La disciplina delle società non operative: ricavi, redditi minimi e interpello disapplicativo (parte I)

disciplina delle società non operativeIn un sistema tributario caratterizzato, come il nostro, dalla netta separazione tra la situazione della persona fisica – contribuente e consumatore finale – e quella delle «attività» (imprenditoriali, professionali, lavorative dipendenti), nel quale, tendenzialmente, il lavoro, ma anche il capitale reinvestito e la rendita, godono di un miglior trattamento complessivo rispetto al mero consumo, una delle «tentazioni» dei contribuenti può essere quella di garantire l’ingresso in un ambito fiscale comparativamente «privilegiato», come quello del reddito d’impresa, a cespiti e disponibilità che afferiscono in realtà all’ambito personale e familiare.

Per talune tipologie di contribuenti, è altresì interessante disporre di strutture societarie, anche aventi una mera esistenza giuridico-formale, per porre in essere schemi elusivi, mentre analoghe «box companies» si prestano a fungere da «missing traders» nell’ambito delle frodi IVA.

In tutti i casi appena richiamati, entra in gioco l’utilizzo di forme giuridiche societarie, finalizzato non all’esercizio di un’attività economica effettiva, bensì all’ottenimento di un vantaggio tributario ordinariamente non previsto, ovvero alla commissione di reati tributari a danno dell’Erario.

Tale situazione, che si è riflessa nel nostro Paese nella presenza di un grandissimo numero di società non operative, o «di comodo», di fatto ammesse o tollerate dall’ordinamento, ha indotto il legislatore (a partire dal decreto «Visco-Bersani» del 2006) a correre ai ripari, inasprendo l’ormai datata e inefficace normativa di contrasto del 1994 e prevedendo un complesso iter procedimentale sia per ottenere la disapplicazione dei nuovi vincoli, sia per la fuoriuscita agevolata dalla situazione di «non operatività» (attraverso lo scioglimento o la trasformazione in società semplice).

1) Società non operative: il quadro normativo

Attraverso la «manovra» d’estate prima, e la Finanziaria 2007 poi, il legislatore ha inteso scoraggiare l’uso di strutture societarie allo scopo di occultare imponibili, di ottenere trattamenti tributari non ordinariamente previsti dalle norme o di essere strumentali alla costituzione di disegni fraudolenti1.

Si rammenta a tale proposito che la disciplina delle società non operative è stata innovata dapprima dall’art. 35, commi 15 e 16, D.L. 4.7.2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla L. 4.8.2006, n. 248, e quindi dalla L. 27.12.2006, n. 296 (Finanziaria 2007).

I cennati interventi si sono tradotti in una profonda revisione dell’originario impianto delle norme di riferimento (art. 30, L. 23.12.1994, n. 724).

Per quanto attiene, in particolare, all’intervento della Finanziaria 2007, esso si presenta così articolato, secondo quanto posto in evidenza nelle schede di lettura approntate dai Servizi Studi parlamentari2:

  • l’art. 1, co. 109, L. 296/2007, modifica la disciplina delle società non operative;
  • i commi da 111 a 118 recano disposizioni volte ad agevolare lo scioglimento o la trasformazione delle società non operative in società semplici, intervenendo, ad esempio, sul regime fiscale delle assegnazioni ai soci.

Tali disposizioni riproducono sostanzialmente quanto già previsto dall’art. 3, commi 38-45, L. 23.12.1996, n. 662, nell’ambito del quale non era però contemplata l’ipotesi della trasformazione in società semplici.

 

Individuazione: il test di operatività

Il predetto co. 109 ha modificato l’art. 30, L. 724/1994, recante i criteri di individuazione delle società non operative.

In particolare, il co. 1 dell’art. 30 prevedeva – nella formulazione sortita dal decreto-legge dell’estate 2006 – che le S.p.a., le S.a.p.a., le S.r.l., le S.n.c. e le S.a.s., nonché le società e gli enti di ogni tipo non residenti, con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, si considerano, salvo prova contraria, non operative se l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico, ove prescritto, è inferiore alla somma degli importi che risultano applicando le seguenti percentuali:

  • il 2% del valore dei beni indicati nell’art. 85, co. 1, lett. c), del TUIR, anche se costituiscono immobilizzazioni finanziarie, aumentato del valore dei crediti3;
  • il 6% per cento del valore delle immobilizzazioni costituite da beni immobili e da beni indicati nell’art. 8-bis, co. 1, lett. a), D.P.R. 633/1972, anche in leasing4;
  • il 15% del valore delle altre immobilizzazioni, anche in leasing.

 

3 Particolari tipologie di beni

La lett. b) dell’art. 1, co. 109, L. 296/2006, ha integrato la lett. a) del co. 1 dell’art. 30, includendo tra i beni da prendere in esame, ai fini del calcolo dei parametri di individuazione delle società non operative, oltre ai beni di cui alla lett. c) del co. 1 dell’art. 85 del TUIR, anche quelli di cui alle lettere d) ed e), ossia i corrispettivi derivanti dalle cessioni di strumenti finanziari similari alle azioni, di obbligazioni ed altri titoli in serie o di massa, anche se rientranti tra i beni al cui scambio è diretta l’attività di impresa, nonché le quote di partecipazione nelle società commerciali di cui all’art. 5 del TUIR (società di persone ed equiparate), anche costituenti immobilizzazioni finanziarie.

Inoltre, le percentuali da prendere a riferimento sono state abbassate, con riferimento a particolari tipologie di beni, dalla lett. c) del co. 109, che integra la lett. b) del co. 1 dell’art. 30, L. 724/1994; in particolare:

  • per le immobilizzazioni costituite da beni immobili classificati nella categoria catastale A/10 (uffici e studi privati), la percentuale passa dal 6% al 5%;
  • per le immobilizzazioni costituite da beni immobili a destinazione abitativa acquisiti o rivalutati nell’esercizio in corso e nei due precedenti, la stessa percentuale passa al 4%.
  • Partecipazioni «pex»

Secondo le precisazioni fornite dai tecnici dell’Agenzia delle Entrate nell’ambito della videoconferenza «Telefisco» del 30.1.2007 (e riprese dalla circolare 16.2.2007, n. 11/E), i beni da prendere a riferimento per effettuare il «test di operatività» includono, relativamente al «comparto titoli», anche le partecipazioni attratte al regime della «participation exemption», in coerenza con quanto era stato già affermato nel par. 7.8. della circolare 13.2.2006, n. 6/E («le partecipazioni in possesso dei requisiti di cui all’articolo 87 del TUIR, per ragioni di ordine logico e sistematico, debbono essere annoverate tra quelle che concorrono alla verifica dell’operatività, ai sensi dell’articolo 30 della legge n. 724 del 1994»).

 

4 Ipotesi di esclusione

Le disposizioni sulle società di comodo non risultano applicabili:

  •  ai soggetti ai quali, per la particolare attività svolta, è fatto obbligo di costituirsi sotto forma di società di capitali;
  • ai soggetti che si trovano nel primo periodo di imposta;
  • alle società in amministrazione controllata o straordinaria;
  • alle società ed enti i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati italiani;
  • alle società esercenti pubblici servizi di trasporto;
  • alle società con un numero di soci non inferiore a 100.

L’attuale contenuto della disposizione è il risultato della modifica da ultimo operata dall’art. 35, co. 15, D.L. 223/2006, convertito con modificazioni dalla L. 248/2006.

 

 

5 La media triennale

Nell’ambito della verifica del «test di operatività», i ricavi e i proventi, nonché i valori dei beni e delle immobilizzazioni, devono essere assunti in base alle risultanze medie dell’esercizio e dei due precedenti.

Secondo l’Agenzia delle Entrate, espressasi in occasione di «Telefisco 2007» (con osservazioni poi recepite nella circolare 11/E/2007), nel calcolo dei valori medi devono essere considerati i due periodi d’imposta antecedenti a quello in osservazione, anche se

«…interessati da cause di esclusione dall’applicazione della norma, siano esse di natura “automatica” (primo periodo d’imposta) o conseguenti all’accoglimento dell’istanza disapplicativa prevista dal comma 4-bis del predetto articolo 30. Resta inteso che in ipotesi di contribuente costituitosi da meno di tre periodi d’imposta, il valore medio in esame dovrà essere calcolato con riferimento al periodo d’imposta in osservazione e a quello immediatamente precedente (coincidente quest’ultimo con l’esercizio di costituzione)».

 

 

6 L’interpello disapplicativo per le società non operative

La lett. a) del co. 109 dell’art. 1, L.F., ha eliminato dal co. 1 dell’art. 30 ogni riferimento alla possibilità di fornire una prova contraria5 rispetto alla presunzione di «non operatività».

Da ciò consegue che, allo stato, la prova contraria dovrebbe poter essere fornita, in sede amministrativa, solamente attraverso la procedura di disapplicazione, ossia subordinatamente al gradimento del direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate.

Beninteso, ciò non significa che la società non possa discostarsi dal parere negativo emanato dall’Agenzia, dichiarando un reddito determinato analiticamente, e non mediante l’applicazione dei coefficienti di redditività, ma ci si dovrà in tal caso attendere l’accertamento, e l’eventuale successivo ricorso potrà essere ammesso – secondo la stessa Agenzia – solamente se sarà stata previamente proposta l’istanza di disapplicazione.

Inoltre, la vertenza potrà essere naturalmente affrontata attraverso la via dell’accertamento con adesione: sarebbe opportuno verificare se in tale sede l’ufficio potrà tener conto delle circostanze particolari non previamente sottoposte alla direzione regionale, ovvero dalla stessa «cassate» con un parere negativo.

Analoghe considerazioni potrebbero farsi per la conciliazione giudiziale (fatte salve le considerazioni dell’Agenzia sull’inammissibilità), mentre proprio non sembra possibile escludere alla radice, anche se non è stata presentata l’istanza, la considerazione di circostanze oggettive, che potrebbero essere ammesse in sede di contraddittorio, anche ai fini dell’eventuale archiviazione del pvc o annullamento dell’atto, subordinatamente all’intervento della direzione regionale.

Insomma:

  • l’interpello «disapplicativo» non si pone come «accertamento preventivo», bensì come istruttoria documentale;
  • l’accertamento può essere conseguente a un parere negativo in merito alla disapplicazione, ovvero a un’omessa istanza di disapplicazione;
  • il controllo fiscale e l’accertamento rimangono soggetti a tutti i possibili strumenti di risoluzione
    «bonaria» della controversia (adesione, autotutela, archiviazione, acquiescenza);
  • in tale sede, non sembra espressamente esclusa la possibilità di accogliere circostanze che non sono state previamente evidenziate nell’istanza di disapplicazione;
  • il ricorso in assenza di previa istanza è, per l’Agenzia, inammissibile; se, però, il parere del direttore regionale è stato negativo, occorrerebbe conoscere i limiti dell’eventuale conciliazione giudiziale.

Sembra ragionevole affermare che, benché l’istanza di disapplicazione a suo tempo presentata contenesse tutti gli elementi di fatto astrattamente idonei per l’istruttoria, le informazioni fornite e gli argomenti giuridici dell’istante possano essere integrati sia in sede di contraddittorio nell’eventuale verifica fiscale, sia nell’adesione, nella richiesta di archiviazione o autotutela, ovvero nella conciliazione giudiziale (e, a maggior ragione, nel contenzioso).

 

7 Le modificazioni della Finanziaria

La lett. h) del co. 109 ha modificato il co. 4-bis dell’art. 30, L. 724/1994, concernente la facoltà dei contribuenti di richiedere, in presenza di oggettive situazioni di carattere straordinario che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, la disapplicazione delle disposizioni antielusive.

Con la modifica in esame, è eliminato il requisito della straordinarietà delle oggettive situazioni che abbiano reso impossibile il conseguimento dei ricavi figurativi e del reddito minimi, in presenza delle quali è possibile richiedere la disapplicazione a norma del citato articolo 37-bis, co. 8, del D.P.R. n. 600 del 19736.

Da ciò consegue che l’interpello disapplicativo si pone in tale ambito, in qualche modo, come un vero e proprio «contraddittorio preventivo», sottratto – dal punto di vista dell’Amministrazione – dall’obbligo di rispettare delle linee-guida discendenti dall’alto (al contrario, se il requisito della «straordinarietà» fosse rimasto, oltre alle immaginabili difficoltà applicative, vi sarebbe stato un rischio di condizionamento in relazione alle indicazioni provenienti da una prassi interpretativa formatasi in epoche anteriori all’introduzione in tale campo dell’interpello ex art. 37-bis, co. 8.

Dopo le innovazioni della «manovra» fiscale d’estate, infatti, era in qualche modo stabilita una «liason» tra
«situazioni straordinarie» e «non normale svolgimento dell’attività», causa quest’ultima che un tempo – nel vecchio art. 30, L. 724/1994 – operava automaticamente, ed ora poteva essere dimostrata attraverso l’interpello disapplicativo7.

Su tale «causa di esclusione», l’Amministrazione si era pronunciata con varie pronunce di prassi, tra le quali la C.M. 15.5.1995, n. 140/E, ove era precisato che

«non si considera periodo di normale svolgimento dell’ attività:

– quello da cui decorre la messa in liquidazione ordinaria ovvero l’ inizio delle procedure di liquidazione coatta amministrativa o fallimento. L’ attività svolta in tali periodi non è, infatti, da considerare “normale”, in quanto finalizzata alla definizione dei rapporti della società con i terzi per consentire la ripartizione del patrimonio residuo tra i soci.

In proposito si fa presente che nel caso in cui lo scioglimento venga successivamente revocato l’ esclusione dall’ applicazione della disciplina in commento non opera relativamente a tutti i periodi d’ imposta interessati dallo scioglimento medesimo per i motivi precisati nel successivo paragrafo 5.2.

Peraltro il periodo che precede quello in cui ha avuto inizio la liquidazione è considerato “normale” anche se di durata inferiore a quella prevista ordinariamente.

Va, altresì, considerato periodo di normale attività quello relativo ad un esercizio di durata inferiore a quella stabilita nell’ atto costitutivo a causa di modifiche che interrompono la durata dell’ esercizio medesimo senza incidere sul tipo di attività svolta, come avviene, ad esempio, nei casi di trasformazione, fusione e scissione;

– quelli successivi al primo periodo di imposta, qualora la società, in tali periodi, non abbia ancora avviato l’attività produttiva prevista dall’oggetto sociale, ad esempio perché:

  • la costruzione dell’impianto da utilizzare per lo svolgimento dell’attività si è protratta oltre il primo periodo di imposta (per cause non dipendenti dalla volontà dell’imprenditore);
  • non sono state concesse le autorizzazioni amministrative necessarie per lo svolgimento dell’attività, a condizione che le stesse siano state tempestivamente richieste.

Si fa presente, inoltre, che va considerato periodo di normale svolgimento dell’attività anche quello in cui la società ha affittato o concesso in usufrutto l’unica azienda posseduta».

 

Tali indicazioni, pur essendo esemplificative e non esaustive, avrebbero potuto «inquinare» – insieme alle altre elaborazioni ministeriali formatesi nella vigenza del vecchio art. 30 – il «background» motivazionale della procedura: con l’eliminazione del requisito della «straordinarietà», però, non sussistono più simili problemi, dato che l’Amministrazione potrà operare un’istruttoria sostanzialmente slegata da vincoli puntuali e specifici, come accade per le attività di accertamento ed adesione compiute dagli uffici operativi.

Va tuttavia evidenziato che qui si tratterà pur sempre di «disapplicare» una normativa, e non di applicarla con riferimento a una situazione «personalissima» del contribuente, il che significa che – possedendo il parere emanato dal direttore regionale una «potenzialità» para-normativa8 affine a quella delle pronunce ufficiali dell’Agenzia, e in assenza di vincoli alla sua diffusione da parte dell’interpellante e dei suoi consulenti – la prudenza dell’Amministrazione dovrà essere massima, per non consentire una possibilità di utilizzo indebito della pronuncia da parte di soggetti terzi.

 

 

8 La questione dell’impugnabilità

Secondo le precisazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate nel corso della videoconferenza «Telefisco» del 30.1.2007 (trasfuse nella richiamata circolare 11/E/2007), non essendo più possibile fornire la «prova contraria» utile a giustificare, in sede di controllo, lo scostamento dei risultati dell’attività della società rispetto ai parametri fissati dal legislatore, tale dimostrazione dovrebbe necessariamente essere fornita in sede di interpello disapplicativo.

Nel caso della mancata proposizione dell’istanza di disapplicazione, il ricorso avverso il successivo avviso di accertamento dovrebbe invece ritenersi inammissibile.

Insomma, l’istanza dovrebbe intendersi come un «atto presupposto» necessario, sicché l’eventuale diniego espresso dall’Amministrazione sarebbe implicitamente oggetto di impugnazione in sede di ricorso avverso l’atto impositivo.

A tale proposito, ci si potrebbe chiedere se la proposizione dell’istanza debba essere intesa come una semplice condizione necessaria a garantire l’ammissibilità del ricorso, e quindi possa anche trattarsi di un’istanza «formale», ovvero debba essere prodotto in tale sede tutto il «potenziale» probatorio che sarà successivamente prodotto nel momento dell’impugnativa avverso l’avviso di accertamento.

 

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Fabio Carrirolo

Marzo 2007

 

 

NOTE

1 Le società non operative (o «di comodo») sono quelle che non sono preposte a svolgere un’attività economica o commerciale, ma soltanto a gestire un patrimonio mobiliare o immobiliare. L’ordinamento tributario prevede una disciplina di contrasto di tali società, volta ad evitarne l’utilizzo a fini antielusivi.

2 Le schede di lettura sono disponibili sul numero 45 di Finanza & Fisco del 9.12.2006.

3 Si tratta, come precisato dai Servizi Studi, dei corrispettivi delle cessioni di azioni o quote di partecipazioni, anche non rappresentate da titoli, al capitale di società ed enti assoggettati ad IRES diversi da quella a cui si applica la participation exemption, anche se non rientrano fra i beni al cui scambio è diretta l’attività di impresa.

4 Ossia delle cessioni di navi destinate all’esercizio di attività commerciali o della pesca o ad operazioni di salvataggio o di assistenza in mare, ovvero alla demolizione, escluse le unità da diporto

5 Ciò che prima era invece previsto, eventualmente, in sede di controllo fiscale, o comunque in contraddittorio con l’ufficio.

6 Nel corso della manifestazione «Forum Fiscale», svoltasi il 20.1.2007, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che, in linea di massima, la possibilità di attribuire rilevanza anche a circostanze non straordinarie, nell’ambito dell’interpello disapplicativo, amplia la casistica che giustifica la disapplicazione della norma.
Potranno quindi trovare accoglimento, in particolare, le istanze delle holding in tutti i casi in cui la normativa sia stata disapplicata nei confronti delle partecipate, ma anche quando si dimostri, ad esempio, che l’eventuale distribuzione di tutti gli utili della società «figlia» non sarebbe comunque stata sufficiente per evidenziare proventi almeno pari a quelli minimi determinati con l’applicazione dei coefficienti. È stato inoltre chiarito che la disposizione che ha eliminato il riferimento al carattere straordinario delle cause di esclusione trova applicazione anche per il periodo d’imposta in corso al 4.7.2006.

7 Cfr. circolare dell’Agenzia delle Entrate 4.8.2006, n. 28/E, par. 9.

8 Naturalmente, non si vogliono in nessun modo «assimilare» le risposte dell’Amministrazione ad atti normativi, ma si rammenta che è proprio in considerazione della complessità dell’ordinamento tributario che il legislatore dello
«Statuto» ha introdotto – oltre alle previsioni sulla chiarezza e conoscibilità degli atti, a quelle specificamente dedicate alla formulazione delle disposizioni giuridico-tributarie e alla funzione di informazione, svolta mediante la pubblicazione della normativa, della giurisprudenza e della prassi – la possibilità di interpellare in via ordinaria il Fisco per averne, in un certo senso, la «norma del caso concreto». Data, poi, la provenienza delle pronunce dal soggetto
«pubblico» del rapporto tributario, l’affidamento in esse del contribuente è massimo, salvo che non intenda discostarsi dalla «versione ufficiale» delle norme per contestarla in sede contenziosa.

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