontare.

Il contribuente dovrà, da un lato, evidenziare, richiamando la giurisprudenza a sé favorevole, l’arbitrarietà e pretestuosità delle posizioni assunte nell’atto impositivo. D’altro lato, potrà mettere in discussione l’antieconomicità attribuita agli atti, o scelte d’impresa, contestate dall’ufficio, portando anche le logiche argomentative e documentali capaci di giustificare l’importo erogato all’amministratore, ed evidenziando, ad esempio, che l’aliquota marginale Irpef applicata in capo all’amministratore stesso, genera un maggior prelievo, rispetto a quanto avrebbe pagato la società, riducendo il compenso stesso.

Approfondisci: Compenso amministratori abnorme, antieconomicità della gestione dell’azienda

 

Operazioni interne ad un gruppo societario

In sede di controllo, eseguito nei confronti di una società appartenente ad un gruppo, quest’ultima subisce delle rettifiche di costi, sostenuti per beni o servizi resi da altre imprese, partecipanti al medesimo gruppo.

 
Il contribuente deve difendersi evidenziando:
  • la sostanziale correttezza delle condizioni economiche applicate all’operazione, anche portando dati risultanti da operazioni dello stesso genere, eseguite da soggetti “esterni” al gruppo cui partecipa l’impresa sottoposta a verifica;

  • la non veridicità dei valori individuati dall’ufficio, dimostrata con i medesimi raffronti poc’anzi richiamati;

  • l’assenza di vantaggi fiscali concretizzati all’interno del gruppo, stante il criterio affermato dalla stessa Agenzia delle Entrate, in seno alla direttiva (o nota) più volte richiamata in precedenza, che testualmente recita: “…se ad un costo dedotto si contrappone un ricavo, integralmente ed effettivamente, tassato in capo ad un altro soggetto, la plausibilità del prelievo perderà inevitabilmente di consistenza”.

 

Mancata applicazione di penali a seguito di inadempimenti o ritardi.

Può accadere, ed accade realmente, nella prassi operativa, che un’impresa, pur prevedendo contrattualmente l’applicazione di penali per inadempimenti vari, quali ritardi nelle consegne di beni, o la ritardata esecuzione di servizi, di fatto non le applichi, nei confronti dei fornitori cui abitualmente si rivolge .

Tale comportamento viene contestato dall’ufficio, che ritiene antieconomiche le rinunce all’applicazione di penali, ed applica le rettifiche conseguenti al mancato addebito delle stesse, imputando al contribuente maggiori componenti positivi, rispetto a quanto dallo stesso dichiarato.

L’impresa che subisce tali rettifiche, può difendersi contestando l’impossibilità di applicare asetticamente le penali previste, stante la necessità di conservare un rapporto di carattere fiduciario con i propri fornitori, e vista la sostanziale assenza di danni quantificabili, in conseguenza dei ritardi di cui si è detto.

Si potrebbe, ancora, obiettare, che proprio con l’applicazione di penali, l’impresa avrebbe realizzato comportamenti aventi profili di antieconomicità, ravvisabili nelle difficoltà di ultimazione dei lavori commissionati ai fornitori interessati, e nei consistenti oneri economici correlati alle conseguenti vertenze legali, dall’esito tutt’altro che certo.

 

Risultati economici insoddisfacenti o negativi.

Si è talvolta verificata anche la contestazione di antieconomicità, sulla base dei soli risultati economici, scarsamente soddisfacenti, o negativi, realizzati da un’impresa : il fisco ritiene non credibile il portare avanti una gestione che non riesce a produrre utili capaci di remunerare l’attività, e di capitalizzare debitamente l’impresa, facilitandone, tra l’altro, l’accesso al credito.

In queste ipotesi, gli uffici rettificano il risultato economico conseguito, prendendo a riferimento indici economici settoriali, od altri indici gestionali elaborati dagli stessi verificatori, o ripresi dalla dottrina.

L’impresa, in queste ipotesi, può difendersi evidenziando le ragioni che hanno generato i modesti utili, o addirittura le perdite economiche: quanto precede può effettuarsi anche dimostrando l’andamento economico caratterizzante il settore di interesse, e quello di concorrenti, ed altri “attori” del medesimo mercato di riferimento.

L’impresa può, ulteriormente, avvalorare la bontà dei dati indicati nella propria dichiarazione, e conseguentemente, il risultato economico conseguito, affidandosi all’esito degli studi di settore.

Se infatti l’impresa risultasse in linea con gli studi di settore, potrebbe sfruttare le risultanze degli stessi in proprio favore, dimostrando la pretestuosità delle pretese erariali : in tal caso, infatti, la sola alternativa, sarebbe quella di coinsiderare del tutto inaffidabili gli studi di settore, che costituiscono un’elaborazione ministeriale, sulla quale tanto l’amministrazione ha investito e continua ad investire.

 

 

Principali “linee” di interpretazione giursiprudenziale

Orientamento consolidato espresso dalle decisioni della Suprema Corte (2), concorda nel ritenere che l’antieconomicità sia indice di evasione od elusione.

A tale proposito, la sentenza n. 1821 del 09.02.2001 recita: in tema di imposte sui redditi, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento ai sensi dell’articolo 39, comma 1, lettera d, del d.p.r. n. 600/73; a tale riguardo il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie.

La stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6337 del 03.05.2002, ha precisato che

“in tema di accertamento sulle imposte sui redditi, la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, ai sensi dell’articolo 39, primo comma, lettera d), del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile, in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente. In tali casi è, pertanto, consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente”.

 

Altra interessante sentenza espressa dalla cassazione, sempre su questa linea interpretativa, è la numero 20422 del 21 ottobre 2005, che ha stabilito che

“in tema di accertamento delle imposte sui redditi, anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, i ricavi possono essere ritenuti falsi in base alla loro sproporzione per difetto rispetto ai costi, ed in tale contesto è ammissibile un accertamento analitico-induttivo, il quale tenga conto delle poste passive indicate dal contribuente, per ricostruire i ricavi effettivi; trattasi, in tal caso, non già di accertamento induttivo “tout court”, ma di accertamento analitico-induttivo, che è sempre legittimo quando l’esposizione dei ricavi sia talmente ridotta rispetto ai costi, da indurre a ritenere antieconomica la gestione”.

 

Tutte le citate sentenze confermano la possibilità, per l’amministrazione finanziaria, di entrare nel merito delle scelte imprenditoriali, non solo per disconoscere gli eventuali vantaggi fiscali, (le cosiddette “norme antielusive”), ma anche al fine di legittimare un accertamento di tipo induttivo, fondato unicamente sull’antieconomicità della gestione, tale da far supporre un’evasione di imposta.

In merito, la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (con la sentenza n. 10650 del 3.08.2001) ha affermato che “va tenuto conto che l’antieconomicità di un comportamento può rappresentare un serio elemento probatorio in ordine ad una evasione”.

Nei casi in cui il contribuente non sia riuscito a rendere conto della “ratio” posta a base delle proprie scelte d’impresa, le quali3 “…non seguivano la logica del profitto, anzi erano prive di una valida ragione economica, che neppure la società era stata in grado di indicare, restando trincerata sulla legittimità formale del suo operato”, l’ufficio trova forte appoggio nella giurisprudenza prevalente, anche di legittimità.

Tale “linea” interpretativa, favorevole all’amministrazione, combina il concetto di “valore normale” definito a fini tributari, con il principio dell’economicità dell’attività d’impresa, di derivazione civilistica : i costi che non risultino in linea con il valore normale, risultano antieconomici e, conseguentemente, passibili di indeducibilità.

Attribuita valenza presuntiva all’antieconomicità, “la palla” passa al contribuente, sul quale grava l’onere di “smontare” la presunzione così costruita, onde difendere la deducibilità degli oneri sostenuti (o la bontà dei componenti positivi dichiarati, qualora su di essi gravi la presunzione che ne affermi una sottostima).

Esiste tuttavia una diversa “linea” interpretiva, favorevole ai contribuenti, che nega il potere di sindacabilità delle scelte imprenditoriali: si vedano, in merito le sentenze della Cassazione nn. 24957/2010 e la 6599/2002.

Questa tendenza si è riferita, specificamente, alla problematica della deducibilità dei compensi erogati agli amministratori, ed afferma il principio per cui “il costo è inerente se serve a produrre ricavi; una volta accertata questa qualità del costo, è abbastanza difficile potere dire (senza scivolare in una zona grigia, tendenzialmente molto discrezionale) in quale misura esso è deducibile o meno, tranne che non vi sia una indicazione normativa specifica, che ponga un tetto alle spese”.

E’ quindi evidente che, se il Legislatore non ha definito esplicite limitazioni, queste non possono in alcun modo essere introdotte, né dall’amministrazione, né dai giudici di legittimità.

Il potere, in capo all’amministrazione, di sindacare determinati comportamenti, trova la propria fonte normativa nell’articolo 37-bis del d.p.r. n. 600/73, che ne definisce le particolari ipotesi di applicazione: ipotesi al di fuori delle quali non è possibile, per gli uffici, arrogarsi il diritto di interferire arbitrariamente nelle scelte d’impresa.

 

28 luglio 2011

Giuseppe Pagani

 

NOTE

1 Francesco Falcone, Antonio Iorio, “il fisco pesa l’antieconomicità”, in “Il sole 24 Ore” del 04.04.2011.

2 Domenico Riccio, “L’antieconomicità come indice di evasione fiscale”, in “domenico riccio diritto blog”, 11.02.2010.

3 Cassazione, sentenza n°14428 depositata l’08.07.2005.