La circolazione dell’azienda: opzione tra diversi tipi di operazioni straordinarie

dovendo procedere al trasferimento, alla trasmissione e in generale alla «circolazione» del bene-azienda, la prassi mette a disposizione diverse alternative, le quali possono essere esaminate e comparate sotto il profilo del rischio fiscale e della maggiore o minore onerosità…

I diversi tipi di operazioni per il trasferimento d’azienda: effetti fiscali e pericolosità alla luce della normativa antielusione

Premesse

operazioni straordinarieDovendo procedere al trasferimento, alla trasmissione – anche in un’ottica successoria -, e in generale alla «circolazione» del bene-azienda (un bene complesso, incorporante anche la sua idoneità a funzionare in vista dell’unitaria produzione di un risultato economico), la prassi mette a disposizione diverse alternative, le quali possono essere esaminate e comparate sotto il profilo del rischio fiscale e della maggiore o minore onerosità.

Come è noto, l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art. 2555, c.c.), e si compone dei beni materiali e immateriali strumentali all’esercizio dell’impresa (compresi i rapporti obbligatori).

Giacché il trasferimento di una «utilitas» che complessivamente possa definirsi «azienda» presuppone l’idoneità a funzionare in vista di un unitario scopo economico, l’operazione a tal fine progettata – cessione, donazione, fusione, scissione, conferimento … – può anche non riguardare l’intero complesso aziendale, ma il complesso delle attività cedute deve comunque essere sufficiente all’esercizio di impresa (così da porre in essere il trasferimento di un ramo d’azienda). In via preliminare, può essere a tale riguardo ulteriormente precisato che, mentre la «semplice» cessione dell’azienda è suscettibile di generare plusvalenze imponibili, la circolazione del bene-azienda nell’ambito di operazioni straordinarie neutrali (fusioni, scissioni, conferimenti … ) può azzerare – o, meglio, sospendere – la tassazione.

Omettendo gli aspetti civilistici, contabili e fiscali generali, il presente contributo si concentrerà soprattutto sul «rischio di elusione» connesso alle varie opzioni possibili, o – meglio – sulla possibilità per l’Amministrazione di contestarne la natura elusiva e sulle «valide ragioni economiche» che invece possono essere opposte dai contribuenti. Si rammenta a tale riguardo che dette ragioni possono essere comprovate in due momenti, ossia in sede di ruling preventivo – ex art. 21 della L. n. 413/1991 – e in sede di accertamento, nell’ambito del contraddittorio che rappresenta ormai la forma «naturale» delle vertenze con gli uffici fiscali.

Qualche precisazione preliminare

Alla luce del già citato art. 2555 del codice civile, può osservarsi che gli elementi centrali nella definizione del concetto di azienda sono costituiti:

  • dal requisito dell’organizzazione dei beni, ossia il collegamento funzionale fra i beni di un complesso produttivo unitario;
  • dal requisito della strumentalità per l’esercizio dell’impresa, nel senso che se è configurabile un’impresa senza azienda, non appare invece possibile parlare di azienda al di fuori di un contesto di tipo imprenditoriale.

Tra gli elementi che concorrono a formare l’azienda devono ricomprendersi – secondo l’interpretazione più condivisibile – tutti i beni materiali e immateriali, ivi inclusi i rapporti obbligatori, ma con l’esclusione dei debiti.

Infatti, rispetto ai cespiti materiali e immateriali che possono essere trasferiti con l’azienda, le passività costituiscono semmai un «accollo contestuale», ossia una pattuizione distinta da quella strettamente qualificabile come trasferimento d’azienda, ma stipulata nell’ambito di un accordo contrattuale unitario; per tale motivo, esse possono essere poste in diminuzione del valore dell’utilità ricevuta.

Azienda e «autonoma organizzazione»

A questo punto, proprio valorizzando il dettato civilistico che fa riferimento al requisito organizzativo per ravvisare la presenza dell’«azienda», è facile porre in relazione detto requisito con una nozione ben nota alle elaborazioni giurisprudenziali, alla prassi e alla dottrina relativamente all’IRAP: quella di «autonoma organizzazione». Quest’ultima, a parere di chi scrive, rappresenta infatti una sorta di «ipostasi» dell’«idea organizzativa», ideata per poter ricondurre a un unitario presupposto impositivo sia gli imprenditori che i lavoratori autonomi.

È infatti evidente che, nei fatti, viene a configurarsi un’oggettiva analogia tra la situazione del grande studio professionale, diretto da un titolare o da alcuni soci-partner e caratterizzato dalla presenza di «professionisti subordinati» (nonché di prestatori di lavoro dipendente e di un complesso di beni strumentali) e quella dell’impresa. D’altro lato, talune attività d’impresa difettano totalmente di «organizzazione», e – pertanto – di «azienda».

In particolare, al «crocevia» tra impresa (commerciale e agricola) in senso proprio e lavoro autonomo (prestazioni d’opera «ordinarie» e artistico-professionali), si pongono le attività ausiliarie di cui all’art. 2195 c.c. (tra le quali rientrano quelle di agente di commercio e di promotore finanziario). Tali attività rappresentano un «canale» in grado di porre in comunicazione il campo dell’«esclusione da IRAP» (seguendo l’iter logico-giuridico della Consulta) e il mondo delle piccole imprese, come è stato dimostrato dalle pronunce delle SS.UU. civili della Cassazione nn. 12108, 12109, 12110, 12111 del 26.5.2009 (udienza del 12.5.2009).

In tale sede la Corte ha chiaramente affermato che con riferimento alle attività ausiliarie, alla luce della natura reale dell’IRAP, è richiesto volta per volta un riscontro puntuale della sussistenza del requisito dell’«autonoma organizzazione».

Imponendosi pertanto la verifica del requisito dell’autonoma organizzazione al fine di stabilire la debenza dell’IRAP, la Suprema Corte ha ammesso la possibilità di un’«impresa» senza azienda, e financo senza beni strumentali (anche se, per ora, si tratta di una pronuncia incidente sui soli agenti di commercio e promotori finanziari).

 

Attività d’impresa, fusione e valide ragioni economiche

fusione d'aziendaNel contesto della fusione societaria, limitando l’analisi agli effetti fiscali ricercati e a quelli indesiderati, l’«azienda» si avvia a divenire, evidentemente, il risultato della combinazione dei compendi aziendali delle due società fuse (o dell’incorporante e dell’incorporata); a tale riguardo, la prassi dell’Amministrazione e gli orientamenti espressi dal soppresso Comitato «antielusivo» hanno sempre cercato di valorizzare l’intenzionalità dei soggetti coinvolti, nella prospettiva della funzione tipica della fusione, riconducibile alla crescita quali-quantitativa del business.

In relazione alle operazioni di fusione, il concetto di valide ragioni economiche – che assume un’importanza centrale quale criterio per affermare o escludere il carattere elusivo di un determinato comportamento – risulta dirimente sia per quanto attiene alla disposizione antielusiva «generale», sia con riferimento alle norme specifiche per il contrasto al fenomeno delle «bare fiscali».

In tale prospettiva, un’utilissima base interpretativa – dal punto di vista dell’Amministrazione – può essere fornita dalla risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 62/E del 28.2.2002, secondo la quale

« … una operazione di fusione rappresenta uno dei mezzi per giungere alla crescita delle dimensioni dell’impresa ed alle conseguenti economie di scala. L’obiettivo di fondo è, di norma, il rafforzamento della posizione dell’impresa sul mercato e il miglioramento della propria capacità competitiva. Ciò nell’intento di aumentare la produttività o, in vista di un allargamento del mercato, di acquisire nuovi vantaggi concorrenziali, o, semplicemente, di acquisire particolari conoscenze tecnologiche o professionalità che appaiono necessarie in vista dei cambiamenti in atto».

 

Inoltre, sono ammessi nella risoluzione

« … motivi puramente finanziari come quando l’integrazione risponde all’esigenza di creare complessi in grado di reperire maggiori risorse finanziarie e di aumentare le capacità di credito».

«La fusione è, dunque, economicamente motivata allorquando sia finalizzata a determinare delle sinergie produttive, commerciali, finanziarie tra le realtà aziendali che si fondono. Quanto sopra non emerge dalla fusione in argomento».

 

Ciò premesso, la risoluzione ha individuato nell’operazione prospettata – la creazione di un soggetto incorporante da porre immediatamente in liquidazione – un’ipotesi marcatamente elusiva, in quanto finalizzata non alla costituzione o prosecuzione di un’attività d’impresa (in un’ottica «aziendale»), ma alla compensazione intersoggettiva delle perdite maturate dalla controllante.

 

La scissione nell’ottica successoria

Le valide ragioni economiche in grado di giustificare un’operazione potenzialmente elusiva, anche sotto la diversa denominazione e «classificazione» dell’abuso del diritto (nozione recentemente ripresa e valorizzata dalla Cassazione), possono risiedere nell’intenzione di garantire, attraverso l’operazione straordinaria, la successione nella gestione e direzione dell’impresa. Si tratta di un’ipotesi non di «circolazione», bensì di «mantenimento» dell’azienda (nel senso civilistico di complesso dei beni e servizi organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività economica).

Nella risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 58/E del 22.3.2007, sottolineando che l’operazione di scissione parziale proporzionale, di per sé considerata, è fiscalmente neutrale e non elusiva, l’Agenzia ha tuttavia osservato che la medesima operazione

«… potrebbe assumere (…) valenza elusiva qualora fosse preordinata alla successiva cessione delle quote della società scissa o della società beneficiaria, con l’esclusivo fine di spostare la tassazione dai beni di “primo grado” (il ramo aziendale ovvero gli immobili) ai beni di “secondo grado” (le partecipazioni), soggetti ad un più mite regime di tassazione».

È altresì affermato nella risoluzione che

«la donazione da parte del socio di maggioranza del diritto di usufrutto sul 9,15% delle quote di partecipazione al capitale sociale e la successiva donazione, da parte dello stesso socio, ai tre figli, in parti uguali, delle restanti quote di propria spettanza non integrano alcuna fattispecie elusiva in quanto volte a favorire il ricambio generazionale nell’ottica di una continuità nella gestione dell’azienda di famiglia.

Eventuali profili elusivi, a parere della scrivente, potrebbero invece rinvenirsi nella successiva cessione delle quote della società scissa (…). In altri termini, l’operazione di riorganizzazione societaria rappresenterebbe, nella suddetta ipotesi, solo una fase intermedia di un più complesso disegno unitario finalizzato alla creazione di una mera società “contenitore”, la società scissa, destinata ad accogliere il ramo operativo dell’azienda da far circolare, successivamente, sotto forma di partecipazioni.»

 

L’operazione è ritenuta dunque sorretta da valide ragioni economiche, e pertanto non elusiva, ma

«… subordinatamente alla condizione che l’operazione non sia funzionale al disegno di dimettere le partecipazioni sia della beneficiaria che della scissa»,

e

«… sulla base dei fatti, dei dati e degli elementi prima esaminati, assunti acriticamente così come esposti nell’istanza di interpello, nel presupposto della loro veridicità e concreta realizzazione»,

mentre

«… resta impregiudicato, ai sensi dell’art. 37-bis, comma 2, D.P.R. n. 600 del 1973, ogni potere di controllo dell’amministrazione finanziaria volto a verificare se l’operazione in esame ed eventuali altri atti, fatti o negozi ad essa collegati e non rappresentati dall’istante s’inseriscano in un più ampio disegno elusivo, pertanto, censurabile».

 

La risoluzione della quale è stata riportata la sintesi si pone sulla linea delle pronunce favorevoli alla separazione tra parte immobiliare e parte «commerciale» del patrimonio quale motivazione della scissione, valorizzando però, in particolare, il ricambio generazionale nella gestione dell’attività (che sembra ragionevole non sottoporre all’onere fiscale «obbligando» i soggetti coinvolti a una più onerosa cessione di azioni).

Sotto tale profilo, la scissione seguita dalla donazione delle azioni ai figli altro non rappresenta che una modalità per ottenere, anche per l’azienda societaria, ciò che è esplicitamente riconosciuto per l’azienda individuale, ossia il passaggio generazionale in regime di neutralità fiscale.

Dal punto di vista dell’Amministrazione, tuttavia, occorrerà sempre valutare se le partecipazioni possedute non siano in realtà riconducibili a società «di comodo», e in ciò riveste ormai un’importanza centrale l’indagine sui soggetti non operativi, cui è dato impulso dalla specifica procedura di interpello «disapplicativo».

La successiva risoluzione n. 281/E del 4.10.2007 è nuovamente intervenuta in materia di «spin-off» immobiliare, con riferimento, in particolare, a una scissione parziale proporzionale con attribuzione del ramo immobiliare a favore di una newco, seguita dalla cessione a terzi delle partecipazioni detenute nella scissa da uno dei due soci in misura non superiore al 50% del capitale sociale.

Si evidenzia che lo spin-off rappresenta, tipicamente, una modalità per separare le attività produttive (ossia l’azienda commerciale) rispetto ai beni immobili. Nella risoluzione in parola possono però riscontrarsi due peculiarità meritevoli di considerazione:

  •  la successiva cessione di parte delle quote (generalmente ritenuta sufficiente a far sorgere una presunzione di elusività dell’operazione, in quanto finalizzata a trasferire la tassazione dai beni di primo a quelli di secondo grado);
  • la subordinazione del parere positivo alla condizione che ambedue le società – scissa e beneficiaria – avessero svolto un’effettiva attività d’impresa (1).

 

A ben guardare, la seconda condizione è conseguenza della prima: vale a dire che la successiva cessione può essere ammessa, nell’ottica antielusiva, solamente se non si tratta di uno spin-off «puro» (con la mera separazione della parte immobiliare da quella operativa), e – pertanto – se l’operazione non serve solamente al predetto spostamento della tassazione verso i beni di secondo grado (partecipazioni in luogo di immobili), la cui cessione è tassata in modo più tenue.

Ciò precisato, e approvando anche la futura ed eventuale donazione ai figli delle azioni di uno dei due soci, motivata dalla necessità del ricambio generazionale nell’esercizio dell’attività (2), l’Agenzia ha ritenuto la fattispecie «non elusiva», purché l’operazione non fosse di fatto

« … volta alla mera assegnazione dei beni della scissa o della beneficiaria ai soci attraverso la formale attribuzione dei medesimi a società di “mero godimento”, non connotate da alcuna operatività, al solo scopo di rinviare sine die la tassazione delle plusvalenze latenti sui beni trasferiti usufruendo del regime di neutralità fiscale».

 

In chiusura, la risposta dell’Agenzia ha precisato che, nel caso di specie,

« … la composizione del patrimonio netto destinato alla società beneficiaria in sede di costituzione dovrà rispecchiare percentualmente la natura di capitale e/o di riserve di utili esistenti nella scissa antecedentemente l’operazione di scissione in questione; in altri termini, il capitale di costituzione della società beneficiaria dovrà considerarsi formato secondo la natura delle poste di patrimonio netto presenti presso la società scissa»,

e che in capo all’Amministrazione permangono i poteri di controllo, finalizzati ad appurare se l’operazione prospettata rientri in un più vasto disegno elusivo.

 

Il conferimento del ramo d’azienda

Il conferimento d’azienda non è disciplinato in quanto tale nel codice civile, i cui artt. 2342-2345 prevedono tuttavia specifiche regole riferite al conferimento di singoli beni (tra i quali spicca la stima dei beni stessi da parte di un perito nominato dal Tribunale).

Secondo gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali in materia, tuttavia, il conferimento dell’azienda – in quanto complesso di beni materiali e immateriali – è soggetto alle norme che disciplinano i conferimenti in natura e la cessione d’azienda.

Rispetto alla fusione – che persegue analoghi scopi di riorganizzazione societaria – il conferimento d’azienda si differenza perché comporta un trasferimento di beni (ossia del bene-azienda) dalla società conferente alla conferitaria senza che la società conferente si estingua o perda la propria individualità. Ciò significa che il conferimento ha natura di operazione relativa ai beni e non ai soggetti, mentre la fusione realizza la compenetrazione tra soggetti.

In relazione a un’operazione di conferimento d’azienda, può essere utilmente richiamata la sentenza n. 82 del 24.3.2006 (depositata il 26.4.2006), emanata dalla CTP di Savona, sezione II.

In estrema sintesi, è stato affermato dai giudici che l’Amministrazione può legittimamente applicare la disciplina di contrasto all’elusione, allorquando la concatenazione delle operazioni appare chiaramente ed esclusivamente rivolta all’indebito ottenimento di un vantaggio tributario.

In particolare, le norme eluse erano, nel caso di specie, quelle in base alle quali non è consentita l’iscrizione in bilancio dell’avviamento negativo (c.d. «badwill») emerso in conseguenza di alcune operazioni caratterizzate da un complessivo intento elusivo.

Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva disconosciuto – ex art. 37-bis – gli effetti fiscali di un’operazione nella quale la società «F. S.p.a.» aveva posto in essere un conferimento in regime di neutralità fiscale, con cessione di un ramo d’azienda, al gruppo «I. S.p.a.», con la successiva cessione della azioni alla «F.L. S.a.r.l.», avente sede in Lussemburgo.

Inoltre, l’ufficio fiscale aveva contestato alla società l’indebito utilizzo di un fondo rischi – comprensivo del rischio per «avviamento negativo» – al fine di neutralizzare fiscalmente una minusvalenza.

Nel pronunciarsi nel merito del ricorso della società, che contestava l’applicazione della norma antielusiva, la Commissione ha evidenziato che:

  • il 2.8.1999 i soci della «F S.p.a.» avevano ceduto le proprie azioni alla società lussemburghese;
  • la successione delle operazioni era partita dal 30.11.1998, con la cessione del ramo d’azienda da parte della società «I. S.p.a.»;
  • l’avviamento negativo «non esiste» secondo la normativa civilistica e tributaria, e l’eventuale fondo avviamento in negativo può derivare solamente da:
  • emissione di azioni sotto le pari (rispetto al valore effettivo del ramo aziendale compravenduto e/o dato in cessione);
  • valore del ramo aziendale compravenduto non reale: detto valore dovrebbe infatti essere rappresentato al valore del capitale azionario emesso, salvo non mascheri riserve occulte che  – nel caso – avrebbero dovuto essere assoggettate a tassazione.

 

Ulteriori perplessità erano manifestate dalla CTP in relazione alla concatenazione delle operazioni; infatti:

  • dapprima, la «I S.p.a.» aveva costituito la «F. S.p.a.», successivamente posta in liquidazione;
  • a tale società era stato ceduto il ramo d’azienda;
  • la «F S.p.a.» aveva quindi conferito il ramo aziendale.

In particolare, i giudici si sono chiesti quale senso avesse (sotto il profilo logico prima ancora che economico) l’interposizione di una società residente – la «F S.p.a.», per l’appunto – quando poteva essere direttamente effettuata la cessione nei confronti del soggetto lussemburghese (3).

Su tale base la sentenza ha dichiarato il carattere elusivo dell’operazione, le cui caratteristiche inducono a richiamare la vasta problematica dell’elusione fiscale «transnazionale», contrastata da più norme fiscali relative alle imposte sui redditi. In particolare, si rammentano le disposizioni sull’esterovestizione introdotte a partire dal D.L. n. 223/2006, oltre alle innovate norme CFC (artt. 167-168-168-bis, TUIR), che ora prevedono anche – a talune condizioni – conseguenze penalizzanti collegate al possesso di partecipazioni in società residenti in Stati e territori non definibili come «paradisi fiscali», cioè estranei alla black list (4).

 

La combinazione di più operazioni (scissione, conferimento di ramo d’azienda, cessione di ramo d’azienda)

L’azienda – o, meglio, il suo trasferimento – si pone al centro di un’innumerevole serie possibile di operazioni in sequenza, e a tale riguardo può osservarsi che:

  • la formulazione della norma antielusiva «codificata», di cui all’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, è abbastanza vaga da generare spesso consistenti dubbi in ordine alla distinzione tra elusione e «lecito risparmio d’imposta»: come infatti si rivela in maniera sempre più chiara, spesso ciò che per le imprese rientra nell’ambito della «pianificazione» lecita (ovvero come la logica conseguenza dell’attuazione di taluni istituti previsti dall’ordinamento), per l’Amministrazione deve includersi nell’alveo dei comportamenti «abusivi», in quanto orientati all’ottenimento di un risparmio d’imposta non previsto dal legislatore in mancanza di una valida ragione economica;
  • dubbi ancora maggiori conseguono all’estensione delle ipotesi elusive di generazione «pretoria», recentemente resa possibile sotto l’insegna dell’«abuso del diritto» (5) (nozione assai vasta, e peraltro utilizzabile al di fuori del tradizionale recinto delle imposte sui redditi);
  • il ripristino di un quadro di garanzie nell’originaria prospettiva del legislatore «antielusivo» ha indotto alla presentazione di una proposta di legge – d’iniziativa dell’On. Leo (6) – che intenderebbe precisare, anche retroattivamente, l’ambito applicativo del principio generale antiabuso.

La consequenzialità di operazioni, complessivamente concatenate in un contesto a «rischio» di elusione, è presente in particolare nel parere n. 8, emanato dal Comitato antielusivo il 7.3.2006: si trattava, nel caso di specie, di alcune società facenti parte di un gruppo bancario/finanziario che intendeva procedere alla propria riorganizzazione.

In tale contesto, il progetto iniziale prevedeva la fusione per incorporazione della società «Y» nella società capogruppo («X») e il conferimento ad altre società del gruppo dei (suoi) rami d’azienda relativi alle attività di credito a medio/lungo termine per le imprese, di credito speciale ed agrario e di project finance. Si era però preferito optare per il mantenimento di Y, che avrebbe dovuto essere impiegata come

« … soggetto nel quale concentrare il settore dei securities services, essendo una società già dotata di autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria».

 

La valide ragioni economiche nell’operazione erano ricondotte alle seguenti finalità:

  • esigenza di garantire la prosecuzione delle attività creditizie a medio e lungo termine e di quelle per il credito speciale ed agrario ad altre società del gruppo che già le esercitano, con dimensioni e volumi maggiori rispetto ad «Y», che da parte sua avrebbe apportato il proprio know-how;
  • separazione dell’attività creditizia rispetto a quella di «project finance», che pure era esercitata dalla «Y», facendola confluire in una società di nuova costituzione;
  • razionalizzazione e concentrazione in capo a un unico soggetto delle attività di «securities services», sia per ridurne i costi, sia per potersi presentare sul mercato europeo con dimensioni e condizioni organizzative adeguate, « … in vista di un’eventuale cessione di questo settore di business».

 

L’operazione prevedeva, nel complesso, la sequenza di atti di seguito descritta:

  • scissione parziale di «Y», attraverso la quale scorporare le attività di credito a medio/lungo termine per le imprese, di credito speciale ed agrario e di project finance, con gli elementi patrimoniali ad esse riconducibili, trasferendo le attività di credito in capo a «K» e il project finance in capo ad una newco finanziaria («Z»); la scissione sarebbe avvenuta a valori di libro, senza realizzo di plusvalenze o minusvalenze né emersione di avanzi o disavanzi di scissione;
  • cessione di rami d’azienda, per scorporare da «Y» le attività residuali (amministrativo-contabile, immobiliare e) informatica e attribuirle separatamente a tre altre società del gruppo; la cessione sarebbe avvenuta a titolo oneroso, con realizzo delle eventuali plusvalenze o minusvalenze fiscali ed emersione dell’eventuale avviamento;
  • conferimento a «Y» da parte della capogruppo «X» del ramo aziendale riguardante i securities services, con contestuale aumento del capitale sociale della conferitaria, interamente assegnato alla conferente; il conferimento sarebbe avvenuto a valori di libro e in regime di neutralità fiscale ex art. 176 del TUIR;
  • cessione a «Y» – a titolo oneroso, a valori di mercato, con realizzo di plus o minusvalenze fiscali – da parte di due società del gruppo dei rispettivi rami d’azienda relativi alle attività di securities services.

Se inoltre, a seguito dell’operazione, si fosse ritenuto di non proseguire all’interno del gruppo le attività di securities services ormai concentrate in capo a Y, avrebbe potuto essere attuata da «X» una cessione delle proprie partecipazioni in «Y», che avrebbe «verosimilmente» potuto fruire della partecipation exemption.

La condizione preliminare per poter attuare l’operazione era costituita dall’acquisto, da parte di «X», della residua quota (3,9%) di capitale sociale di «Y» ancora in mano di azionisti di minoranza; se detto acquisto non si fosse perfezionato, si intendeva tornare al progetto originario, all’incorporazione di «Y» in «X» e alla concentrazione delle attività di securities services in una società bancaria di nuova costituzione.

Nel rispondere all’istante, il Comitato ha rilevato nell’operazione

« … la finalità di evitare alterazioni della struttura del gruppo, dal punto di vista dei rapporti di partecipazione al capitale delle società, come ragione della diversità degli schemi negoziali utilizzati».

Difatti, la scissione parziale di «Y» in favore di «K» e di «Z» non avrebbe inciso sul rapporto di controllo nei confronti di queste ultime due da parte della società capogruppo, mentre il conferimento di ramo d’azienda da «X» a «Y» avrebbe semplicemente attribuito « … l’aumento di capitale della seconda alla mano della prima, già controllante».

Per le cessioni di rami aziendali, inoltre (fiscalmente rilevanti, a differenza della scissione e del conferimento aziendale), è stato affermato che esse avrebbero consentito di non incidere sui pacchetti azionari e, quindi, di mantenere l’attuale grado di controllo da parte della capogruppo sulle società coinvolte nell’operazione, diversamente da ciò che sarebbe avvenuto se si fosse dato luogo a conferimenti. È stata poi evidenziata

« … l’assoluta esclusione di prospettive di cessione a terzi delle partecipazioni nelle due società (K e Z) beneficiarie della scissione parziale di Y, in considerazione del loro ruolo fondamentale per le attività ed i risultati del gruppo»,

osservando altresì che tutte le società coinvolte avevano esercitato l’opzione per il consolidato fiscale nazionale, con imponibile IRES positivo per tutte in relazione al periodo d’imposta 2004, tranne che per la capogruppo, che aveva imponibile negativo.

Quanto sopra premesso, si osserva che la pronuncia del Comitato ha ravvisato, «per alcuni aspetti», l’orientamento delle operazioni prospettate verso vantaggi tributari (ottenibili, ad esempio, mediante la scelta della cessione in luogo della scissione per ottenere minusvalenze «spendibili», ovvero attraverso l’impiego della scissione – fiscalmente neutrale – in presenza di potenziali plusvalenze emergenti); ciò nonostante, l’insieme degli atti descritti nell’istanza è stato ritenuto «congruente» alla luce delle valide ragioni economiche affermate dall’interpellante, che sono apparse

« … obiettivamente valide nella loro finalizzazione ad un’articolata redistribuzione delle attività nell’ambito del gruppo, secondo finalità e strategie economico-imprenditoriali».

Inoltre, gli schemi negoziali utilizzati sono apparsi « … pertinenti ed adeguati rispetto agli obiettivi perseguiti, al di là dei risvolti fiscali vantaggiosi»; per tali ragioni, l’operazione complessiva era ritenuta scevra da «elementi rilevanti nella prospettiva dell’elusività» (salvo che in concreto non fossero attuati atti, fatti o negozi diversi od ulteriori rispetto a quelli descritti, in grado di attribuire ex post all’operazione stessa un carattere elusivo).

 

La donazione dell’azienda

Oltre che a titolo oneroso, l’azienda può essere trasferita gratuitamente inter vivos, come è già stato posto in luce in un precedente intervento su questa Testata (7).

Come è stato evidenziato, il trasferimento a titolo gratuito, per donazione, risulta fiscalmente neutrale, anche se il donatario non è un familiare del donante, allorquando l’azienda sia assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa. Tale regola risulta operante anche se il donatario è un soggetto diverso da una persona fisica (come un ente o una società) (8).

In linea generale, perché operi il regime di neutralità fiscale della donazione è necessaria la prosecuzione dell’attività d’impresa: sul punto – come precisato dalla C.M. 15.5.1997, n. 137/E – se i donatari intendono regolarizzare la società di fatto costituitasi tra essi in una delle società tipiche regolate dal codice civile, si rende applicabile la disposizione prevista dall’art. 122 (ora art. 170) del TUIR per le trasformazioni di società (che prevede la neutralità fiscale delle trasformazioni anche nelle ipotesi di passaggio da società di persone in società di capitali).

Dopo l’abrogazione dell’imposta sulle successioni e sulle donazioni, il terzo comma dell’art. 16 della L. n. 383/2001 aveva disposto che le disposizioni antielusive contenute nell’art. 69, settimo comma, della L. n. 342/2000, dovevano applicarsi con riferimento alle imposte ora dovute in conseguenza dei trasferimenti a titolo di donazione o altra liberalità. Ciò significa che era espressamente riconosciuto all’Amministrazione il potere di disconoscere (ai sensi e con gli effetti dell’art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973) i vantaggi tributari conseguiti mediante atti, fatti, o negozi privi di valide ragioni economiche, dirette ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi indebiti.

A tal fine, il Fisco poteva disporre l’applicazione delle imposte che si sarebbero dovute versare con riferimento alle disposizioni eluse.

Può essere a tale riguardo aggiunto che i recenti indirizzi della giurisprudenza della Cassazione in materia di abuso del diritto – sopra brevemente illustrati – sembrano rendere di fatto inutile il ricorso all’art. 37-bis, giacché sarebbero ora giustificate anche le attività di contrasto all’elusione senza il supporto di tale norma, con le connesse garanzie per i contribuenti (ruling e accertamento supermotivato, con la possibilità di un più ampio contraddittorio).

Si tratta di un orientamento che è stato già recepito dalla prassi ufficiale (9): ciò nondimeno, appare più che mai necessario, in materia di elusione fiscale, valorizzare il concetto di valide ragioni economiche, soprattutto per salvaguardare la posizione di chi si accinge a effettuare operazioni suscettibili di procurare (anche) un vantaggio sotto il profilo tributario.

 

Fabio Carrirolo

2 Novembre 2009

 


NOTE

 

(1) Come in altri pareri «antielusivi», può qui ravvisarsi un orientamento secondo il quale assume particolare rilevanza la non effettività dell’attività (e quindi il carattere «non operativo» di talune strutture risultanti dalle operazioni straordinarie prospettate), intesa quale «escamotage» per trasferire dei beni soggetti al regime del reddito d’impresa nella disponibilità di soggetti «privati» non imprenditori.

(2) Su tale punto, è fatto rinvio a quanto affermato dal Comitato antielusivo nel proprio parere n. 40 del 14.10.2005.

(3) Oltretutto trattavasi di un soggetto societario ubicato in una giurisdizione – il Granducato del Lussemburgo – spesso al centro di problematiche elusive su base transnazionale, atteso anche che alcune forme societarie di diritto lussemburghese – holding del 1929, holding c.d. «miliardarie» – sono soggette ai vincoli posti dal TUIR e dal D.M. 21.11.2001 in materia di CFC. Inoltre, nel caso in cui il controllo o la direzione del soggetto lussemburghese fosse riconducibile a un soggetto residente in Italia, potrebbero porsi ulteriori questioni inerenti l‘«esterovestizione» della società (formalmente) estera.

(4) Si rammenta che, in forza dell’art. 13 del D.L. 1.7.2009, n. 78, convertito dalla L. 3.8.2009, n. 102, dopo l’ultimo comma dell’art. 167 del TUIR sono stati aggiunti i nuovi commi 8-bis e 8-ter. Per effetto delle nuove previsioni normative – salva la facoltà di esercizio dell’interpello speciale a norma del quinto comma – i vincoli in materia di CFC vengono applicati anche se i soggetti controllati sono localizzati in stati o territori diversi da quelli black list, qualora ricorrono congiuntamente le condizioni della soggezione a tassazione effettiva inferiore a più della metà di quella a cui sarebbero stati soggetti se residenti in Italia e del conseguimento di proventi derivanti per oltre il 50% « … dalla gestione, dalla detenzione o dall’investimento in titoli, partecipazioni, crediti o altre attività finanziarie, dalla cessione o dalla concessione in uso di diritti immateriali relativi alla proprietà industriale, letteraria o artistica nonché dalla prestazione di servizi nei confronti di soggetti che direttamente o indirettamente controllano la società o l’ente non residente, ne sono controllati o sono controllati dalla stessa società che controlla la società o l’ente non residente, ivi compresi i servizi finanziari».

(5) Secondo la Corte di Cassazione, pronunciatasi tra l’altro con le sentenze nn. 25374/2008, 10257/2008, 30055/2008, 30057/2008, 1465/2009 e 12042/2009, esiste nell’ordinamento tributario italiano un generale principio antielusivo, espressione dello stesso art. 53 della Costituzione. In considerazione di tali argomenti, l’introduzione dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 è stata ritenuta non fondativa, ma tutt’al più confermativa, dell’esistenza del principio generale («soprattutto, se ben si riconosce in esso il sostrato del criterio, ancor più generale, consacrato nell’articolo 10, co. 1, della legge n. 212/2000, che vuole improntati a collaborazione e buona fede i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria»: nella lettura della Corte, l’antielusione «a tutto campo» diviene quindi estrinsecazione dei principi accolti in materia di rapporti «trasparenti» e di fairness tra contribuenti e Fisco).

(6) Cfr. proposta di legge n. 2521 del 18.6.2009, «Modifica dell’articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, concernente il contrasto dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto in materia tributaria», sul sito istituzionale www.camera.it.

(7) Cfr. F. Carrirolo, «La donazione d‘azienda», Il Commercialista telematico, giugno 2009.

(8) Cfr. risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 237/E del 18.7.2002; S. Cerato, E. Zanetti, «La “neutralità fiscale” nella donazione d’azienda», Pratica Professionale n. 45/2002, p. 1300.

(9) Si consideri, a titolo meramente esemplificativo, la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 16/E del 24.4.2009, in materia di parziale deducibilità dell’IRAP versata (par. 1): «la deduzione spetta alla predetta condizione e prescinde, dunque, dall’ammontare complessivamente sostenuto per oneri del personale o interessi passivi. Resta inteso che il sostenimento dei costi relativi al personale dipendente o agli interessi passivi deve rispondere a criteri di inerenza, ragionevolezza ed economicità e risultare coerente con gli obiettivi di politica aziendale perseguiti. In relazione, in particolare, ad operazioni che abbiano dato luogo ad interessi passivi saranno attivati opportuni controlli al fine di verificarne le valide ragioni economiche e l’inerenza all’attività esercitata».