Società a ristretta base azionaria e presunzione di distribuzione degli utili

La questione relativa alla presunzione di distribuzione degli utili nelle società a ristretta base azionaria è ormai vecchia pur se sempre attuale.
Infatti, la legittimità o meno della presunta distribuzione in capo ai soci degli utili non contabilizzati da parte delle società a ristretta base azionaria è da sempre oggetto di un vivace dibattito dottrinario (1) e giurisprudenziale.

presunzione di distribuzione di utili extracontabili nelle società a ristretta base azionariaPer le società di capitali, di norma, vige, ai fini tributari, la netta separazione tra la società e i singoli soci, così che l’imputazione degli utili avviene dietro formale deliberazione, che ne indica anche i limiti.

Tuttavia, gli uffici finanziari, nel corso di questi anni, non hanno mancato di rilevare che la separazione tra la posizione della società di capitali e quella dei soci non può costituire un muro insuperabile, per le società a ristretta base azionaria e/o familiare, quando risulti acclarata l’esistenza di maggiori utili, derivanti magari da ricavi non contabilizzati, e percepiti fuori bilancio, e di conseguenza, contemporaneamente alla rettifica in capo alla società di capitali, hanno provveduto a notificare gli avvisi di accertamento in capo ai soci (2).

Di converso, la presunzione di distribuzione di utili ai soci non è sostenibile nei confronti di società caratterizzate da un azionariato diffuso, in presenza di interessi differenziati.

 

Motivazione tipo

·         Visti gli elementi in possesso di quest’ufficio, dai quali risulta che la S.V è socia per la quota del 30% della società di capitali Bianchi s.p.a.;

·         visto l’accertamento effettuato da questo ufficio a carico della predetta società e notificato in data 5.5.2000, che in copia si allega, dal quale emergono ricavi non contabilizzati derivanti da indagini bancarie;

·         tenuto conto del disposto del comma 3, dell’art.38, del D.P.R.n.600/73, che espressamente si richiama all’art.2729 del codice civile circa l’assunzione di dati e notizie, anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti;

·         considerato che ricorrono gli estremi della predetta normativa per il rilievo unico dell’avviso di accertamento in capo alla società, che data la sua natura si ritiene utile non distribuito ai sensi dell’art. 44, del T.U.n.917/86;

·         preso atto che la giurisprudenza di merito e della Corte di Cassazione hanno ritenuto che l’accertamento nei confronti di una società di capitali a ristretta base familiare di un utile tassabile superiore a quello portato in bilancio costituisce circostanza di fatto idonea a far presumere che detto maggior utile sia stato in effetti distribuito anche ai soci in aggiunta a quanto da essi dichiarato alla stregua del bilancio;

si imputa alla S.V. l’importo di 30.000 euro, pari alla percentuale del 30%, quale utile distribuito e non tassato.

 

Il principio ormai consolidato secondo cui  si  presume  che  nelle  società  di capitali a ristretta base sociale i redditi occulti siano stati  distribuiti fra i soci, determina l’obbligo per la  società  di  provvedere  anche  alle ritenute alla fonte su tali redditi

E’ questo il pensiero della Corte di Cassazione, espresso nella sentenza n. 10982 del 3 aprile 2007 (dep. il 14 maggio 2007).

Ritorniamo, quindi, sull’argomento per fare il punto della situazione.

 

Il pensiero della giurisprudenza

La legittimità di tale interpretazione presuntiva – imputazione in capo ai soci dei maggiori redditi accertati in capo alla società – in presenza di società a base familiare, o comunque a ristretto azionariato, è stata ritenuta legittima dalla Corte di Cassazione già diversi anni fa, con la sentenza 19.2.1990, n. 11785, che ha affermato che la ristretta base azionaria costituisce, da sola, la prova presuntiva di distribuzione degli utili ai soci, capovolgendo così l’onere della prova.

La stessa Cassazione, successivamente, con sentenza n. 4695 del 18.10.2001, depositata il 2.4.2002, ha confermato che la ristretta base familiare di una società di capitali può costituire il fatto noto che consente all’ufficio di risalire, in via di presunzione, a quello ignorato della distribuzione ai soci del maggior utile non contabilizzato.

A distanza di pochi anni (3) – sempre la Cassazione – sentenza n. 21573 del 23 giugno 2005 (dep. il 7 novembre 2005) – ha affermato che qualora il socio di una società a  ristretta  base  azionaria deduca di aver presentato denuncia penale contro l’amministratore, sul  cui conto personale sono stati rinvenuti gli utili  occultati,  il  giudice  di merito deve valutare se questi elementi indiziari siano tali da vincere  la presunzione secondo cui gli utili occulti di una società a  ristretta  base azionaria vengono percepiti dai soci.

Per la Corte, l’imputazione si basa su di una regola di esperienza secondo  cui nelle società di capitali in  cui  i  partecipanti  costituiscono  un gruppo ristretto, spesso legato da  vincoli  più  o  meno  stretti  di solidarietà familiare, nella normalità  dei  casi,  si  può  ragionevolmente ritenere che gli utili occultati siano stati distribuiti  proporzionalmente ai singoli soci così come avviene per tutti  gli  utili  nelle  società  di persone, per i quali il principio dell’imputabilità dei  profitti  ai  soci indipendentemente   dalla   loro    effettiva    percezione    è    sancito legislativamente.

E quindi, prosegue la Corte,

per smentire questa presunzione di  distribuzione  proporzionale  ai soci degli utili non contabilizzati è  necessario  dimostrare  che  abbiano avuto un’altra diversa destinazione, mentre va escluso che per distribuirli occorresse una deliberazione formale  proprio  perché  quegli  utili  erano stati occultati e perciò l’operazione  inevitabilmente  non  poteva  essere effettuata neppure essa in forma palese. Né poteva rilevare che il  singolo socio rivestisse cariche o responsabilità sociali”.

 

La Corte si sofferma pure sul peso della quota in rapporto ai vincoli di parentela, così che  non appare corretta la valutazione del contribuente secondo cui un socio che detenga il 12,5 % del  capitale sociale non poteva essere considerato socio di una  compagine  a  ristretta base sociale, dal momento che in realtà i soci erano cinque in tutto, e due  fratelli  insieme detenevano il 25 per cento del capitale.  In ordine al procedimento presuntivo utilizzato, gli estensori della  sentenza evidenziano che siamo in presenza di

una presunzione semplice, provvista certo di una propria validità di fondo, ma basata  sostanzialmente  sull’id quod plerumque accidit”.

 

E la presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli  utili non contabilizzati di una società di  capitali,  ristretta  base  azionaria (nel caso di specie, con due soci: marito e moglie), non viene meno per  il fatto che, in sede penale, sia stato accertato che il  socio  di  minoranza (la  moglie)  non  aveva  partecipato  alla  gestione aziendale, semmai avrebbe potuto assumere rilievo una  controversia  civile promossa contro l’amministratore ex art. art. 2392 del codice civile (così si esprime la Cassazione con la sentenza 26.10.2005,  n.  20851).

Infatti,

la circostanza che unico regista della società è stato il  socio  di  maggioranza  rinviato  a  giudizio  e  condannato  con patteggiamento ex art. 444 del codice di procedura penale,  anche  a  voler prescindere dalla mancata indicazione  di  aver  prodotto  in  giudizio  la sentenza di condanna, è dimostrativo dell’assunzione  della  responsabilità penale del socio gestore ex art. 445, comma  1,  del  codice  di  procedura penale  e,  quindi,  del  compimento  di  atti  illeciti  connessi  con  la extracontabilità, la quale, di per sé sola, funge  da  presupposto  per  la rilevanza tributaria dei fatti non contabilizzati nei confronti degli altri soci, pur esenti da responsabilità penale. Per le medesime ragioni, quindi, perde ogni rilevanza, a fini tributari, anche  il  fatto  n.  4),  cioè  la circostanza che la ricorrente è rimasta estranea ad ogni attività  gestoria ed è stata, quindi, assolta con sentenza istruttoria per non aver  commesso il fatto, mentre ben altra rilevanza, rispetto alla difesa nella sola  sede penale, avrebbe potuto avere l’iniziativa  processuale  di  difesa  che  la ricorrente  avesse  intrapreso  in  sede   civile   per   far   valere   la responsabilità dell’amministratore della società ex artt. 2392  e  seguenti del codice civile (sul punto  vd.  Corte  di  Cassazione  22  maggio  2002, n. 7492)”.

 

Ulteriori sentenze sono state emesse:

·        con la sentenza n. 11724 del 6.4.2006, dep. il 18.5.2006, la Suprema Corte ha affermato che costituisce   ius   receptum,   nella   giurisprudenza   di legittimità, il principio secondo il  quale  nell’accertamento  di  maggior base imponibile a carico di  una  società  di  capitali  a  ristretta  base azionaria non occorre una prova specifica dell’attribuzione al socio  degli utili non contabilizzati, operando una presunzione relativa di ripartizione pro quota superabile dal contribuente tramite  prova  contraria  e  con  la dimostrazione  che  i  maggiori  ricavi  sono  stati   accantonati   ovvero reinvestiti.

Secondo la Corte,

non vi è motivo per discostarsi da tale orientamento giurisprudenziale nel caso di specie, così che la sentenza impugnata, che  ad esso non  si  è  uniformato  senza  convincente  motivazione,  deve  essere cassata, con rinvio della controversia ad altra Sezione  della  Commissione tributaria regionale del Lazio,  affinché  la  lite  sia  decisa  facendosi corretta applicazione del principio di diritto innanzi ribadito”;

·        con la sentenza n. 25689 del 26 ottobre 2006 (dep. il 4 dicembre 2006) la Corte di Cassazione, nel riconfermare l’indirizzo, lo estende – di fatto – anche in relazione ai proventi illeciti. Per la Cassazione, è infondato

il  primo  motivo  di  ricorso  che incide sul riparto dell’onere della prova  che  –  al  cospetto  di  redditi derivanti da  attività  delittuosa  (pretium  sceleris)  –  si  atteggerebbe diversamente – secondo l’assunto del ricorrente  –  rendendo  inoperante  la presunzione di distribuzione del ricavi non  contabilizzati  nell’ambito  di ristrette  compagini  sociali  in  mancanza  di   dimostrazione   da   parte dell’ufficio dell’effettiva percezione”.

 

La Corte precisa che

gli accertamenti  tributari  di  cui  è  causa  traggono origine da evasione di imposta su vendite di prodotti petroliferi effettuati dalla società partecipata senza contabilizzazione nei libri sociali e dunque di attività di occultamento di ricavi messi in atto dalla stessa società. Non  è  perciò  pertinente  il  richiamo  a  redditi  che  deriverebbero dall’attività  delittuosa  compiuta  solo  da  taluni  soci   che   non   si rifletterebbe sulla posizione degli altri”.

 

Dal punto di vista giuridico – tributario, l’art. 14, comma 4, della  L.  n.  537/1993 stabilisce che nelle categorie di reddito di cui all’art. 6,  comma  1,  del T:U. n.917/86, devono intendersi ricompresi,  se  in esse  classificabili,  i  proventi  derivanti  da  fatti,  atti  o  attività qualificabili come illecito civile,  penale  e  amministrativo  se  non  già sottoposti a sequestro o confisca penale, e  che  i  relativi  redditi  sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria. Sul punto, i giudici Supremi richiamano precedenti pronunciamenti (ex  multis, Cass.  n. 11148/1996 e n. 13335/2003) secondo cui tale disposizione

costituisce l’interpretazione autentica della normativa contenuta nel D.P.R. n. 917/1986 e criterio ermeneutico decisivo per giungere ad identica  conclusione  anche in riferimento alla precedente disciplina. Pertanto non si possono evincere metodi differenziati sull’utilizzazione della  presunzione  di  riparto  fino  a  esigere   una   prova   rafforzata dell’effettiva percezione allorché i proventi risultino comunque collegabili ad operazioni non dichiarate poste in essere da una società a ristretta base azionaria che non li abbia contabilizzati, tanto bastando a far  logicamente presumere l’attribuzione pro quota ai soci – per il vincolo di solidarietà e di reciproco controllo che li avvince – di quegli utili in nero, salva  la contraria dimostrazione che tali maggiori ricavi sono  stati  accantonati  o reinvestiti”.

Trova ragione di rigetto anche il secondo motivo di  ricorso  al primo, poiché intimamente connesso: infatti,

la Commissione centrale non ha esaurito il suo giudizio unicamente su tale – e del resto sintomatico – rilievo (quale è  la presenza nella compagine di due unici soci a partecipazione  paritetica)  ma lo ha accompagnato dalla considerazione della certezza del reddito occultato e dall’assenza di qualsiasi elemento ricavabile  dalle  scritture  contabili idoneo a porne in forse l’attribuzione ai singoli soci. Argomentazione di merito questa che investe le fonti  del  convincimento del giudice nella scelta  delle  risultanze  –  ritenute  più  confacenti  a dimostrare i fatti di causa la cui motivazione –  sintetica  ma  sufficiente -resta perciò esente da censura”.

 

La sentenza n. 10982 del 3 aprile 2007 (dep. il 14 maggio 2007)

Una volta acclarata la presunzione secondi cui nelle  società  di capitali a ristretta base sociale i redditi occulti siano stati  distribuiti fra i soci, ne discende l’obbligo per la  società  di  provvedere  anche  alle ritenute alla fonte su tali redditi.

E’ questo, in estrema sintesi, il pensiero logico manifestato dalla Cassazione nella sentenza n. 10982 del 3 aprile 2007, dep. il 14 maggio 2007.

Il processo trae origine dall’impugnazione, da parte di una società, di un avviso  di  accertamento relativo  all’anno  d’imposta  1984  con  il   quale   si   determinava   in lire 735.451.000 l’ammontare delle ritenute non  operate  dalla  società  in qualità di sostituto d’imposta sugli utili distribuiti ai soci  ex  art. 27 del D.P.R. n. 600/1973. Detto avviso veniva emesso a seguito di altro avviso di accertamento con cui si era determinato, per lo stesso anno, in capo alla società F. un maggior reddito netto ai  fini  Irpeg  per  la  partecipazione della detta società F. ad  altre  società  nei  cui  confronti  erano  state recuperati  a  tassazione  ricavi  non  contabilizzati.

L’adita Commissione tributaria provinciale accoglieva il  ricorso  e  la sentenza veniva confermata dalla Commissione tributaria  regionale, poiché non risultava provata la effettiva  distribuzione degli utili ai soci, non essendo  sufficiente  la  mera  constatazione  della ristretta base azionaria  della  società  a  fondare  la  presunzione  della distribuzione ai soci dei maggiori utili accertati.

Avverso tale sentenza l’Amministrazione  Finanziaria ha proposto ricorso per cassazione, deducendo violazione e falsa  applicazione  degli artt. 27 e 31 e  del D.P.R. n. 600/1973, degli artt.  2727  e  seguenti  del  codice civile, per violazione dei principi  in  materia  di  presunzioni, contestando  l’affermazione  del   principio,   in   essa affermato, della necessità della prova  della  effettiva  distribuzione  dei dividendi, non tenendo conto della idoneità della ristretta base azionaria  a fondare una presunzione di distribuzione degli utili.

I ricorrenti facevano rilevare che, se la ritenuta inidoneità era collegata alla mancanza di delibera assembleare, non si era tenuto conto che si trattava di  utili  extrabilancio (senza delibera, quindi) ovvero se era collegata alla assenza di certezza in ordine  all’accertamento del maggior  reddito ai fini Irpeg, ben si  poteva  fare  ricorso  all’istituto della sospensione ex art. 295 o alla riunione dei ricorsi.

La  Corte, dopo aver preso atto che la costituzione di parte resistente sana la eccepita nullità della notifica del ricorso (è principio  di  diritto  nella  giurisprudenza

la notificazione del ricorso in cassazione eseguita in un luogo diverso da quello prescritto, ma non privo di un astratto collegamento con il  destinatario – nella  specie,  negli  studi  professionali  dei  due difensori in appello e non nel domicilio eletto -, determina la  nullità  non dell’impugnazione in senso sostanziale, bensì della notifica, che, pertanto, è sanata con effetto ex tunc per raggiungimento dello scopo, sia mediante la sua rinnovazione, sia mediante la  costituzione  in  giudizio  dell’intimato, cui la notificazione stessa era diretta,  ancorché  dopo  la  scadenza  del termine per proporre controricorso, e anche se effettuata al  solo  fine  di eccepire la nullità – cfr. per tutte Cass. n. 15190/2005 -),

nel merito  rileva  la fondatezza del ricorso.

La Corte richiama precedenti pronuncie – tra le quali la n. 16885/2003 –  in  cui  si  è osservato, con motivazione che pienamente si  condivide,  che  in  tema  di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società  di  capitali  a ristretta base azionaria ovvero a base familiare, pur non  sussistendo  –  a differenza  di  una  società  di  persone  –  una  presunzione   legale   di distribuzione degli utili ai soci, non può considerarsi  illogica  –  tenuto conto della complicità che normalmente avvince un gruppo così  composto  – la presunzione (semplice) di distribuzione  degli  utili  extracontabili  ai soci.

Lo stesso principio è affermato dalla Cassazione nella sentenza del 16 maggio 2002, n. 7174,  la quale,  nel  caso  di  società  a  ristretta  base  azionaria,  ha  ritenuto ammissibile  la  presunzione  di  distribuzione  ai  soci  degli  utili  non contabilizzati, presunzione che non  viola  il  divieto  di  presunzione  di secondo grado, poiché il fatto noto non è costituito dalla  sussistenza  dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti  della  società,  ma dalla ristrettezza della base sociale e dal  vincolo  di  solidarietà  e  di reciproco controllo dei soci.  Nello  stesso  senso,  Cass.  3  marzo  2000, n. 2390.

Può quindi dirsi ius receptum il principio secondo  il  quale,  nel caso di  società  di  capitali  a  ristretta  base  azionaria,  in  caso  di accertamento  di  utili  non  contabilizzati,  opera   la   presunzione   di attribuzione pro quota ai soci degli utili stessi, salva la prova  contraria che i maggiori ricavi sono stati accantonati o  reinvestiti  (nello  stesso senso vd. anche Cass. n. 20851/2005), con il conseguente obbligo di effettuazione della ritenuta.

Del resto, prosegue la Corte,

ex art. 5, comma 1, del D.P.R. n.  597/1973  i  redditi  delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita  semplice,  che  hanno nel territorio dello stato la  sede  legale  o  amministrativa  o  l’oggetto principale dell’attività, sono imputati a ciascun  socio,  indipendentemente dall’effettiva   percezione,   proporzionalmente   alla   sua    quota    di partecipazione agli utili. E nella  specie  si  tratta  appunto  di  redditi accertati nei confronti  della  società  resistente  a  seguito  di  maggior redditi accertati in capo a società in accomandita semplice  di  cui  la  F. resistente era compartecipe in varia misura”.

 

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Gianfranco Antico

Maggio 2007

 


 

NOTE

(1)  Sul tema cfr. dei nostri precedenti interventi, Antico, Accertamento con adesione: presunzione di distribuzione degli utili nelle società di capitali a ristretta base azionaria, in “il fisco” n. 37/2002, pag. 5868; Antico, Società a ristretta base azionaria. Presunzioni dei maggiori utili in capo ai soci, in “ La settimana fiscale”, n. 42/2006, pag. 30; Antico, Società a ristretta base azionaria: legittima la presunzione dei maggiori utili in capo ai soci anche per i proventi illeciti, in “ Il commercialistatelematico.it”, Gennaio, 2007. 

(2) La difesa dei soci, davanti a questo tipo di accertamenti, si poggia, in genere, sulla violazione del divieto della doppia imposizione in contrasto con l’art. 67 del D.P.R. n. 600/73 (con il primo accertamento, l’ufficio chiama la società a pagare l’Irpeg sul maggiore imponibile, e, con gli accertamenti successivi, chiama i soci a pagare l’Irpef, sulla quota di utili loro imputata), e sul fatto che l’onere della prova incombe sull’Amministrazione finanziaria.

(3) Si segnalano, comunque, altri precedenti : Cass.  25.7.2002, n. 10951; Cass. 15.5.2003, n. 7564