La mancata attivazione dell’attività economica per il contrasto alle società di comodo

In sede di dichiarazione dei redditi il test di non operatività è sempre un problema da affrontare: la nostra analisi parte dai principi contabili ed arriva alla corretta interpretazione delle norme fiscali di riferimento.

Il contrasto alle società non operative

società di comodoCome è noto, la normativa di contrasto al fenomeno delle società non operative (c.d. di comodo) è stata inasprita nel 2006, nella convinzione che fosse opportuno escludere l’utilizzo strumentale di «schemi» societari per la mera gestione improduttiva di beni «privati», indotta dalla ricerca della soluzione fiscalmente più vantaggiosa.

Tale configurazione della norma speciale consente di apprezzare il carattere fiscalmente «ambivalente» della gestione economica dell’impresa, o, per meglio dire, dell’attività economica (industriale-commerciale) effettiva: questa deve infatti obbligatoriamente sussistere se si intende fruire del regime fiscale riservato alle attività economiche (determinazione analitica del reddito, detraibilità dell’IVA, etc.), ma può precludere la fruizione degli ulteriori vantaggi che si associano – ad esempio – all’esercizio di attività agricole, ovvero di attività non lucrative di tipo associativo (non commerciale).

L’effettivo esercizio dell’attività industriale-commerciale circoscrive insomma l’area del «sistema d’impresa», destinatario di un regime tributario analitico e complesso, generalmente più favorevole rispetto a quello cui sono soggette le persone fisiche «non imprenditrici» e finalizzato alla tassazione di un reddito netto, depurato dalle componenti di costo e fondato sugli schemi civilistici di bilancio.

Inoltre, guardando a normative settoriali nell’ambito del reddito di impresa, l’attività in questione (se riconosciuta sussistente in capo alla partecipata) legittima la disapplicazione della tassazione in Italia delle società estere CFC, nonché – insieme alle altre condizioni normativamente previste – la fruizione del regime di participation exemption (pex).

L’attività industriale-commerciale è altresì quasi strutturalmente legata all’utilizzo, da parte dell’impresa, di beni strumentali, in grado di configurare quell’«autonoma organizzazione» che leggi, prassi e giurisprudenza individuano come un presupposto fondamentale dell’IRAP.

Nel contesto del contrasto alle società di comodo, l’esercizio di un’effettiva attività economica non è visto come il «peccato» in grado di causare una conseguenza dannosa (ad esempio, la decadenza del regime degli enti non commerciali, oppure la debenza dell’IRAP), bensì come la condizione – consistente nella presenza di una realtà (attuale o progettuale-prospettica) – che legittima il mantenimento della struttura societaria, consentendo alla stessa di non essere tassata secondo i coefficienti presuntivi di cui all’art. 30 della L. n. 724/1994 e di non perdere il diritto alla detrazione, al rimborso e alla compensazione dell’IVA a credito.

 

Le attività «prodromiche» sono già «attività d’impresa»?

L’impresa – intesa nell’accezione di attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi – non sorge, evidentemente, già funzionante, ma necessita di una fase di preparazione, della quale occorre tener conto sia nella predisposizione del bilancio che ai fini tributari.

Tale fase può essere vista già quale manifestazione di attività imprenditoriale, ovvero come un periodo «prodromico», inidoneo a produrre gli effetti che sono invece ricondotti all’attività di «gestione».

A tale riguardo, occorre verificare – con il supporto della prassi e della giurisprudenza in materia, nonché alla luce dei principi contabili – a quali condizioni e in quali termini assumano rilevanza le operazioni effettuate «non ancora» dall’impresa «operante», ovvero in fasi nelle quali l’operatività è ridotta o assente.

 

 

Le norme civilistiche di riferimento

I costi di impianto e avviamento – così come quelli di ricerca, sviluppo e pubblicità aventi utilità pluriennale – possono essere iscritti nell’attivo con il consenso, ove esistente, del collegio sindacale e devono essere ammortizzati entro un periodo non superiore a 5 anni, a norma dell’art. 2426, quinto comma, del codice civile. Finché l’ammortamento non è completato possono essere distribuiti dividendi solamente se residuano riserve disponibili sufficienti a coprire l’ammontare dei costi non ammortizzati.

Il successivo sesto comma dell’articolo in esame si occupa invece dell’avviamento, stabilendo che esso può essere iscritto nell’attivo con il consenso del collegio sindacale (ove esistente), se acquisito a titolo oneroso, nei limiti del costo per esso sostenuto, va ammortizzato entro un periodo di 5 anni.

È tuttavia consentito ammortizzare sistematicamente l’avviamento in un periodo limitato di durata superiore, purché esso non superi la durata per l’utilizzazione di questo attivo e ne sia data adeguata motivazione nella nota integrativa.

Come i costi di impianto, anche l’avviamento «si genera» (o, per meglio dire, se ne genera il presupposto, ossia l’inizio dell’attività d’impresa) nella fase iniziale dell’attività: esso consiste infatti in un «bene» sui generis, che esprime l’idoneità dell’impresa a produrre un risultato economico, ma non già il suo funzionamento «a regime».

 

 

Cosa dicono i principi contabili?

Con riguardo sia ai costi di impianto e ampliamento, sia all’avviamento, occorre tener conto delle elaborazioni apportate dall’Organismo Italiano di Contabilità (OIC) in conseguenza dell’influsso esercitato dai principi contabili internazionali.

A tale riguardo, può essere evidenziato che il principio OIC n. 24 (Immobilizzazioni immateriali) individua i primi come costi dotati di «… una intrinseca caratteristica di spiccata maggior aleatorietà rispetto ad altre poste dell’attivo patrimoniale», riconducibili ad «… oneri che vengono sostenuti in modo non ricorrente dall’azienda in precisi e caratteristici momenti della vita dell’impresa, quali la fase pre-operativa o quella di accrescimento della capacità operativa esistente».

Secondo l’OIC, tale categoria comprende tutti i costi e le spese direttamente sostenuti per:

  • la costituzione della società (costi inerenti l’atto costitutivo, le relative tasse, le eventuali consulenze, l’ottenimento delle licenze, di permessi e autorizzazioni, etc.);

  • la costituzione dell’azienda, intesa come assieme organizzato di beni, strumenti e persone (costi sostenuti per disegnare e rendere operativa la struttura aziendale, o per studi preparatori, ricerche di mercato, addestramento del personale etc., necessari ad avviare l’attività aziendale);

  • l’ampliamento della società e dell’azienda, inteso non come il naturale semplice processo di accrescimento quantitativo e qualitativo dell’impresa, ma come una vera e propria espansione della stessa in direzioni ed in attività precedentemente non perseguite, o verso un ampliamento quantitativo con misura «straordinaria», nella prospettiva dell’espansione dell’attività sociale.

I costi di start-up, capitalizzabili secondo la facoltà concessa dalla norma civilistica, non sono invece capitalizzabili secondo lo IAS 38.

Tra di essi, sempre seguendo il «tracciato» del principio OIC, possono includersi anche le spese per aumento del capitale sociale, per operazioni di trasformazione, fusione, scissione, per l’avviamento di nuove produzioni, i costi di preapertura di nuovi centri commerciali, le spese per l’ammissione alla quotazione in borsa dell’impresa, etc. Per tutti i costi in rassegna, l’iscrizione nell’attivo patrimoniale è subordinata alla verifica della congruenza e del «… rapporto causa-effetto tra i costi in questione ed il beneficio (futura utilità) che dagli stessi l’impresa si attende», per ogni singola componente di costo.

Il fatto che l’ammortamento dei costi capitalizzati di impianto ed ampliamento debba limitarsi a un quinquennio risponde, secondo l’OIC, al principio di prudenza, giacché la loro valutazione si presenta particolarmente incerta e il loro contenuto non possiede un autonomo valore di mercato.

 

Ammortamento o impairment test?

Nel predetto principio OIC n. 24 è fornito resoconto della novità consistente nella valutazione al fair value delle immobilizzazioni materiali, immateriali e finanziarie, la quale comporta il superamento del metodo dell’ammortamento sistematico a opera di quello fondato sull’impairment test («test del danneggiamento»).

Ne consegue che tali immobilizzazioni – nell’ottica dell’applicazione dei principi contabili internazionali – dovranno annualmente essere sottoposte all’impairment test, confrontando il valore di bilancio con il relativo valore di mercato o d’uso.

Secondo il par. 24 dello IAS 36, le attività immateriali con vita utile indefinita devono essere verificate annualmente per riduzione durevole di valore confrontando il valore contabile con il valore recuperabile, a prescindere se esistano o meno indicazioni che possa aver subito una riduzione durevole di valore.

Alla luce delle indicazioni che promanano dai documenti ufficiali, l’«orizzonte» dei principi contabili internazionali prevede quindi una rilevanza dei costi di start-up non più quali entità soggette ad ammortamento, ma quali perdite di valore implicite in sede di impairment test.

Sotto il profilo che qui interessa – ossia la valutazione della suscettibilità delle attività «non (ancora) attivata» a costituire già «attività di impresa», con le relative conseguenze ai fini fiscali -, non sembrerebbero esservi conseguenze dirette, dato che in ambedue i casi i costi in questione sono valutabili e concorrono all’economia dell’impresa (suggerendo un trattamento tributario coerente con tale impostazione).

 

Il principio di inerenza nel TUIR

Il principio di inerenza riveste un’importanza cruciale nel sistema del reddito d’impresa, e si impernia sull’art. 109, quarto comma, del TUIR, ove è stabilito che

«le spese e gli altri componenti negativi non sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui non risultano imputati al conto economico relativo all’esercizio di competenza».

Il secondo periodo del comma, di recente inserimento, aggiunge che «si considerano imputati a conto economico i componenti imputati direttamente a patrimonio per effetto dei principi contabili internazionali», e che

«sono tuttavia deducibili:

  • quelli imputati al conto economico di un esercizio precedente, se la deduzione è stata rinviata in conformità alle precedenti norme della presente sezione che dispongono o consentono il rinvio;

  • quelli che pur non essendo imputabili al conto economico, sono deducibili per disposizione di legge».

Non esistono quindi preclusioni, in linea generale, quanto alla possibilità di attribuire rilevanza fiscale ai costi di start-up, sia che questa rilevanza discenda dal processo di ammortamento, sia che essa consegua all’applicazione del criterio dell’impairment test (come si evince dal comma 1-ter dell’art. 110 del TUIR, inserito dall’art. 1, c. 58, della Finanziaria 2008).

 

Inerenza e IVA

Ogni discorso sull’inerenza riferita all’IVA non può prescindere da un previo esame della direttiva CEE n. 112 del 28.11.2006, la quale ha integralmente sostituito la Sesta direttiva nel disciplinare il sistema dell’imposta a livello europeo.

In particolare, l’art. 1, secondo comma, della nuova direttiva afferma che «il principio del sistema comune d’IVA consiste nell’applicare ai beni ed ai servizi un’imposta generale sui consumi esattamente proporzionale al prezzo dei beni e dei servizi, qualunque sia il numero delle operazioni intervenute nel processo di produzione e di distribuzione antecedente alla fase d’imposizione. A ciascuna operazione, l’IVA, calcolata sul prezzo del bene o del servizio all’aliquota applicabile al bene o servizio in questione, è esigibile previa detrazione dell’ammontare dell’imposta che ha gravato direttamente sul costo dei diversi elementi costitutivi del prezzo».

Alla luce di tali principi, il diritto alla detrazione non appare condizionato dal fatto che vi sia stato un effettivo svolgimento di attività commerciale, piuttosto che tale svolgimento sia stato solamente programmato dall’impresa.

La natura dell’IVA, quale si manifesta nelle norme comunitarie di riferimento, è quella di un tributo «trasparente», il cui assolvimento da parte di un’impresa legittima di per sé la sua detrazione o il suo rimborso, al di là delle vicende – successive ed eventuali – dell’impresa stessa, o delle attività in funzione delle quali erano stati effettuati degli investimenti «prodromici».

D’altra parte, ai fini dell’IVA, sarebbe arduo affermare che i costi «preliminari» sostenuti per l’avviamento di un’impresa societaria non si possano inquadrare in un’attività a sé stante, in considerazione del fatto che il soggetto neo-costituito, libero dei costi in propria vece sostenuti dalla «società preparatoria», avvalendosi dei beni e servizi acquisiti, svolge regolarmente la propria attività d’impresa.

Tra l’altro, risulta in tal modo avvalorato un concetto di inerenza esteso anche a soggetti IVA ulteriori rispetto a quello che ha effettuato le operazioni passive, in linea con quanto osservato – in tema di elusione fiscale nel campo delle imposte sui redditi, ma con riflessioni potenzialmente valide anche per gli altri tributi – dall’Associazione Dottori Commercialisti di Milano, richiamando la sentenza della Corte di Giustizia 17.7.1997, nella causa C-28/95 («Leur–Bloem»).

Secondo tale pronuncia, la nozione di «valide ragioni economiche» deve ritenersi estesa anche a «interessi esterni» rispetto a quelli della società che pone in essere l’operazione potenzialmente elusiva (vedi Associazione Dottori Commercialisti di Milano, Norma di Comportamento n. 147 – Nozione di «valide ragioni economiche», disponibile sul sito www.adcmi.it).

 

Le società di comodo

Secondo le vigenti norme in materia di società «di comodo», di cui alla L. n. 724/1994 e s.m.i., il mancato o «insufficiente» esercizio dell’attività è sanzionato da una presunzione legale in base alla quale l’Amministrazione disconosce il reddito effettivo e impone la rideterminazione dello stesso in base all’applicazione di determinate percentuali, a prescindere dalla realtà economica dell’impresa e all’eventuale adozione della contabilità ordinaria.

Ai fini delle imposte sui redditi, quindi, la determinazione del reddito minimo presunto si sovrappone al sistema analitico vigente in generale per il reddito d’impresa, mentre per l’IVA scattano i vincoli alla fruizione dei crediti maturati.

Per tali società infatti, secondo il quarto comma dell’art. 30 della L. n. 724/1994 – e salvo il positivo esperimento dell’interpello disapplicativo ex art. 37-bis, co. 8, D.P.R. 600/1973 – l’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione presentata ai fini IVA non è ammessa al rimborso e non può essere compensata ai sensi dell’art. 17, D.Lgs. 241/1997, né ceduta ai sensi dell’art. 5, co. 4-ter, D.L. 14.3.1988, n. 70, convertito con modificazioni dalla L. 13.5.1988, n. 154. Inoltre, un ulteriore penalizzazione è prevista nel caso in cui la società tre periodi d’imposta consecutivi non abbia effettuato

«…operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto non inferiore all’importo che risulta dalla applicazione delle percentuali di cui al comma 1»:

in tale ipotesi, infatti, l’eccedenza di credito non è neppure riportabile a scomputo dell’IVA a debito relativa ai successivi periodi d’imposta, e pertanto – sostanzialmente – il credito è perduto in via definitiva.

 

Questioni di legittimità comunitaria

Secondo quanto è stato evidenziato dall’Associazione Dottori Commercialisti di Milano in una «denuncia» sottoposta alle autorità comunitarie, la mancata previsione della possibilità di ottenere la disapplicazione attraverso la produzione di una prova contraria in sede di accertamento e l’obbligo di procedere mediante interpello «risulta contraria al principio della certezza che fa parte dell’ordinamento giuridico comunitario»: a tale riguardo, è citata la sentenza della CGCE del 14.9.2006, nei procedimenti riuniti C-181/04 e 183/04, «Elmeka», punto 31, oltre alle altre pronunce ivi richiamate.

L’ADC osserva a tale riguardo che la limitazione all’utilizzo dei crediti IVA contrasta con l’art. 18, paragrafo 4, della sesta direttiva, ove è prescritto che «qualora per un dato periodo fiscale, l’importo delle deduzioni autorizzate superi quello dell’imposta dovuta, gli Stati membri possono procedere al rimborso o riportare l’eccedenza al periodo successivo, secondo le modalità da essi stabilite».

Nella nuova direttiva 28.11.2006 n. 2006/112/CE, l’art. 183, primo comma, non differisce sostanzialmente sul punto, quanto alla necessità, nel sistema dell’IVA, di riconoscere il rimborso o il riporto dell’IVA detraibile.

Il diritto alla detrazione infatti, come confermato dalla pronuncia della CGCE del 6.7.1995, in esito alla causa C-62/93, «… va esercitato immediatamente per tutte le imposte che hanno gravato le operazioni effettuate a monte».

Con l’enunciato principio si è dimostrata coerente anche la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 13079 del 17.6.2005. Tale diritto

«… non è, linea di principio, influenzato dalla inoperatività del soggetto agente»: a tale riguardo, l’ADC cita ancora la Corte di Giustizia (sentenze 29.2.1996, causa C-110/94; 15.1.1998, causa C-37/95; 29.2.1996, causa C-110/94), la quale ha puntualizzato che «… salvo nei casi di situazioni fraudolente o abusive, la qualità di soggetto passivo IVA non può essere revocata con effetto retroattivo a tale società, qualora, in considerazione dei risultati di tale studio, si sia deciso di non passare alla fase operativa e di metterla in liquidazione, di modo che l’attività economica prevista non ha dato luogo ad operazioni imponibili».

 

L’IVA relativa agli atti preparatori

Nella sentenza 14.2.1985, relativa alla causa 268/83, «Rompelman» (la pronuncia citata, come le altre che vengono richiamate nell’articolo, è disponibile, anche in lingua italiana, sul sito della Corte di Giustizia delle Comunità Europee), la Corte di Giustizia ha stabilito quanto segue:

  • le attività economiche di cui all’art. 4, n. 1, della Sesta Direttiva, possono consistere in vari atti consecutivi;

  • gli atti preparatori, come il procurarsi i mezzi per esercitare tali attività e, pertanto, anche l’acquisto di un bene immobile, devono già ritenersi parte integrante delle attività economiche.

Anche le prime spese di investimento effettuate ai fini di una data operazione possono quindi essere considerate come attività economiche ai sensi dell’art. 4 della Sesta direttiva l’attuale riscontro normativo comunitario è rinvenibile nell’art. 9 della direttiva del 2006.; in tale contesto, l’Amministrazione deve prendere in considerazione la dichiarata intenzione dell’impresa.

Se l’Amministrazione ha riconosciuto la qualità di soggetto passivo IVA di una società che ha dichiarato la propria intenzione di avviare un’attività economica che dà luogo ad operazioni imponibili, la realizzazione di uno studio sugli aspetti tecnici ed economici dell’attività programmata può quindi essere considerata come un’attività economica, anche se tale studio è finalizzato solamente a esaminare la prevista redditività dell’attività stessa. Alle medesime condizioni, l’IVA versata per tale studio può in via di principio essere detratta.

La detrazione operata rimane acquisita anche se, successivamente, si è deciso, in considerazione dei risultati dello studio, di non passare alla fase operativa e di porre la società in liquidazione.

In armonia con le statuizioni dei Giudici comunitari, la Corte di Cassazione italiana, nella sentenza della Sezione tributaria n. 6083 del 26.4.2001, ha ritenuto che una società di capitali avesse diritto alla detrazione dell’imposta sugli acquisti anche se la stessa aveva realizzato solamente operazioni passive propedeutiche all’avviamento dell’attività d’impresa, e non erano state ancora effettuate operazioni imponibili.

 

 

Le attività «prospettiche» e il reddito di impresa

Se, in base agli enunciati principi, la detrazione IVA è legittima anche in presenza di attività solamente «progettate», e mai passate alla fase operativa, si ritiene che i componenti reddituali negativi relativi a tali attività abbiano piena cittadinanza nel sistema del reddito d’impresa, senza che esse siano inficiate dalla presunzione di non operatività di cui all’art. 30 della L. n. 724/1994; anzi, l’effettuazione di studi concretamente finalizzati all’avvio dell’attività dovrebbe poter valere quale esimente in sede di interpello speciale.

A tale riguardo, però, occorre evidenziare che la decisione di non procedere all’avvio della fase operativa, pur fondata sui risultati dello studio, verrebbe interpretata come una libera scelta, in conseguenza della quale non potrebbe essere mantenuta la struttura societaria, ma semmai programmata la sua liquidazione e la cancellazione dal registro delle imprese.

Relativamente alla possibilità di assumere come validi gli orientamenti espressi in sede comunitaria anche con riguardo al settore delle imposte sui redditi, possono essere segnalate le conclusioni svolte dalla Corte di Cassazione nella sentenza della sezione tributaria n. 6502 del 21.1.2000. Secondo tale pronuncia, la pubblicità non svolge più il ruolo meramente informativo di far conoscere l’esistenza di un prodotto sul mercato, potendo essere utilizzata anche per sensibilizzare preventivamente l’interesse dei consumatori verso beni o servizi non ancora concretamente offerti.

Le spese pubblicitarie devono quindi essere qualificate come inerenti all’esercizio d’impresa anche se sostenute prima che l’offerta del bene o del servizio pubblicizzato si sia concretamente realizzata.

A tale riguardo, è stato chiarito che il messaggio pubblicitario può essere «proiettato» verso il futuro,

«… e non necessariamente ancorato all’attività di produzione già svolta», sicché «… non rileva (…) che alle spese pubblicitarie (…) poste in essere non abbiano, nell’immediato, corrisposto realizzazioni concrete ed apprezzabili».

Anche gli atti finalizzati

«… a porre le premesse indispensabili per lo svolgimento o il rafforzamento di una data attività economica» costituiscono infatti « … parte integrante dell’attività imprenditoriale», ragion per cui « … anche i relativi costi, anticipatori e prodromici, in quanto strumentali al consolidamento e all’ampliamento del mercato, che solo all’imprenditore spetta valutare, non possono che ritenersi deducibili, in quanto inerenti all’attività d’impresa».

 

 

Considerazioni di sintesi

Dopo una breve rassegna delle principali elaborazioni giurisprudenziali in materia, può affermarsi che, alla luce sia degli orientamenti giurisprudenziali della CGCE che della Cassazione, le attività «preparatorie» e quelle «non in essere» nel tempo presente, ma pianificate, programmate, etc., possono conferire il diritto alla detrazione dell’IVA pagata a monte e alla deduzione dei costi sostenuti. il limite a tale diritto generale sembra tuttavia risiedere nell’eventuale finalizzazione «abusiva» dell’operazione, ove l’imprenditore avesse preordinato una «falsa attività» allo scopo esclusivo di fruire di detrazioni (o deduzioni) che non gli sarebbero spettate.

Tale osservazione è coerente anche con le indicazioni promananti dalla sentenza «Halifax» e valorizzate nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 67/E del 13.12.2007, la quale ha fornito alcune importanti precisazioni per quanto attiene alla possibilità di disconoscere, in quanto sostanzialmente elusivi, taluni comportamenti posti in essere dai contribuenti suscettibili di produrre effetti in ambito IVA.

La questione delle attività preparatorie consente altresì di accedere al più generale problema della riconoscibilità dei costi sostenuti in relazione alle attività dell’impresa secondo un criterio di inerenza a vasto raggio, in grado di includere componenti ordinariamente non ammessi secondo l’impostazione fiscale (solitamente restrittiva).

Si pensi, a titolo esemplificativo, ai costi sostenuti in relazione a contratti oggettivamente «non inerenti», come accade allorquando i soggetti nazionali si trovano a operare con partners stranieri residenti in giurisdizioni asiatiche, africane, etc., nelle quali vige l’«uso» di richiedere delle «dazioni» a favore di soggetti riconducibili ai governi locali: si tratta di componenti di reddito ai quali difficilmente può essere riconosciuta una «spendibilità» fiscale, in ragione del carattere non trasparente del contenuto dei contratti.

A voler riconoscere la rilevanza di ogni attività economica, sia «effettiva» che programmata, con riferimento anche a costi collegati a una causa contrattuale assai tenue, verrebbero meno tutte le ragioni prudenziali che inducono il legislatore tributario e l’Amministrazione a circoscrivere rigorosamente i criteri per la detraibilità dell’IVA e la deducibilità dei componenti reddituali negativi nel sistema del reddito d’impresa.

Occorrerebbe, in definitiva, riconoscere senza particolari problemi i costi che non presentassero un carattere fittizio e «abusivo», anche se ricollegati a un’impresa solamente «progettata». È tuttavia evidente che l’applicazione estensiva del principio di inerenza richiede la massima permeabilità della situazione dell’impresa (e degli scambi della stessa con soggetti terzi) di fronte alle attività di controllo del Fisco, che hanno la funzione di impedire la violazione e/o l’aggiramento di regole poste a presidio del corretto funzionamento del sistema.

 

Leggi anche:

Società di comodo: l’oggettiva impossibilità a svolgere l’attività

Come contrastare la pretesa del fisco che la società sia di comodo

 

28 settembre 2010

Fabio Carrirolo