L'inerenza degli interessi passivi delle spese di rappresentanza e la presunzione di comportamenti antieconomici

Completiamo il nostro approfondimento sulla sindacabilità dei comportamenti antieconomici da parte del Fisco. In particolare puntiamo il mouse sulla quaestio dell’inerenza all’attività delle spese di rappresentanza.

Completiamo il nostri approfondimento sulla sindacabilità dei comportamenti antieconomici da parte del Fisco, cominciato nelle settimane precedenti con l’analisi del principio di inerenza e proseguito con la tematica dei compensi degli amministratori

 

Sulla sindacabilità dei comportamenti antieconomici

L’inerenza qualitativa e quantitativa degli interessi passivi 

In base all’art. 61 del TUIR è richiesta, per i soggetti IRPEF, la verifica del requisito dell’inerenza degli interessi passivi; un’analoga precisazione non è stata, invece, inserita nel successivo art. 96 per i soggetti IRES1.

Si ricorda che la Corte di cassazione2 ha in passato affermato che, a differenza di quanto si verificava in vigenza del D.P.R. n. 597 del 1973, in base al quale la deducibilità degli interessi era subordinata alla verifica della loro inerenza, dopo l’entrata in vigore del TUIR è stato riconosciuto, nella disposizione attualmente contenuta nell’art. 109, comma 5, un trattamento differenziato per gli interessi passivi rispetto agli altri componenti negativi, nel senso che il diritto alla loro deducibilità, entro i limiti previsti, sarebbe riconosciuto sempre, senza alcun giudizio sulla inerenza.

Di recente, peraltro, la stessa Corte3 ha, invece, affermato che la disposizione da ultimo richiamata non comporterebbe una generale deducibilità degli interessi passivi, dovendosi sempre dimostrare “un “collegamento” tra reddito imprenditoriale e componente negativo detraibile che non può rivolgersi ad un reddito “ontologicamente” diverso perché estraneo alla stessa attività di impresa”.

In dottrina è stato correttamente ritenuto4 che il principio di inerenza non avrebbe una espressa disciplina nel TUIR ma discenderebbe direttamente dal principio costituzionale di capacità contributiva e che la disposizione dell’art. 109, comma 5, si riferirebbe al solo profilo della coesistenza di proventi imponibili ed esenti.

 

L’inerenza è, quindi, un

“concetto pregiuridico, implicito nella stessa nozione di reddito, che per dirsi tale deve essere calcolato al netto dei costi necessari o utili alla sua produzione”5.

 

L’Agenzia delle entrate, nella risoluzione n. 178/E del 9 novembre 2001 (riguardante gli interessi relativi ad un finanziamento erogato per differire il pagamento di sanzioni irrogate dalla Commissione europea), ha, da parte sua, affermato che gli interessi passivi sono deducibili “indipendentemente dalla loro inerenza ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito” e che,

“considerando l’estrema fungibilità del denaro, l’individuazione di un nesso diretto tra un’operazione di finanziamento e l’utilizzo delle risorse finanziarie generate appare arbitraria”.

Si ritiene che, nonostante le apparenze, tale pronuncia non risulti in contrasto con la menzionata impostazione della dottrina, essendo nella stessa semplicemente sostenuto che gli interessi passivi “possono essere assimilati ad un costo generale dell’impresa, cioè ad un costo che non può essere specificamente riferito ad una particolare attività aziendale o ritenuto accessorio ad un particolare onere”, senza giungere ad affermare la irrilevanza del principio di competenza.

La stessa Agenzia6 ha affermato, con riguardo alla esenzione dalle imposte sugli interessi e sui canoni corrisposti a soggetti residenti in Stati membri dell’Unione europea disciplinata dall’art. 26-quater del DPR n. 600 del 1973, che gli interessi devono essere inerenti all’attività della stabile organizzazione.

Tale precisazione era stata, però, formulata in quanto

“la definizione fornita dalla direttiva7 fa riferimento alla sussistenza del requisito dell’effettiva connessione degli interessi e dei canoni corrisposti con l’attività della stabile organizzazione, e non ad un criterio di effettiva deduzione dei sopradetti pagamenti.

Quanto specificato nella direttiva, infatti, mira ad individuare con certezza quando i redditi pagati siano realmente inerenti all’attività svolta dalla stabile organizzazione e, di conseguenza, imputabili all’oggetto economico della stabile organizzazione stessa e non a quello della casa madre”.

Si tratta, quindi, di un’affermazione resa in riferimento ad una fattispecie normativa particolare, che richiede, al fine del riconoscimento dell’esenzione, l’esatta individuazione del beneficiario effettivo degli interessi.

Appare, al riguardo, importante la precisazione fornita dall’Agenzia delle entrate nella circolare n. 16/E del 14 aprile 2009, riguardante la parziale deduzione dell’IRAP dalla base imponibile delle imposte sui redditi, secondo la quale tale deduzione “prescinde, dunque, dall’ammontare complessivamente sostenuto per oneri del personale o interessi passivi.

Resta inteso che il sostenimento dei costi relativi al personale dipendente o agli interessi passivi deve rispondere a criteri di inerenza, ragionevolezza ed economicità e risultare coerente con gli obiettivi di politica aziendale perseguiti.

In relazione, in particolare, ad operazioni che abbiano dato luogo ad interessi passivi saranno attivati opportuni controlli al fine di verificarne le valide ragioni economiche e l’inerenza all’attività esercitata.

Inoltre, per i soggetti obbligati alla redazione del bilancio di esercizio i medesimi costi devono essere individuati secondo corretti principi contabili”.

Tale precisazione, nel richiamare i criteri di “inerenza, ragionevolezza ed economicità”, appare ricollegarsi all’orientamento della Corte di cassazione e dell’Amministrazione finanziaria secondo il quale quest’ultima può sindacare la antieconomicità dei comportamenti tenuti dai contribuenti, valutando la congruità dei costi e dei ricavi esposti in bilancio e nelle dichiarazioni rispetto ai prezzi di mercato, anche in assenza di irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o di vizi degli atti posti in essere.

Attesa la rilevanza e la delicatezza di tale questione appare opportuno l’intervento di chiarimenti ufficiali al riguardo.

Appare, inoltre, importante l’affermazione secondo la quale occorre verificare le valide ragioni economiche e “l’inerenza” degli interessi passivi, riferita genericamente a tutte le imprese che possono avvalersi della parziale deduzione dell’IRAP.

L’Agenzia sembra aver in tal modo aderito alla tesi interpretativa secondo la quale la disposizione dell’art. 109, comma 5, si riferirebbe al solo profilo della coesistenza di proventi imponibili ed esenti, mentre il principio di inerenza sarebbe “immanente” nel sistema e, come tale, troverebbe applicazione agli interessi passivi sostenuti sia dalle imprese soggette all’IRPEF che da quelle soggette all’IRES, al fine di evitare ingiustificate disparità di trattamento.

Il requisito dell’inerenza dovrebbe, quindi, essere rispettato anche nei periodi anteriori al 2008, indipendentemente dalla precisazione da ultimo inserita nell’art. 61.

Nella circolare n. 19/E del 21 aprile 2009 l’Agenzia ha, però, trattato esplicitamente il tema dell’inerenza degli interessi passivi soltanto con riguardo all’art. 61 del TUIR8 (applicabile ai soggetti IRPEF e agli enti non commerciali), affermando che “rispetto alla previgente formulazione dell’articolo 96”, l’articolo 61 puntualizza il proprio campo di applicazione, “confermando” che nello stesso rientrano gli interessi passivi “inerenti” l’esercizio dell’attività d’impresa.

Di conseguenza,

“in via preliminare, rispetto alla determinazione del pro rata di deducibilità, occorre escludere gli interessi passivi che non afferiscono all’esercizio dell’impresa, in quanto gli stessi non entrano nel citato rapporto e sono del tutto indeducibili”.

L’Agenzia, utilizzando il termine “confermando”, ha, quindi, affermato la natura interpretativa della precisazione normativa riguardante il requisito dell’inerenza degli interessi passivi.

Tale affermazione appare giustificata dalla considerazione che appare difficilmente sostenibile che sia consentita la deduzione di interessi relativi a finanziamenti non finalizzati allo svolgimento di attività inerenti all’impresa ma connessi a esigenze personali o familiari dell’imprenditore, dei collaboratori dell’impresa familiare, ecc.

Un’analoga precisazione non è stata, però, formulata con riguardo ai soggetti IRES.

Al riguardo è stato ritenuto9 che, comunque, il detto requisito della inerenza degli interessi passivi non possa riguardare le sole imprese soggette ad IRPEF e non anche i soggetti IRES, ma che vada adottata un’interpretazione logico- sistematica della nuova normativa, al fine di evitare una evidente ed ingiustificata disparità di trattamento10.

Tale impostazione non è stata, però, condivisa da chi11 ha ritenuto, invece, che dovrebbe escludersi l’ipotesi che il mancato richiamo al detto requisito nell’art. 96 del TUIR sia dovuto a una mera dimenticanza del legislatore e che la lacuna sia colmabile in via sistematica, apparendo

“ragionevole invece ipotizzare che il mancato riferimento all’inerenza sia frutto di una precisa scelta legislativa pienamente coerente con il nuovo meccanismo di individuazione e determinazione degli interessi passivi sostenuti da tali soggetti”.

Il requisito dell’inerenza sarebbe stato volutamente non richiamato dall’art. 96

“in quanto non strettamente necessario: in questo senso, lo stesso meccanismo previsto dalla norma sarebbe indirettamente idoneo a garantire in via presuntiva anche il controllo dell’inerenza.

A ben guardare, infatti, la nuova regola altro non esprimerebbe se non una presunzione assoluta, in base alla quale la semplice esistenza di un risultato operativo lordo renderebbe automaticamente deducibile in percentuale un determinato ammontare di interessi passivi di competenza.

Ed anche la scelta dei componenti positivi che concorrono a formare il parametro economico rilevante ai fini della deduzione assume particolare significato.

Così, ad esempio, la scelta di non includere in tale parametro i dividendi non risponde, per così dire, a ragioni discriminanti, ma proprio all’obiettivo di individuare nel reddito della gestione industriale o commerciale la sola grandezza idonea ad assorbire quote di interessi passivi.

In altri termini, le condizioni di inerenza e, al contempo, di congruità degli interessi passivi deducibili dovrebbero ritenersi implicitamente soddisfatte proprio perché il meccanismo è in grado (idealmente) di collegare direttamente tali oneri al reddito prodotto.

Proprio in tale ottica, del resto, si comprende il motivo per cui il nuovo meccanismo rinunci anche a verificare, come faceva invece il precedente pro rata reddituale, se i componenti positivi concorrano o meno a formare il reddito imponibile”.

 

Si ricorda, peraltro, che nella circolare n. 36/E del 16 luglio 200912 l’Agenzia delle entrate, affrontando la problematica dell’applicabilità del principio dell’inerenza in sede di determinazione della base imponibile IRAP, ha affermato che tale principio rileva, già ai fini civilistici, come condizione per imputare a conto economico un determinato componente negativo di reddito e che i componenti negativi correttamente imputati a conto economico in applicazione dei principi civilistici “sono normalmente connotati dal generale requisito di inerenza”, che è, tuttavia,

“sindacabile dall’Amministrazione finanziaria in sede di controllo”.

Nella successiva circolare n. 39/E del 22 luglio 2009 l’Agenzia ha ulteriormente precisato che, in base ai principi contabili, un costo che non attenga all’attività d’impresa ma alla sfera personale degli amministratori o dei soci non può essere dedotto solo perché civilisticamente è stato imputato al conto economico.

In questi casi, evidentemente, l’Amministrazione finanziaria ha il potere di contestare al contribuente l’assenza di inerenza del costo in questione.

Si potrebbe, di conseguenza, ritenere che, in assenza di un’esplicita previsione normativa ai fini dell’IRES, gli uffici delle entrate possano contestare la non inerenza degli interessi passivi sulla base della corretta applicazione dei principi contabili, richiesta dal principio di derivazione sancito dall’art. 83 del TUIR.

In considerazione dei dubbi interpretativi sopra illustrati e della stessa giurisprudenza non costante della Corte di cassazione si ritiene che sarebbe stato probabilmente più opportuno che il legislatore fosse intervenuto con una disposizione di interpretazione autentica, analogamente a quanto avvenuto con riguardo agli interessi passivi relativi agli immobili-patrimonio.

 

L’inerenza delle spese di rappresentanza

spese di rappresentanzaL’attuale disciplina delle spese di rappresentanza, introdotta dall’art. 1, comma 33, lettera p), della legge Finanziaria per il 2008, che ha modificato il disposto dell’art. 108, comma 2, del TUIR, ha trovato attuazione con la pubblicazione13 del decreto ministeriale del 19 novembre 2008.

Al decreto di attuazione è stato assegnato dalla norma il compito di precisare i requisiti di inerenza e congruità necessari ai fini della deducibilità delle spese di rappresentanza, tenendo conto della natura e della destinazione delle spese, del volume d’affari dell’attività caratteristica dell’impresa e dell’attività internazionale della stessa.

La nuova normativa ha introdotto il principio della deducibilità delle spese di rappresentanza “nel periodo d’imposta di sostenimento”, purché rispondenti al requisito di inerenza così come definito dal decreto di attuazione.

Pertanto, le spese di rappresentanza sono considerate direttamente connesse alla produzione di ricavi e, quindi, deducibili nell’esercizio di competenza e non più, come nella precedente disciplina, limitatamente ad un terzo del loro ammontare e per quote costanti nell’esercizio in cui sono state sostenute e nei quattro successivi.

Tali spese hanno, quindi, perso la loro natura fiscale di oneri di carattere pluriennale.

Le spese di rappresentanza sono, inoltre, sottoposte anche ad una valutazione di “congruità”.

E’ stato, al riguardo, introdotto un limite calcolato come percentuale sull’ammontare dei ricavi dell’attività caratteristica dell’impresa. Rispetto alla bozza di decreto originariamente predisposta è stato eliminato il limite massimo di 200.000 euro per la deducibilità delle spese in esame, al fine di non penalizzare le imprese di maggiori dimensioni.

E’ stato, invece, mantenuto il limite commisurato all’ammontare dei ricavi, applicato, però, anziché con una percentuale fissa del 2%, con tre percentuali decrescenti in base agli scaglioni di ricavi ( 1,3; 0,5; 0,1 per cento).

Sono state, altresì, individuate particolari tipologie di spese che non sono considerate di rappresentanza e alle quali, quindi, non si applica il detto limite commisurato ai ricavi.

La disciplina delle spese di rappresentanza ha formato oggetto di esame da parte dell’Istituto di ricerca del consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, con la circolare n. 9/IR del 20 aprile 2009, e dell’Assonime, con la circolare n. 16 del 9 aprile 2009.

L’Agenzia delle entrate non ha, invece, ancora emanato la circolare esplicativa, necessaria per l’orientamento degli operatori.

Nel comma 1 dell’art. 1 del decreto di attuazione è stato individuato come carattere essenziale delle spese di rappresentanza quello della gratuità e sono stati indicati i criteri in base ai quali le stesse possono considerarsi inerenti, senza dare alcun rilievo al criterio distintivo basato sull’oggetto del messaggio (il prodotto ovvero la ditta).

In particolare, è stato richiesto, ai fini della sussistenza del requisito dell’inerenza, che le spese in questione, oltre che documentate, siano state effettivamente sostenute “con finalità promozionali o di pubbliche relazioni” e che il loro sostenimento “risponda a criteri di ragionevolezza in funzione dell’obiettivo di generare, anche potenzialmente, benefici economici per l’impresa ovvero sia coerente con pratiche commerciali” del settore in cui l’impresa si trova ad operare e competere.

Al riguardo è stato osservato14 che al termine “ovvero” non va dato il valore di “ossia” bensì di “oppure”.

Di conseguenza, “quand’anche una spesa di rappresentanza apparisse irragionevole, in funzione dell’obiettivo di generare, anche potenzialmente, benefici economici per l’impresa, essa sarebbe comunque qualificabile come di rappresentanza, qualora fosse coerente con le pratiche commerciali di settore.

In altre parole, la coerenza con la prassi settoriale sana l’apparente irragionevolezza di una spesa”15.

Si concorda con tale interpretazione e si ritiene che, di conseguenza, in caso di assenza di pratiche commerciali di settore ovvero di incoerenza delle spese con le stesse è necessario dimostrare la ragionevolezza delle dette spese di rappresentanza, valutandone l’idoneità a generare ricavi.

Si ritiene, altresì, che la valutazione della ragionevolezza della spesa attenga al requisito dell’inerenza di tipo qualitativo e non quantitativo e non riguardi, quindi, la congruità della spesa stessa, autonomamente regolamentata dal decreto di attuazione.

Tale tesi appare coerente con la circostanza che la norma in esame è posta nel comma 1 e non nel comma 2, nel quale è definito il requisito della congruità. L’Assonime ha, peraltro, rilevato che non è facile cogliere, in concreto, in che consista la qualità della spesa che ne denoterebbe la pertinenza all’esercizio dell’impresa.

Sempre in merito al criterio della ragionevolezza è stato osservato16 che

“l’impresa potrà, ad esempio, sviluppare una ‘reportistica’ interna per dimostrare come in modo ragionevole possa con quella iniziativa raggiungere dei benefici ovvero si potranno prendere a base, per dimostrare la ragionevolezza della spesa rispetto ai competitor, le statistiche di settore”.

Qualora nell’ambito dei gruppi societari una società (di solito la holding) sostenga le spese di rappresentanza in nome proprio ma per conto delle altre società del gruppo, l’Assonime17 ha osservato, in modo condivisibile, che le somme riaddebitate costituiscono ricavi per la detta società (che può dedurre senza limitazioni i relativi costi, per l’importo non sostenuto nel suo diretto interesse) e costi deducibili nei limiti previsti dal decreto di attuazione per le società sulle quali sono “ribaltati”.

Nella relazione illustrativa del decreto di attuazione è evidenziato che il riferimento alle finalità promozionali e di pubbliche relazioni induce ad escludere, ad esempio, le spese sostenute a favore di lavoratori dipendenti, amministratori e soci (ovvero dell’imprenditore individuale).

Nell’art. 1, comma 7, del decreto attuativo è stabilito che, in coerenza con quanto già previsto dalla norma primaria, le nuove disposizioni si applicano con riferimento alle spese sostenute a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2007 (quindi dal 2008 in caso di esercizio coincidente con l’anno solare).

Per le spese sostenute nei periodi d’imposta precedenti restano, quindi, applicabili le norme precedentemente in vigore.

Nella relazione che accompagna il decreto di attuazione si afferma che, anche se la precedente disciplina non prevedeva specifici indici o parametri atti a misurare la congruità delle spese di rappresentanza, limitandosi a fissare in via forfetaria il “quantum” delle spese ammissibili in deduzione (un terzo dell’importo sostenuto), ciò non può essere interpretato

“nel senso di precludere agli uffici qualunque controllo e giudizio di congruità delle spese sostenute; in presenza di comportamenti anomali e irragionevoli, infatti, gli uffici dell’Amministrazione finanziaria avrebbero pur sempre il potere di disconoscere, in tutto o in parte, la deducibilità di un costo, nel rispetto del generale criterio di economicità che dovrebbe ispirare e caratterizzare tutti gli atti dell’impresa (in tal senso, si veda, da ultimo, la nota dell’Agenzia delle entrate, Direzione Centrale Accertamento, dell’8 aprile 2008 n. 2008/55440, con ampi richiami agli orientamenti della Corte di Cassazione, per i quali, da ultimo, si veda la sentenza n. 9497 dell’11 aprile 2008)”.

Si rinvia, al riguardo, a quanto già osservato in precedenza.

Sembrerebbe, comunque, che nell’ambito della nuova normativa sia preclusa per gli uffici la possibilità di sindacare i comportamenti delle imprese sotto il profilo della loro “economicità”, in quanto i criteri per la valutazione della congruità della spesa sono stati direttamente stabiliti dal relativo decreto di attuazione.

 

Leggi anche: La congruità delle spese di rappresentanza

 

24 maggio 2010

Gianfranco Ferranti

 

 

NOTE

1 Si veda G. Ferranti, “Modifiche alla disciplina degli interessi passivi”, in Corr. Trib. n. 46/2007, pag. 3759.

2 Con le sentenze n. 14702 del 21 novembre 2001 e n. 2114 del 2 febbraio 2005.

3 Nella sentenza n. 7292 dell’11 gennaio 2006.

4 Cfr., al riguardo: R. Lupi, “Redditi illeciti, costi illeciti, inerenza ai ricavi e inerenza all’attività”, in Rassegna Tributaria n. 6/2004, pag. 1935; G. Zizzo, “Il reddito d’impresa”, in G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, parte speciale, Padova, pag. 243; M. Beghin, “Prestiti gratuiti ai soci e disciplina fiscale degli oneri finanziari sopportati dalla società: considerazioni sul concetto di inerenza e sulla regola di deducibilità (pro-rata) degli interessi passivi”, in Riv. Dir. Trib., 1998, II, pag. 153; A. Panizzolo, “Inerenza ed atti erogativi nel sistema delle regole di determinazione del reddito d’impresa”, in Riv. Dir. Trib., 1999, I, pag. 676; C. Attardi, “Reddito d’impresa. Interessi passivi ed inerenza. Note a margine del disegno di legge Finanziaria 2008”, in Il Fisco n. 40/2007, pag. 5828.

5 Così D. Stevanato, “Finanziamenti all’impresa e impieghi “non inerenti”: spunti su interessi passivi e giudizio di inerenza”, in Dialoghi tributari n. 6/2008, pag. 19.

6 Nella circolare n. 47/E del 2 novembre 2005.

7 Si tratta della Direttiva 2003/49/CE, concernente il regime fiscale applicabile ai pagamenti di interessi e di canoni fra società consociate di Stati membri diversi, recepita ad opera del decreto legislativo 30 maggio 2005, n. 143.

8 Nel paragrafo 3 della circolare n. 19/E del 2009.

9 Da G. Ferranti, “Limite alla deduzione degli interessi passivi nella Finanziaria 2008”, in Dialoghi tributari n. 1/2008, pag. 83.

10 Anche R. Lupi, “Limiti alla deduzione degli interessi e concetto generale di inerenza”, in Corr. Trib. n. 10/2008, pag. 771, ritiene che “i limiti alla deduzione degli interessi passivi per le società di capitali non legittimano automaticamente ogni operazione compatibile con tali limiti” e che

“sostenere che la deduzione degli interessi passivi per le società di capitali non è soggetta a valutazione di inerenza è un forzato formalismo, che difficilmente sarà accettato nel diritto vivente e che rischia di provocare equivoci”.

Aderiscono a tale impostazione anche P. Lipardi e G. Stancati, “La nuova disciplina di deducibilità degli interessi passivi.

Profili applicativi e sindacato di inerenza”, in Boll. Trib. n. 21/2008, pag. 1651. D. Stevanato, op. loc. ult. cit., sostiene anch’egli che “anche a legislazione invariata” sussistono margini per sostenere l’applicabilità del giudizio di inerenza in relazione agli interessi passivi,

“avendo, però, cura di evitare la ricerca di un impossibile (o comunque avanescente) legame di tipo analitico tra la singola fonte di finanziamento ed uno specifico utilizzo non inerente delle risorse”

e di accostarsi, invece, al tema con una logica forfetaria, cioè calcolando il costo medio dell’indebitamento e rendendo indeducibile la parte dello stesso astrattamente riferibile agli impieghi non inerenti.

11 Si veda M. Zeppilli, “Inquadramento sistematico della disciplina degli interessi passivi”, in Corr. Trib. n. 21/2009, pag. 1672.

12 Paragrafo 1.2.

13 Sulla Gazzetta Ufficiale del 15 gennaio 2009.

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