Pur essendo vero che la giurisprudenza italiana, sulla scorta di quella comunitaria, si è ormai consolidata nel senso che, in caso di deposito fiscale cosiddetto virtuale ed in assenza di frodi, il Fisco non può pretendere l’IVA all’importazione relativa alla merce immessa in libera pratica, dato che il deposito fisico deposito della merce si concreta in un semplice adempimento formale che non può incidere sul principio di neutralità del tributo. Tuttavia, si deve considerare che la Legge Comunitaria non osta alla previsione di un deposito fiscale che, come quello italiano, è stato predisposto per un più efficace controllo IVA, con la conseguenza che deve riconoscersi al Paese membro il potere di comminare sanzioni in caso le merci importate non siano state fisicamente immesse nello stesso; sanzioni che debbono essere però appropriate in relazione alla gravità della violazione ed ai suoi effetti, fermo restando che la sanzione prevista, in mancanza di altre speciali, ben può essere quella stabilita dall’art. 13 d.lgs. n. 471 cit. per il ritardato o omesso versamento d’imposte.
Il Fisco italiano non può quindi pretendere il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione dal soggetto passivo che, non avendo materialmente immesso i beni nel deposito fiscale, si è illegittimamente avvalso del regime di sospensione di cui all’art. 50 bis, comma 4, lett. b), d.l. n. 331/93, qualora costui abbia già provveduto all’adempimento, sebbene tardivo, dell’obbligazione tributaria nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile mediante un’autofatturazione ed una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite. Detta violazione può essere però punita, in relazione allo scarto temporale tra la dichiarazione e l’autofatturazione, con una specifica sanzione per il ritardo, la cui adeguata determinazione, implicando un accertamento di fatto, compete al giudice di merito. (Cassazione Civile, sez. 5′, Sent. Ord. n. 439/2020 massimata da Giovambattista Palumbo)