Principio di inerenza e presunzione di comportamenti antieconomici | Parte II

Continuiamo l’approfondimento sulle presunzioni di comportamenti antieconomici dei contribuenti da parte del Fisco.

(trovi la 1° parte di introduzione al principio di inerenza qui)

***

 

Principio di inerenza qualitativa e quantitativa e presunzione di comportamenti antieconomici

 

Il Comando generale della Guardia di finanza, nella circolare n. 1 del 2008(1) aveva, peraltro affermato, in sede di istruzioni per l’attività di controllo, che resta ferma la necessità

“di riscontrare l’inerenza delle componenti di costo e degli altri oneri, deducibili secondo la specifica normativa in materia di IRAP, rispetto all’attività d’impresa o di lavoro autonomo in concreto esercitata”.

In realtà, pur aderendo alla tesi dell’applicabilità del principio di inerenza in quanto “immanente” anche nella disciplina dell’IRAP, non sarebbero state, comunque, applicabili le specifiche disposizioni che nell’ambito del reddito d’impresa “forfetizzano” l’inerenza (ad esempio per le spese relative agli autoveicoli, alla telefonia, alle aree su cui insistono i fabbricati strumentali ecc.).

Tale impostazione interpretativa avrebbe, però, comportato la necessità di dimostrare caso per caso la misura dell’inerenza dei singoli beni all’esercizio dell’attività rilevante ai fini dell’IRAP, con evidenti notevoli complicazioni per gli operatori interessati ed, ancora una volta, in evidente contrasto con le finalità di semplificazione che il legislatore si era proposto.

Per tali motivi i primi commentatori2 avevano ritenuto che, al di là dei casi di costi totalmente estranei all’attività (quali i prelevamenti o le destinazioni di beni ai soci o al titolare dell’impresa), si dovesse privilegiare il tenore letterale della norma, che prevede l’applicazione dei principi contabili e non di quelli che regolano la determinazione del reddito d’impresa.

 

La circolare AdE n. 36/E del 16 luglio 2009

Nella circolare n. 36/E del 16 luglio 20093 l’Agenzia delle entrate ha affrontato per la prima volta la problematica in esame, affermando che:

  • in linea generale “la rilevanza IRAP dei componenti positivi e negativi segue il principio di derivazione dalle voci rilevanti del conto economico, così che la ricorrenza del requisito di inerenza rileva – già ai fini civilistici – come condizione per imputare a conto economico un determinato componente negativo di reddito”;
  • i componenti negativi correttamente imputati a conto economico in applicazione dei principi civilistici “sono normalmente connotati dal generale requisito di inerenza al valore della produzione Irap”;
  • l’inerenza “è tuttavia sindacabile dall’Amministrazione finanziaria in sede di controllo”.

 

Tali affermazioni si ritengono senz’altro condivisibili, laddove l’Agenzia ha ribadito il principio di derivazione dalle voci rilevanti ai fini dell’IRAP dal conto economico e la legittimità del sindacato del requisito dell’inerenza in sede di controllo.

Sulla base di tali chiarimenti non risultano applicabili ai fini dell’IRAP le norme del reddito d’impresa che “forfetizzano” l’inerenza nei casi di utilizzo “promiscuo” di beni (quali, ad esempio, gli autoveicoli e i telefoni) e quelle che limitano la deduzione di determinati costi (ad esempio quelli sostenuti per i dipendenti in trasferta o per gli immobili assegnati agli stessi).

L’Agenzia si è, però, posta anche il problema delle difficoltà insite nella verifica, caso per caso, della misura in cui i beni siano stati effettivamente utilizzati per le finalità imprenditoriali, che appaiono contrastare con la finalità di semplificazione che ha ispirato la riforma.

Ha, pertanto, ulteriormente precisato che il sindacato di inerenza

“si pone in modo particolare con riferimento a determinati costi, per i quali il TUIR introduce presunzioni legali di parziale inerenza, ponendo limiti alla relativa deducibilità.

Per esigenze di semplificazione, l’inerenza dei medesimi componenti negativi può essere considerata senz’altro sussistente anche ai fini dell’IRAP, qualora vengano dedotti importi di ammontare non superiore a quelli determinati applicando le disposizioni previste per l’applicazione delle imposte sul reddito.

Si pensi, ad esempio, agli oneri di utilità sociale imputati, secondo corretti principi contabili, in una voce rilevante ai fini del tributo regionale.

Tali componenti di reddito potranno considerarsi senz’altro inerenti – e, dunque, deducibili dalla base imponibile IRAP – secondo le limitazioni contenute nell’art. 100 del TUIR.

Analoghe considerazioni valgono per le spese relative ad apparecchiature per servizi di comunicazione, per le spese di rappresentanza e per le spese relative a taluni mezzi di trasporto a motore utilizzati promiscuamente nell’esercizio di imprese: tali componenti negativi di reddito, salvo diversa prova analitica dell’inerenza fornita dal contribuente, assumeranno rilevanza ai fini IRAP, quindi, nei limiti rispettivamente previsti dagli articoli 102, comma 9, 108, comma 2, e 164, comma1,”

del TUIR.

Queste ultime precisazioni sono sembrate contraddire i principi precedentemente affermati, sia pure con l’intento di stabilire regole di accertamento4, finendo per dare l’impressione che le regole di determinazione dell’imponibile IRAP

“siano ancora strettamente ancorate alle disposizioni contenute nel testo unico delle imposte sui redditi che costituisce la base di riferimento”5.

 

Anche il Presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili6 aveva aspramente criticato le affermazioni dell’Agenzia, giungendo ad affermare che la circolare n. 36/E del 2009 dimostrerebbe che

“l’abuso del diritto in ambito tributario può anche consistere nell’interpretazione distorta delle norme di diritto positivo che disciplinano il sistema tributario, al fine di ottenere un indebito maggiore gettito erariale a danno dei contribuenti”.

Ciò in quanto sarebbe stata ripristinata “in modo surrettizio la parziale indeducibilità prevista dalle norme che in ambito IRES esplicano la funzione di presunzioni di parziale non inerenza” e l’ufficio potrebbe arrivare

“a riprendere senza tante discussioni i maggiori costi dedotti ai fini IRAP rispetto ai limiti previsti ai fini IRES, senza bisogno di provare alcunchè, perché l’onere di provare qualcosa è tutto del contribuente”.

E’ stato, altresì, contestato che il chiarimento è stato diramato “a bilanci ormai chiusi e fondi imposte già accantonati, e in molti casi già versati” e che avrebbe dovuto essere cambiata la circolare n. 36/E “e non i bilanci o le dichiarazioni dei contribuenti”.

Era stato, pertanto, auspicato che l’Agenzia provvedesse a

“rimeditare i propri indirizzi operativi, così come altre volte avvenuto in passato”.

 

 

La circolare AdE n. 39/E del 22 luglio 2009

Tenendo, evidentemente, conto di tali osservazioni, l’Agenzia ha fornito ulteriori chiarimenti al riguardo nella circolare n. 39/E del 22 luglio 2009, nella quale è stato puntualizzato che:

  • con le affermazioni contenute nella precedente circolare n. 36/E “non si è inteso, né sarebbe stato possibile, reintrodurre il legame tra IRES e IRAP che è venuto meno a seguito dell’abrogazione dell’art. 11-bis del decreto IRAP”;
  • “il principio di inerenza che deve essere seguito ai fini dell’applicazione dell’IRAP è quello civilistico, desumibile dalla corretta applicazione dei principi contabili. Alla stregua di questi principi un costo che non attenga all’attività d’impresa ma alla sfera personale degli amministratori o dei soci non può essere dedotto solo perché civilisticamente è stato imputato al conto economico.
    In questi casi, evidentemente, l’Amministrazione finanziaria ha il potere di contestare al contribuente l’assenza di inerenza del costo in questione ai fini della determinazione del valore della produzione rilevante ai fini IRAP”;
  • nella circolare n. 36/E del 2009 si è voluto “individuare un’area di sicurezza all’interno della quale i contribuenti possono liberamente posizionarsi”, al fine di “limitare le controversie che potrebbero sorgere in sede di controllo” in merito all’applicazione dei principi civilistici e “tenendo conto delle esigenze di certezza e di semplificazione che debbono informare il sistema tributario”.
    Se il contribuente deduce importi di ammontare non superiore a quelli determinati applicando le disposizioni del TUIR “il requisito di inerenza può ritenersi sicuramente esistente”.
    In modo “soltanto esemplificativo” è stato fatto riferimento ai costi per i quali il TUIR ha introdotto presunzioni legali di parziale inerenza, “proprio al fine di evitare controversie sulla analitica determinazione dell’inerenza”;
  • la circolare n. 36/E non ha alterato in alcun modo il trattamento dei costi di produzione dedotti integralmente o in misura superiore, “per i quali l’Amministrazione non potrà opporre le forfetizzazioni del TUIR. Queste ultime, infatti, nel sistema dell’IRAP non hanno valore di presunzioni e non possono essere utilizzate dagli uffici per contestare l’inerenza dei costi dedotti”.

 

Le menzionate precisazioni sono state ritenute “una vera e propria marcia indietro”7 e anche il Presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli  esperti contabili si è dichiarato soddisfatto perché è stato eliminato

“il problema che si era creato in ordine alla supposta esistenza di automatismi accertativi e inversioni dell’onere della prova in capo al contribuente ripristinando dunque una interpretazione maggiormente aderente al dato normativo”8.

Si ritiene che, in realtà, l’Agenzia abbia semplicemente chiarito meglio il proprio pensiero, finalizzato ad adottare una linea di azione in certo qual modo analoga a quella a suo tempo seguita con riguardo ai rimborsi dell’IVA relativa agli autoveicoli.

Non è stata seguita la tesi interpretativa dell’“immanenza” del principio di inerenza nel sistema impositivo del tributo regionale, ma si ritiene che il principio civilistico di inerenza sia sostanzialmente coincidente con quello fiscale, fermo restando che le norme che forfetizzano l’inerenza ai fini delle imposte sui redditi non hanno alcun valore ai fini dell’IRAP.

A tale riguardo è stato, però, osservato9 che “passare attraverso l’inerenza civilistica potrebbe risultare perdente per gli interessi erariali”, in quanto il bilancio civile “sente” il tema dell’inerenza

“molto meno del reddito fiscale. Una volta rispettata l’effettività della documentazione, la trasparenza dell’enunciazione e le modalità di riparto del reddito tra i soci, al bilancio civile sta poco a cuore la distinzione tra “spese personali” e “spese d’impresa”, fondamentale invece da quel punto di vista economico che ispira la legislazione fiscale”.

E’ stato, quindi, ritenuto che sarebbe sttato meglio “far valere la logica economica tributaria, rispetto alla letterale derivazione dal bilancio, e restringere con circolare il rinvio al bilancio alla sola imputazione a periodo, al rapporto valutazioni civili/valutazioni fiscali”, considerando gli altri temi, inerenza compresa, “come esclusivamente fiscali e quindi non toccati dalle nuove disposizioni”.

La problematica resta, quindi, comunque molto delicata: si pensi, ad esempio, alla questione se in base al principio di inerenza civilistico si possa giungere ad affermare la indeducibilità delle sanzioni amministrative, come sancito dall’Agenzia delle entrate ai fini delle imposte sui redditi, e a quella, più avanti illustrata, relativa all’inerenza “quantitativa“, cioè al possibile sindacato della congruità delle spese.

L’aspetto più delicato appare, comunque, quello relativo alla spettanza dell’onere della prova.

L’Agenzia non ha, infatti, espressamente smentito l’affermazione della circolare n. 36/E secondo la quale la prova analitica dell’inerenza deve essere fornita dal contribuente.

Al riguardo è stato osservato10 che

“se l’ufficio a una rettifica analitica in cui si rileva il difetto di inerenza sarà lo stesso ufficio, e non il contribuente, che dovrà provare il mancato collegamento tra componente negativo di reddito e attività economica (che non sono solo i ricavi) dell’impresa”.

Si ritiene che, anche dopo gli ultimi chiarimenti ufficiali, le complicazioni derivanti dall’attuale disciplina IRAP siano notevoli sia per i contribuenti che per gli uffici e difficilmente accettabili. Si tratta di uno dei tanti, rilevanti problemi posti dalla nuova normativa, che, come già evidenziato, inducono ad auspicare un tempestivo intervento in sede legislativa.

Un’altra delicata problematica, non ancora affrontata dall’Agenzia delle entrate, riguarda proprio il principio della inerenza “quantitativa” di cui si tratterà più avanti, cioè la possibilità per gli uffici, in presenza di comportamenti anomali e antieconomici, di giudicare la congruità delle spese sostenute, come affermato dalla Corte di cassazione e dalla stessa Agenzia con riguardo alle imposte sui redditi. Alla luce dei chiarimenti forniti dall’Agenzia con riguardo all’inerenza “qualitativa”, si ritiene estremamente difficile negare l’estendibilità di tale facoltà degli uffici anche al campo dell’IRAP.

Si ritiene che, anche dopo gli ultimi chiarimenti ufficiali, le complicazioni derivanti dall’attuale disciplina IRAP siano notevoli sia per i contribuenti che per gli uffici e difficilmente accettabili. Si tratta di uno dei tanti, rilevanti problemi posti dalla nuova normativa, che, come già evidenziato, inducono ad auspicare un tempestivo intervento in sede legislativa.

 

 

L’inerenza quantitativa

La circolare n. 18/E del 14 aprile 2010 e alcune recenti pronunce della Corte di cassazione hanno posto ancora una volta all’attenzione degli operatori e degli studiosi della materia tributaria la questione dei presupposti e delle modalità in presenza dei quali gli uffici delle entrate possono contestare la congruità dei componenti positivi e negativi di reddito risultanti dalla contabilità e dalle dichiarazioni dei contribuenti.

 

La circolare AdE n. 18/E del 2010

Nella detta circolare l’Agenzia delle entrate ha illustrato gli effetti sul contenzioso pendente dell’abrogazione (a causa del contrasto con la normativa comunitaria), effettuata dall’art. 24, commi 4, lettera f), e 5, della legge 7 luglio 2009, n. 88, delle disposizioni che, in materia di IVA11 e di imposte sui redditi12, consentivano agli uffici delle entrate di rettificare la relativa dichiarazione in caso di scostamento tra il corrispettivo dichiarato per le cessioni di beni immobili e relative pertinenze e il valore normale degli stessi, determinato13, in base al provvedimento direttoriale del 27 luglio 2007, sulla base dei valori OMI14 e di coefficienti di merito relativi alle caratteristiche dell’immobile, integrati dalle altre informazioni in possesso degli uffici stessi.

Le presunzioni legali relative introdotte dalle disposizioni successivamente abrogate si erano applicate nel periodo dal 4 luglio 2006 al 15 luglio 2009 (per l’IVA) o al 29 luglio 2009 (per le imposte sui redditi), mentre per gli atti formati anteriormente a tale periodo era stato stabilito15 che le stesse valessero, “agli effetti tributari, come presunzioni semplici”.

L’Agenzia ha ritenuto che l’abrogazione delle presunzioni legali relative produca effetti anche con riferimento al periodo pregresso, in quanto nella circolare n. 11/E del 200716 era stata affermata la natura procedimentale delle norme introdotte dal DL n. 223 del 2006, e che

“lo scostamento dei corrispettivi dichiarati per le cessioni di beni immobili rispetto al valore normale torna a costituire elemento presuntivo semplice, con la conseguenza che trovano applicazione le citate disposizioni di carattere generale di cui all’articolo 39, comma 1, lettera d), del DPR n. 600 e all’articolo 54, secondo comma, del DPR n. 633.

Gli uffici dovranno, pertanto, valutare, con riferimento alle controversie pendenti, se le motivazioni degli accertamenti impugnati si dimostrino comunque adeguate o se, invece, alla luce dell’intervenuta modifica normativa, si rivelino insufficienti così da richiedere l’abbandono del contenzioso in corso, tenuto conto dello stato e grado del giudizio”.

Sono state, poi, impartite agli uffici le istruzioni in merito alle controversie pendenti, fornendo un importante chiarimento in merito alla necessità, per sostenere l’infedeltà del corrispettivo dichiarato, che, oltre allo scostamento dello stesso rispetto al prezzo mediamente praticato per immobili della stessa specie o similari, ricorrano anche

“ulteriori elementi presuntivi idonei ad integrare la prova della pretesa”.

Tale precisazione assume rilevanza anche al fine di chiarire l’ambito applicativo del principio, affermato in modo con giurisprudenza ormai costante, dalla Corte di cassazione, in base al quale l’Amministrazione finanziaria può sindacare la congruità dei componenti reddituali rispetto ai prezzi di mercato in presenza di comportamenti antieconomici dei contribuenti.

 

Le sentenze della Cassazione del 25 febbraio 2010

sentenza corte di cassazioneLa Corte ha recentemente ribadito tale principio nelle sentenze nn.da 4554 a 4559 del 25 febbraio 2010, nelle quali è stato affermato che nei poteri dell’amministrazione finanziaria in sede di accertamento rientra la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi “esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, e la rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, con negazione della deducubilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa” (così Cass. n. 11240 del 2002 e n. 12813 del 2000).

L’onere della prova dell’inerenza dei costi gravante sul contribuente, pertanto, in presenza di argomentata contestazione, ha ad oggetto anche la congruità di quei costi”.

Ciò in quanto

“costituisce orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui, nell’accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, l’onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina del D.P.R. n. 597 del 1973 e del D.P.R. n. 598 del 1973 che del TUIR del 1986, incombe al contribuente (in proposito, ex multis, Cass. n. 11514 del 2001, n. 11240 del 2002, n. 4345 del 2003)”.

Negli accertamenti che hanno formato oggetto delle citate sentenze era stata contestata l’inerenza delle spese di commissione sostenute per l’attività di intermediazione svolta da una società con sede in una “località con regime fiscale privilegiato”, diretta a promuovere l’acquisizione di appalti e commesse “mediante dazioni illecite di denaro a terzi insider nelle strutture dei committenti”: si sarebbe trattato, secondo le risultanze della corrispondenza acquisita in sede di verifica, di “tangenti camuffate da fatture fittizie”.

Al riguardo la Suprema Corte ha affermato che

“non è determinante né decisiva in sé l’ipotizzata destinazione illecita delle risorse costituenti il costo dichiarato dalla società contribuente, ma la contestata sproporzione delle somme erogate rispetto ad una mera attività di consulenza, e la mancata prova da parte della contribuente, in presenza di un siffatto rilievo, della loro adeguatezza, vale a dire del carattere economico delle attività svolte”.

Quindi il “fatto noto” costituito dal contenuto della lettera con la quale, in relazione alla commessa da realizzare,

“si chiedeva la maggiorazione della percentuale di commissione per un contratto per destinarla in parte a favore di un terzo, è stato legittimamente posto in relazione dall’ufficio con la sproporzione…delle somme versate…rispetto alla remunerazione di un’attività di consulenza”.

 

Il sindacato della congruità dei componenti reddituali

comportamenti antieconomici del contribuenteSta assumendo un ruolo sempre più rilevante, nell’ambito dell’attività di accertamento, l’orientamento della Corte di cassazione e dell’Amministrazione finanziaria secondo il quale quest’ultima può sindacare la antieconomicità dei comportamenti tenuti dai contribuenti, valutando la congruità dei costi e dei ricavi esposti in bilancio e nelle dichiarazioni rispetto ai prezzi di mercato, anche in assenza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o di vizi degli atti posti in essere.

Tale sindacato può riguardare, ad esempio, la rilevanza, ai fini delle imposte sui redditi, del maggior valore definito ai fini dell’imposta di registro in caso di cessione d’azienda ovvero la deducibilità dei costi sostenuti per fruire di servizi forniti da altre società del gruppo, delle perdite relative a crediti ceduti pro-soluto, dei compensi attribuiti dalla società agli amministratori, delle spese di pubblicità, ecc.

L’Agenzia delle entrate, Direzione Centrale Accertamento, con la nota dell’8 aprile 2008, n. 2008/55440, operando ampi richiami agli orientamenti della Corte di Cassazione, ha affermato che gli uffici hanno il potere di disconoscere, in tutto o in parte, la deducibilità di un costo, nel rispetto del generale criterio di economicità che dovrebbe ispirare e caratterizzare tutti gli atti dell’impresa.

Anche la circolare n. 1 del 2008 della Guardia di Finanza ha preso in esame tale questione, menzionando alcune sentenze della Corte di cassazione che legittimano l’attribuzione della rilevanza indiziaria al “comportamento antieconomico dell’imprenditore, da questo in alcun modo non spiegato o non giustificato, nella maggior parte dei casi, peraltro, in presenza di altri elementi presuntivi a sostegno della pretesa tributaria”.

Sono, inoltre, citate le prese di posizione dell’Amministrazione finanziaria nelle quali si è subordinata la deducibilità di taluni costi (spese sostenute all’estero dagli autotrasportatori e costi promozionali e di formazione professionale) alla loro congruità rispetto ai ricavi.

Si ritiene, però, che il comportamento antieconomico posto in essere dal contribuente possa dare luogo alle presunzioni gravi, precise e concordanti che consentono l’effettuazione dell’accertamento con il metodo analitico-induttivo di cui all’art. 39, comma 1, lettera d), del DPR n. 600 del 1973, soltanto qualora ricorrano altre circostanze od argomentazioni probatorie, che consentano di ritenere che il corrispettivo della transazione sia stato diverso da quello contabilizzato e dichiarato.

Appare, altresì, necessario che l’antieconomicità dell’operazione sia valutata tenendo conto della complessiva situazione contrattuale e aziendale, che il sindacato dell’inerenza “quantitativa” venga esercitato soltanto in presenza di situazioni di arbitraggio fiscale e che si evitino duplicazioni impositive.

Si tratta di aspetti finora trascurati dalla giurisprudenza di legittimità, probabilmente perché le contestazioni dei contribuenti hanno riguardato soprattutto la legittimità del principio della contestabilità della congruità dei costi e non i presupposti ed i criteri in base ai quali il detto sindacato può essere correttamente effettuato. Si ritiene che su tali questioni, e sulle modalità di determinazione del valore di mercato, si svilupperà il futuro contenzioso in merito.

 

 

La giurisprudenza di Cassazione sull’inerenza quantitativa

 

E’ stato rilevato (17) che

“la fonte di innesco del filone sull’antieconomicità fu una sentenza18, correttissima nel merito, che riguardava un esilarante episodio di vendite in nero di scarpe, e di bolle di accompagnamento sapientemente alterate successivamente al trasporto”19,

nella quale era stato osservato che i trasporti sembravano anomali, in quanto effettuati per poche quantità di beni e che l’antieconomicità di questi trasporti per «3 scatole» diventava un’ulteriore conferma dell’alterazione a posteriori delle bolle; nessun dubbio sulla legittimità e  l’insindacabilità della scelta imprenditoriale di effettuare trasporti per poche scatole di scarpe, ma dubbio legittimo sulla veridicità di tale improbabile evento, in un contesto dove tra l’altro era nota l’alterazione delle bolle; l’enunciazione di eventi poco credibili diventava insomma un elemento non tanto per ritenerli inopponibili al Fisco, quanto per dubitare della loro stessa veridicità”.

 

corte di cassazione sugli accertamenti studi di settoreSuccessivamente, però, il filone giurisprudenziale “è diventato valanga”20, giungendo ad affermare21 la non inerenza degli atti manifestamente “antieconomici” che determinino costi del tutto sproporzionati rispetto ai ricavi dell’impresa e, quindi, non afferenti all’esercizio “economico” della medesima.

E’ stato, quindi, introdotto un concetto di inerenza “quantitativa”, che si aggiunge a quella “qualitativa”.

La Suprema Corte aveva, in alcuni casi, negato la possibilità di valutare la congruità dei compensi corrisposti agli amministratori delle società di persone22 e affermato che l’amministrazione finanziaria non avrebbe il potere di valutare l’economicità o la ragionevolezza degli atti imprenditoriali, atteso che

“in mancanza di qualsiasi metro di valutazione tendenzialmente oggettivo, l’interprete non può procedere ad alcuna valutazione senza correre il rischio concreto dell’arbitrarietà e della possibile disparità di trattamento”23.

 

Tali pronunce sono rimaste, però, isolate e limitate a specifiche questioni, quale quella della deducibilità dei compensi degli amministratori delle società di persone.

La Corte di cassazione ha, infatti, in seguito continuato ad affermare, in numerose sentenze, che:

  • rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria “la valutazione dell’inerenza dei costi esposti in bilancio all’attività o beni di impresa da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito, e senza che tale giudizio incida sulle scelte dell’imprenditore, valendo ai soli fini dell’opponibilità della spesa al Fisco”24;
  • “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento del reddito” ai sensi dell’art. 39, primo comma, lettera d), del DPR n. 600 del 197325.

 

La stessa Corte ha, altresì, affermato che può essere negata la deducibilità di costi sproporzionati ai ricavi e all’oggetto dell’impresa, anche in assenza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili (26).

Quest’ultimo orientamento giurisprudenziale, ormai prevalente, appare fondato sul principio di economicità dell’azione imprenditoriale, secondo il quale le operazioni commerciali vengono effettuate in base al canone della convenienza e tenendo, quindi, conto delle condizioni del mercato.

Anche se non mancano prese di posizione in senso contrario, come quella operata nella sentenza n. 21348 del 200827, in cui la Corte ha affermato che il mero confronto tra il prezzo di un bene risultante dal contratto e contabilizzato e il valore di mercato dello stesso non può costituire elemento sufficiente a giustificare l’accertamento di un maggior reddito.

Ciò in quanto lo scostamento tra i due valori non può essere valutato isolatamente ma deve essere apprezzato in rapporto all’intero contesto accertativo28.

Peraltro in un’ulteriore sentenza29, di poco successiva, la stessa Corte è tornata a ribadire la possibilità per l’amministrazione finanziaria di valutare la congruità dei costi sostenuti dal contribuente (nella fattispecie un notaio) e di negare la deducibilità delle spese ritenute eccessive e antieconomiche (si trattava delle prestazioni effettuate da due dipendenti di una società di servizi avente sede nello stesso studio e che era partecipata al 90% dallo stesso professionista)30. In quest’ultima sentenza è stato, tra l’altro, affermato che:

  • “i comportamenti che si pongono in contrasto con le regole del buon senso e dell’id quod plerumque accidit, uniti alla mancanza di una giustificazione razionale (che non sia quella di eludere il precetto tributario), assurgono al ruolo di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, che legittimano il recupero a tassazione dei relativi costi”;
  • è possibile negare “la deducibilità di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato, non essendo l’ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indicati”;
  • “il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie”.

 

La dottrina si è, da parte sua, espressa in prevalenza in modo critico nei confronti del richiamato orientamento giurisprudenziale31.

E’ stato, in particolare, osservato che l’impostazione interpretativa della Corte di cassazione non appare emergere dal disposto normativo, che prevede l’applicazione del criterio del valore normale, ai fini delle imposte sui redditi, soltanto in presenza di particolari situazioni, quali l’assenza del corrispettivo (come nei casi di assegnazione dei beni ai soci e di destinazione degli stessi a finalità estranee all’esercizio dell’impresa) o la necessità di contrastare fenomeni “patologici” (si veda la disciplina relativa alla cessione del contratto di leasing e quella sul transfer pricing, riferita a situazioni in cui i prezzi divergono realmente dal valore normale in conseguenza della politica di gruppo e che si applica solo ai rapporti transfrontalieri).

Al di fuori di tali eccezioni, il principio generale dovrebbe essere quello secondo il quale

“la determinazione del reddito d’impresa va fatta mediante la contrapposizione di costi e ricavi nella loro effettiva misura”32.

D’altra parte, nell’art. 39, comma 1, lettera d), del DPR n. 600 del 1973 era stato previsto, come già ricordato in precedenza, che l’accertamento analitico-induttivo dovesse basarsi su presunzioni gravi, precise e concordanti e che la prova “s’intende integrata anche se l’infedeltà dei relativi ricavi viene desunta sulla base del valore normale” soltanto con riferimento alle

“cessioni aventi ad oggetto beni immobili ovvero la costituzione o il trasferimento di diritti reali di godimento sui medesimi beni”.

A tale riguardo l’Istituto di ricerca del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili ha osservato33 che il richiamato orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione suscita non poche perplessità laddove afferma che

“gli uffici finanziari non sono … vincolati ai valori o corrispettivi indicati in delibere sociali o contratti”

in quanto sarebbe loro attribuito un generale potere di valutare la “congruità” dei costi e dei ricavi esposti in bilancio, con conseguente possibilità di disconoscere i componenti di reddito sproporzionati rispetto ai valori di mercato.

Le perplessità del detto Istituto derivano soprattutto dalla constatazione che nella determinazione del reddito d’impresa l’impiego del criterio del valore normale è previsto soltanto in casi particolari, tipizzati dal legislatore34.

L’Istituto rileva, altresì, che nella maggioranza delle occasioni in cui i giudici di legittimità hanno ritenuto sussistente in capo all’Amministrazione finanziaria un tale potere, le operazioni censurate erano, in via di fatto, “manifestamente” antieconomiche, in quanto

“la sproporzione e l’irragionevolezza della spesa rispetto all’attività esercitata era rilevabile ictu oculi, in modo talmente evidente che l’antieconomicità diventava un elemento funzionale non tanto per un sindacato delle scelte imprenditoriali da parte dell’Amministrazione finanziaria, quanto per l’accertamento della falsità materiale della versione dei fatti fornita dal contribuente”35.

 

Pure l’Assonime ha espresso le proprie perplessità al riguardo, affermando36 che gli uffici finanziari tendono spesso a sindacare scelte di convenienza su operazioni economiche pertinenti alla gestione aziendale, sostituendosi a una valutazione che invece dovrebbe competere esclusivamente all’imprenditore.

In effetti la Cassazione è giunta ad affermare che

“in tema di determinazione del reddito d’impresa, per la valutazione a fini fiscali delle varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, che non ha soltanto valore contabile, e che impone quale criterio valutativo il riferimento al normale valore di mercato (art. 9, comma 3, cit.) per i corrispettivi, proventi, spese ed oneri in natura presi in considerazione dal contribuente.

Ne consegue che il fisco non può considerare legittimamente appostati costi ingiustificati, nella parte superiore al normale valore di mercato”37.

Tale affermazione, rimasta fortunatamente alquanto isolata, è da considerare senz’altro errata, in quanto, come è stato giustamente osservato38, il valore normale non costituisce uno strumento generale di controllo dei corrispettivi, bensì un criterio da utilizzare in presenza di componenti reddituali “in natura”.

Si ritiene che, più correttamente, il comportamento antieconomico posto in essere dal contribuente possa dare luogo, unitamente ad altre circostanze od argomentazioni probatorie, alle presunzioni gravi, precise e concordanti che consentono l’effettuazione dell’accertamento con il metodo analitico-induttivo di cui all’art. 39, comma 1, lettera d), del DPR n. 600 del 1973, pur in presenza di una contabilità formalmente regolare.

La stessa Corte di cassazione ha in più occasioni affermato39 che il valore di un bene può rappresentare

“un elemento da tenere in conto come indizio, in senso lato, della infedeltà del prezzo, inferiore, dichiarato dal contribuente ai fini della determinazione delle imposte sui redditi”40.

Tale impostazione interpretativa è stata ora confermata dall’Agenzia delle entrate nella circolare n. 18/E del 2010, nella quale è stato affermato che l’infedeltà del corrispettivo dichiarato deve essere sostenuta,

“oltre che dal mero riferimento allo scostamento dello stesso rispetto al prezzo mediamente praticato per immobili della stessa specie o similari, anche da ulteriori elementi presuntivi idonei ad integrare la prova della pretesa (quali, a titolo meramente esemplificativo, il valore del mutuo qualora di importo superiore a quello della compravendita, i prezzi che emergono dagli accertamenti effettuati con la ricostruzione dei ricavi sulla base delle risultanze delle indagini finanziarie, i prezzi che emergono da precedenti atti di compravendita del medesimo immobile).

Nel riesaminare le controversie pendenti, quindi, gli uffici dovranno valorizzare la presenza di tali ulteriori elementi presuntivi, i quali, tra loro associati, siano idonei a sostenere la pretesa tributaria in fase contenziosa, tenuto conto, altresì, delle ragioni rappresentate dal contribuente”.

Appare, inoltre, significativo il richiamo alla necessità di tenere conto delle risultanze del contraddittorio con il contribuente, affermata anche dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite con le sentenze nn. 26635, 26636, 26637 e 26638 depositate il 18 dicembre 2009, riguardanti la valenza probatoria degli studi di settore.

E’ stato, al riguardo, osservato41 che “la formulazione prescelta dalla Corte parrebbe di portata generalissima, tale da farne ritenere imprescindibile l’attuazione non solo nel caso di accertamenti standardizzati, ma in generale” e che il superamento delle obiezioni del contribuente potrebbe non essere effettuato dall’Ufficio in modo analitico ma risultare dal complesso del ragionamento.

 

La circolare n. 19/E del 14 aprile 2010

Tale principio è stato ribadito dall’Agenzia delle entrate nella circolare n. 19/E del 14 aprile 2010, nella quale è stato affermato che “la mancata attivazione del contraddittorio comporta l’assenza di un elemento essenziale e imprescindibile del giusto procedimento che legittima l’azione amministrativa”.

Risulta, quindi, fondamentale per il contribuente la partecipazione al contraddittorio per esporre le proprie ragioni e per l’Ufficio motivare perché ha ritenuto non convincenti le argomentazioni sottopostegli.

 

E’ stato affermato42 che numerose sentenze sul tema dell’antieconomicità

“se lette attentamente si fondano sull’utilizzo del valore di mercato quale sintomo di una non veridicità dei corrispettivi dichiarati, oppure riguardano vere e proprie patologie, in cui costi abnormi o ricavi irrisori vengono pattuiti tra parti correlate, al fine di innescare arbitraggi su diversi regimi di determinazione dell’imponibile o dell’aliquota, sul riporto delle perdite, su un diverso criterio di imputazione temporale, ecc., contrastabili applicando, se del caso, il requisito di inerenza dei costi (in chiave quantitativa) o la clausola sulla destinazione dei beni a finalità estranee all’impresa.

Si tratta, appunto, di casi residuali, relativi a vere e proprie patologie, e non certo di episodi che possano confermare una generalizzata sostituzione dei corrispettivi intragruppo con “più graditi” (all’amministrazione) presunti valori di mercato”.

E’ stato, inoltre, affermato, a favore del ricorso alla nozione di inerenza “quantitativa” in presenza di costi “abnormi”, che “è di norma anomalo, e quindi, sospetto, che un soggetto venda un bene per un prezzo situato al di sotto del suo valore”43 e che

“non sembra esservi molta differenza tra un costo non inerente per le caratteristiche tecnico-fisiche del bene, in relazione ai suoi possibili utilizzi nel contesto aziendale in cui lo stesso viene inserito….rispetto ad una spesa “eccentrica” – nel suo ammontare – rispetto alle dimensioni e all’attività d’impresa concretamente esercitata (la rubinetteria d’oro per la parrucchiera o il quadro d’autore che arreda la hall di un piccolo affittacamere).

In queste ultime ipotesi, anche se il costo si riferisce a beni o servizi astrattamente inerenti all’attività (la rubinetteria è un’attrezzatura per il parrucchiere e il quadro può rientrare negli “arredi” di una pensione) l’abnorme entità della spesa rispetto alle oggettive esigenze imprenditoriali può indicare che la stessa persegue (anche) un fine estraneo all’impresa”44.

 

 

I presupposti per la sindacabilità della congruità dei componenti reddituali

L’Assonime45 ha osservato che “in alcune recenti sentenze (cfr. fra le ultime, Cass. 11 aprile 2008, n. 9497, e 15 settembre 2008, n. 23635)” si ammette, in sostanza, che in presenza di comportamenti antieconomici,

“non sia più l’amministrazione finanziaria a dover provare fatti rilevanti ai fini dell’accertamento (ad esempio la simulazione di atti o l’occultamento di ricavi), ma sia il contribuente a dover giustificare i propri comportamenti ritenuti antieconomici, ritenendosi, in mancanza, già provati – per mezzo della sola valutazione di antieconomicità – i fatti che potrebbero determinare una ripresa a tassazione”.

Invece, a parere dell’Assonime, vanno considerate inerenti “le spese che si collegano alla realizzazione di scelte gestionali o sono ad esse strumentali: di scelte, cioè, relative all’esercizio dell’impresa. Sono, al contrario, non inerenti le spese motivate da finalità estranee a tale esercizio.

La presunta non economicità della spesa può, dunque, risultare un sintomo indiziario di estraneità all’esercizio dell’impresa, ma non certo un elemento sufficiente a provare tale estraneità: rimane pur sempre compito dell’amministrazione finanziaria dimostrare che, nel caso di specie, il rapporto apparentemente oneroso mascheri un’effettiva liberalità o l’esistenza di ricavi occultati o ancora lo spostamento di redditi per finalità illecite.

In questa ottica, merita rilevare che le presunzioni ammesse a fondamento dell’accertamento delle imposte sul reddito devono avere determinate caratteristiche che le rendono effettivamente probanti, e cioè devono essere “gravi, precise e concordanti” (v. art. 39, primo comma, lett. d, del d.p.r. n. 600 del 1973).

Non è sufficiente quindi un “sintomo” di un comportamento illegittimo a provare l’esistenza di tale comportamento; è necessaria l’esistenza di un complesso di circostanze che, tutte, univocamente portino a una determinata conclusione”.

L’Associazione non condivide, quindi, l’orientamento interpretativo secondo il quale gli uffici delle entrate possono limitarsi a valutare l’antieconomicità di una singola operazione senza considerare il contesto nel quale l’operazione stessa è effettuata, senza tenere, ad esempio, conto del fatto che l’operato dell’imprenditore

“potrebbe essere ricondotto a complesse strategie imprenditoriali rispetto alle quali la singola operazione oggetto di analisi da parte dell’ufficio costituisce solo un tassello; circostanza, questa, che non consente una valutazione autonoma della fattispecie, ma ne impone l’analisi in un contesto più ampio.

A titolo di esempio, si potrebbero citare i casi in cui l’impresa rende servizi sottocosto come quando, nel caso di franchising, l’impresa produttrice dia in uso dei locali ai venditori a condizioni più favorevoli di quelle di mercato per incentivare la diffusione di prodotti caratterizzati da un determinato marchio, oppure ai casi in cui l’impresa concede in comodato gratuito i macchinari con i quali il comodatario deve svolgere lavori a favore della medesima impresa comodante, o ancora, ai casi di vendite sottocosto per motivi di penetrazione del mercato”.

Altri casi simili a quelli segnalati dall’Assonime possono riguardare la vendita in blocco di merci fuori moda (salva la determinazione del valore “residuo” delle stesse), le cosiddette vendite “a nummo uno” (cioè a valori irrisori, di aziende o partecipazioni societarie) o “con dote” (cioè con l’impegno a rifondere le spese che l’acquirente dovesse sopportare in relazione all’azienda acquisita).

Con riguardo a questi ultimi casi è stato osservato46 che

“il Fisco sarà tenuto ad effettuare, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, una vera e propria valutazione d’azienda, al fine di dimostrare il valore normale dell’azienda o delle partecipazioni cedute”.

Ulteriori argomentazioni delle quali il contribuente può avvalersi per dimostrare che il prezzo di vendita è stato effettivamente inferiore al valore di mercato possono essere, ad esempio: l’esistenza di particolari rapporti all’interno del gruppo societario ovvero di parentela tra le persone fisiche che legano il venditore all’acquirente e che potrebbero giustificare un prezzo di favore; l’esigenza di smobilizzare l’azienda in tempi brevi per far fronte ad oggettive e documentabili difficoltà finanziarie; l’opportunità di cedere un’azienda che per fatti sopravvenuti produce risultati economici progressivamente meno soddisfacenti; la presenza di particolari benefici derivanti dai successivi rapporti economici con il cessionario47.

Tale impostazione interpretativa, che appare assolutamente condivisibile, risulta in linea con quanto affermato nella circolare n. 1 del 2008 del comando generale della Guardia di finanza, nella quale è evidenziato che occorre

“il supporto di altre circostanze od argomentazioni probatorie” e che il recupero fiscale di un costo per non congruità potrà avvenire “sia sulla base di precisi riscontri documentali e fattuali”, che comprovino la destinazione extraimprenditoriale del bene o servizio,

“sia sulla base di un confronto dell’entità della spesa con parametri oggettivi di riferimento, quali, ad esempio, la natura del bene o servizio, l’entità complessiva dei costi e dei ricavi dell’impresa, le caratteristiche e le dimensioni dell’impresa, l’attività da questa in concreto svolta. In questi ultimi casi, la motivazione del disconoscimento della quota del costo ritenuta non congrua dovrà essere particolarmente argomentata, facendo adeguatamente rilevare la grave, precisa e concordante valenza sintomatica della parziale destinazione extraimprenditoriale, risultante dai parametri di riferimento in concreto utilizzati”.

 

Queste affermazioni appaiono senz’altro opportune, così come appare condivisibile il richiamo alla necessità che le motivazioni poste a base dei rilievi in esame siano esposte

“con il più ampio grado di riferimenti fattuali, coerenza logica e limpidezza di contenuti”.

Si ricorda che la stessa Corte di cassazione ha affermato48 che è necessario che

“le varie operazioni, coordinate le une alle altre, abbiano un fine logico, rispondano, almeno nelle intenzioni di chi le pone in essere, a criteri di logica economica, sia pure intesa in senso ampio e questa logica, a sua volta, deve essere funzionale ai meccanismi del mercato e di un regime di libera concorrenza (e valutata in relazione ad essi) e non di elementi distorsivi del mercato e della concorrenza”.

 

Si ritiene, quindi, necessario che il comportamento del contribuente venga valutato tenendo conto della complessiva situazione contrattuale e aziendale, perché una operazione che, isolatamente considerata, può apparire antieconomica (si pensi, ad esempio, ai casi, sopra riportati, menzionati dall’Assonime nella circolare n. 16 del 2009), potrebbe, invece, risultare pienamente conforme ai canoni dell’economia se inquadrata alla luce della complessiva strategia imprenditoriale.

Si ritiene, inoltre, fondamentale che il sindacato della inerenza “quantitativa” dei componenti reddituali venga esercitato soltanto in presenza di situazioni di arbitraggio fiscale, in cui si verifica un risparmio di imposta in conseguenza, ad esempio, di differenze di aliquote o delle modalità di tassazione tra chi sostiene il  costo e chi consegue il componente positivo49.

Tale principio è stato affermato dalla Corte di cassazione, con riguardo alla norma che prevede la regola del transfer pricing per i rapporti internazionali infragruppo, in alcune sentenze50 nelle quali è stato precisato che l’Agenzia delle entrate deve accertare se le operazioni siano finalizzate a sottrarre a tassazione reddito in Italia a favore di Paesi esteri con regime impositivo inferiore.

La necessità che si verifichi un arbitraggio dovrebbe, a maggior ragione, sussistere nelle ipotesi in esame, non regolamentate a livello normativo.

Un’altra importante questione si pone con riguardo alla possibilità che si verifichino, a seguito degli accertamenti degli uffici, duplicazioni impositive.

Al riguardo è stato sostenuto51 che il contribuente può

 

“pretendere comunque che, a seguito della rettifica dei corrispettivi su una parte contraente, sia specularmene riconosciuto un aggiustamento dei medesimi corrispettivi sull’altra parte contraente, anch’essa residente in Italia”.

 

L’approfondimento continua nella 3a parte > 

 

14 maggio 2010

Gianfranco Ferranti

 

 

NOTE

1 Volume secondo, capitolo 4, paragrafo 2.c.

2 Cfr. P. Petrangeli, “La problematica applicazione all’IRAP dei principi di competenza e inerenza”, in Corr. Trib. n. 27/2009, pag. 2163, e G. P. Ranocchi e G. Valcarenghi, “Sui forfait la prova complica i calcoli”, in Il Sole 24 Ore -Norme e tributi del 15 giugno 2009, pag. 3.

3 Paragrafo 1.2.

4 Cfr. R. Rizzardi, “L’Irap torna la bilancio fiscale”, in Il Sole 24 Ore del 17 luglio 2009, pag. 31.

5 Così D. Liburdi, “L’imponibile Irap segue il Tuir”, in Italia Oggi del 17 luglio 2009, pag. 26.

6 C. Siciliotti, “Irap, l’abuso del diritto lo fa l’Agenzia delle entrate”, in Italia Oggi del 18 luglio 2009, pag. 29.

7 Così A. Bongi, “Deducibilità Irap, no problem”, in Italia Oggi del 23 luglio 2009, pag. 27.

8 Cfr. A. Bongi, op. loc. ult. cit.
9 Da R. Lupi, “Le aberrazioni del binario unico”, in Il Sole 24 Ore – Norme e tributi del 27 luglio 2009, pag. 1,

10 Da D. Deotto, “La svolta tardiva sull’IRAP è a rischio liti”, in Il Sole 24 Ore del 21 luglio 2009, pag. 25.

11 L’art. 35, comma 2, del DL n. 223 del 2006, convertito nella legge n. 248 dello stesso anno aveva inserito, nell’art. 54, terzo comma, del DPR n. 633 del 1972, una disposizione in base alla quale “per le cessioni aventi ad oggetto beni immobili e relative pertinenze, la prova … s’intende integrata anche se l’esistenza delle operazioni imponibili o l’inesattezza delle indicazioni di cui al secondo comma sono desunte sulla base del valore normale dei predetti beni, determinato ai sensi dell’articolo 14 del presente decreto”.

12 L’art. 35, comma 3, del citato DL n. 223 del 2006 aveva inserito, nell’art. 39, primo comma, lettera d), del DPR n. 600 del 1973, una disposizione in base alla quale “Per le cessioni aventi ad oggetto beni immobili, ovvero la costituzione o il trasferimento di diritti reali di godimento sui medesimi beni, la prova … si intende integrata anche se l’infedeltà dei ricavi viene desunta sulla base del valore normale dei predetti beni determinato ai sensi dell’articolo 9, comma 3, del testo unico delle imposte sui redditi …”.

13 A norma dell’art. 1, comma 307, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge Finanziaria 2007).

14 Cioè in base alle quotazioni immobiliari determinate dall’Osservatorio del mercato immobiliare dell’Agenzia del territorio.

15 Dall’art. 1, comma 265, della legge n. 244 del 2007.

17 Da R. Lupi, “L’oggetto economico delle imposte nella giurisprudenza sull’antieconomicità”, in Corr. Trib. n. 4/2009, pag. 258.

18 Cass., 9 febbraio 2001, n. 1821, in GT – Riv. giur. trib. n. 8/2001, pag. 1031, con commento di A. Panizzolo, «Il principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali in diritto tributario: conferme e limiti», e cfr. M. Pisani, in Corr.Trib. n. 14/2001, pag. 1060.

19 Come ricordato dallo stesso Lupi, l’alterazione avveniva correggendo la quantità, e trasformando materialmente l’ultimo numero della quantità trasportata nella lettera iniziale di una parola; la “quantità 91”, diventava “quantità 9 Paia”, trasformando l’1 nella gambetta della lettera P, ovvero la quantità 35 diventava “3 scatole”, trasformando il 5 nella lettera “s”, iniziale di “scatole”.

20 Ciò, secondo R. Lupi, op. loc. ult. cit., “proprio per gli equivoci nella lettura della sentenza, le sue mancate contestualizzazioni, la confusione tra profili di fatto (falsità materiale di una affermazione del contribuente) e di diritto”.

21 Si vedano, ad esempio, le seguenti sentenze della Corte di cassazione: n. 12813 del 27 settembre 2000; n. 11645 del 17 settembre 2001; n. 1821 del 9 febbraio 2001; n. 13478 del 30 ottobre 2001; n. 6337 del 3 maggio 2002; n. 7487 del 22 maggio 2002; n. 10802 del 24 luglio 2002; n. 11240 del 30 luglio 2002; n. 793 del 20 gennaio 2004.

22 Si veda la sentenza n. 6599 del 9 maggio 2002, nella quale la Corte aveva anche rilevato che mentre l’art. 59 del DPR
n. 597 del 1973 stabiliva che i compensi degli amministratori erano deducibili nel limite delle misure correnti per gli amministratori non soci, un’analoga previsione non è stata più inserita nelle analoghe norme introdotte successivamente.

23 Così la sentenza n. 21155 del 31 ottobre 2005 (23 maggio 2005).

24 Così la sentenza n. 8577 del 12 aprile 2006, riguardante il caso di un costo sostenuto per una sponsorizzazione.

25 Così la sentenza della Corte di cassazione, Sez. Trib., 29 gennaio 2008 (21 novembre 2007), n. 1915, riguardante il caso di un contribuente che aveva ricoperto la carica di amministratore di una srl e di due condomini senza percepire apparentemente alcun compenso. La Corte ha ritenuto legittimo l’accertamento dell’ufficio che ha assoggettato a tassazione i compensi presumendone la percezione, in quanto si tratterebbe di un comportamento manifestamente antieconomico. Si ricorda, però, che la stessa Corte di cassazione ha affermato, a sezioni unite, nella sentenza n. 21933 del 29 agosto 2008 (20 maggio 2008), che è necessaria una specifica delibera dell’assemblea dei soci per riconoscere la spettanza del compenso agli amministratori delle società di capitali e che è nulla l’attribuzione del compenso senza delibera.

26 Si vedano, in tal senso, le sentenze n. 20748 del 25 settembre 2006 (12 giugno 2006), riguardante i compensi agli associati in partecipazione, e n. 9497 dell’11 aprile 2008, concernente i costi correlati a servizi intragruppo.

27 Corte di cassazione, Sez. Trib., sentenza 7 agosto 2008 (4 luglio 2008), n. 21348.

28 In tale sentenza la Corte ha, tuttavia, considerato legittimo l’avviso di accertamento con il quale l’ufficio, rilevando una differenza tra i corrispettivi dichiarati in relazione alla vendita di alcuni immobili e i loro valori di mercato, ha rettificato i ricavi facendo leva sull’esistenza di perdite di bilancio, nonostante il gran numero di beni venduti, il che indurrebbe addirittura a dubitare dell’effettivo scopo commerciale dell’ente.

29 Si veda la sentenza della Corte di cassazione del 15 settembre 2008, n. 23635.

30 Cfr., per una valutazione critica di tale sentenza, M. Beghin, “Agevolazioni tributarie, componenti reddituali fuori mercato ed evasione fiscale”, in Corr. Trib. n. 3/2009, pag. 203, secondo il quale l’operazione realizzata dal libero professionista “costituisce nulla più che un’accurata (ma innocua) modifica della propria struttura organizzativa, orientata alla lecita riduzione del carico fiscale e, conseguentemente, alla massimizzazione delle risorse monetarie disponibili”. Si ritiene, peraltro, che nel caso che ha formato oggetto della sentenza in esame l’ufficio avrebbe potuto fondatamente contestare la interposizione soggettiva fittizia, in considerazione della stessa sede in cui operavano il professionista e la società, che quest’ultima era partecipata al 90% dal notaio, che fruiva delle agevolazioni fiscali per il Mezzogiorno e che aveva assunto alle proprie dipendenze due ex-collaboratrici dello studio notarile.

31 Hanno affrontato, tra gli altri, la problematica in esame: A. De Mita, “Ma solo la legge può fissare un tetto alle spese”, in Il Sole 24 Ore del 13 novembre 2001, pag. 28; F. M. Giuliani, “Sulla deducibilità fiscale dei compensi agli amministratori (soci) di società di capitali”, in Dir. Prat. Trib, 2002, II, pag. 21; G. Marongiu, “Il sindacato sulla congruità dei compensi agli amministratori”, in Corr. Trib. n. 39/2002, pag. 3560; A. Fantozzi, “Sindacabilità delle scelte imprenditoriali e funzione nomofilattica della Cassazione”, in Riv. Dir. Trib. 2003, II, pag. 552; D. Stevanato, “L’antieconomicità dell’azione imprenditoriale nella giurisprudenza della cassazione, tra presunzioni di evasione ed interpretazioni in chiave antielusiva”, in Dialoghi di dir. Trib., 2003, pag. 370; Gulino, R. Lupi e D. Stevanato, “Il sindacato del Fisco sui compensi agli associati in partecipazione (nota a Cass., Sez. trib., sent. N. 20748/2006), in Dialoghi di dir. Trib., 2007, pag. 659; C. Pino, “E’ “comportamento antieconomico” l’attività di amministratore svolta senza percepire compensi?”, in Corr. Trib. n. 12/2008, pag. 958; R. Lupi, “L’oggetto economico delle imposte nella giurisprudenza sull’antieconomicità”, op. cit., M. Beghin, “Atti di gestione anomali o antieconomici e prova dell’afferenza del costo all’impresa”, in Riv. Dir. Trib., 1996, I, pag. 413, “Il differenziale prezzo-valore nella cessione d’azienda: i cortocircuiti argomentativi della Suprema Corte”, in Rassegna Tributaria n. 4/2008, pag. 1087, id. “La differenza prezzo-valore rileva solo in una “vera” valutazione d’insieme”, in Corr. Trib. n. 36/2008, pag. 2934, id. “Agevolazioni tributarie, componenti reddituali fuori mercato ed evasione fiscale”, op. cit., id. “Reddito d’impresa ed economicità delle operazioni”, in Corr. Trib. n. 44/2009, pag. 3626.

32 Così la risoluzione n. 9/1437 del 1° luglio 1980.

33 Nella circolare n. 9/IR, paragrafo 2.2.

34 Si citano, al riguardo, le operazioni realizzative che si caratterizzano per la mancanza di un corrispettivo (autoconsumo, destinazione a finalità estranee all’esercizio dell’impresa o assegnazione ai soci di beni) e quelle infragruppo transnazionali (c.d.: transfer pricing internazionale), in cui è la legge a prevedere espressamente la rilevanza fiscale del valore di mercato in sostituzione del corrispettivo effettivamente pattuito tra le parti.

35 Nella circolare n. 9/IR, nota 26, viene ritenuta emblematica, a tal fine, la sentenza della Corte di cassazione 9 febbraio 2001, n. 1821. Viene, inoltre, ricordata la sentenza 24 luglio 2002, n. 10802, nella quale la Corte di cassazione fa riferimento all’antieconomicità “manifesta”, intesa come evidente sproporzione dei costi all’attività esercitata.

36 Nella circolare n. 16/2009, paragrafo 1.1. e nota 10.

37 Così la citata sentenza del 15 settembre 2008, n. 23635, che richiama la precedente sentenza del 24 luglio 2002, n. 10802.

38 Da M. Beghin, “Agevolazioni tributarie, componenti reddituali fuori mercato ed evasione fiscale”, op. cit.

39 Cfr. Cass., , 6 novembre 2000, n. 14448; Id., 20 novembre 2001, n. 14581; Id., 28 ottobre 2005, n. 21055; Id., 30
gennaio 2006, n. 2005; Id., 1° giugno 2007, n. 12899; Id. 18 luglio 2008, n. 19830; Id. 22 dicembre 2009, n. 27019.

40 Così A. Marcheselli, “Valore di registro dell’azienda, prova della plusvalenza e difesa del contribuente”, in Corr. Trib. n. 9/2010, pag. 681.

41 Da A. Marcheselli, op. loc. ult. cit.

42 Da D. Stevanato, “Una conferma delle insufficienti riflessioni sulla derivazione contrattuale del concetto di reddito”, in Dialoghi tributari n. 6/2008, pag. 86.

43 Da A. Marcheselli, “Le Sezioni Unite sulla natura presuntiva degli studi di settore”, in Corr. Trib. n. 4/2010, pag.
251.

44 Così D. Stevanato, “L’indeducibilità dei compensi “abnormi” agli amministratori-soci”, in Corr. Trib. n. 7/2002, pag. 598. Nella citata circolare n. 16/2009, paragrafo 1.1. e nota 10.

46 Da M. Andriola, “Portata e limiti della sindacabilità da parte del Fisco dei comportamenti assolutamente antieconomici”, in Fiscalitax n. 6/2008, pag. 904.

47 Cfr., al riguardo, R. Lunelli, “Cessione d’azienda: la plusvalenza va determinata in base al prezzo o al valore?”, in Guida ai controlli fiscali n. 9/2007, pag. 73.

48 Nella citata sentenza del 24 luglio 2002, n. 10802.

Scarica il documento