Inerenza e antieconomicità: errata convinzione che l'art. 109, comma 5, del TUIR sia fonte di inerenza

L’Amministrazione finanziaria, in diverse occasioni, provvede a rettificare la deducibilità di una spesa sostenuta dall’imprenditore per la presunta carenza del requisito dell’inerenza e/o in quanto ritenuta “antieconomica”. Molte volte però tali contestazioni presentano taluni “vizi”.
Infatti, spesso le contestazioni degli uffici verificatori si basano su errati presupposti di diritto oppure vengono confusi i concetti di inerenza e di antieconomicità, che hanno diversa natura: qualitativa il primo, quantitativo il secondo.
Così, con il presente elaborato, ci si propone di dissipare taluni dubbi, cercando di definire cosa si debba intendere per inerenza e cosa per antieconomicità.

[N.d.R.: quanto riportato qui sotto rappresenta parte dell’approfondimento in tema di “Inerenza e antieconomicità” la cui trattazione integrale è contenuta nel n. 6 del Magazine Diellepì, predisposto ad uso interno dallo Studio Deotto Lovecchio & Partners.
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L’errata convinzione che l’articolo 109, comma 5, del Tuir sia la fonte dell’inerenza 

Si rileva che, in passato, la giurisprudenza (e parte della dottrina) aveva identificato nell’articolo 109, comma 5, del Tuir la norma che disciplina l’inerenza. Di conseguenza, molti uffici accertatori spesso, contestando l’inerenza di una spesa sostenuta dall’imprenditore, richiamano, come norma violata, il menzionato articolo 109, comma 5.

Al riguardo, occorre in primo luogo osservare che la norma citata (articolo 109, comma 5, del DPR 917/1986) stabilisce che:

“le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”.

Successivamente, al secondo periodo, la stessa norma prevede una sorta di pro-rata di deduzione quando il componente negativo si riferisce indistintamente a beni o attività da cui derivano ricavi che concorrono a formare il reddito, in quanto imponibili od esclusi, o che non vi concorrono in quanto esenti; viene infatti previsto:

“se si riferiscono indistintamente ad attività o beni produttivi di proventi computabili e ad attività o beni produttivi di proventi non computabili in quanto esenti nella determinazione del reddito sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi e altri proventi che concorrono a formare il reddito d’impresa o che non vi concorrono in quanto esclusi e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi”.

inerenza antieconomicitàDa quanto riportato, è evidente che la norma non disciplina affatto l’inerenza, bensì il diverso aspetto legato alla riferibilità dei componenti negativi ai proventi positivi imponibili, esclusi ed esenti.

Lo scopo della norma analizzata risulta, in particolare, quello di evitare che componenti negativi che si riferiscono a proventi esenti possano essere portati in deduzione.

Ciò appare oltremodo evidente dalla congiunta lettura di tutti e due i periodi del comma 5 dell’articolo 109, dovendosi leggere la norma nella sua completezza.

Il secondo periodo esordisce, infatti, con le seguenti parole: “se si riferiscono”.

E il richiamo non può che andare ai componenti negativi di cui al precedente primo periodo.

Va notato che il primo periodo del comma 5 dell’articolo 109 dispone la deducibilità dei componenti negativi che afferiscono a beni e attività da cui si conseguono componenti positivi di reddito “imponibili” ed “esclusi”, proprio per sancire (indirettamente) il principio che i componenti negativi che afferiscono a beni o attività da cui si conseguono proventi esenti (che non vengono difatti citati dalla norma) risultano invece indeducibili.

Solo nel secondo periodo del comma 5 vengono infatti richiamati i proventi “esenti”, per stabilire che quando un componente negativo di reddito si riferisce indistintamente a proventi e ricavi “imponibili”, “esenti” ed “esclusi”, la deduzione è consentita in base ad una sorta di pro-rata.

In buona sostanza, l’articolo 109, comma 5, del Tuir disciplina lo specifico problema della deducibilità dei componenti negativi in presenza di ricavi e compensi non computabili nella determinazione del reddito d’impresa in quanto esenti, e non il principio dell’inerenza.

Tale lettura è stata finalmente recepita anche dalla Corte di Cassazione a partire dall’ordinanza n. 450/2018[1], con la quale è stato riconosciuto che la previsione normativa contenuta nel predetto comma 5 dell’articolo 109 non risulta affatto la fonte dell’inerenza, trattandosi quest’ultimo di un principio sovraordinato e non regolato da alcuna norma di legge, come in precedenza si è riportato.

In questo senso si è pronunciata anche la Corte Costituzionale (nella sentenza n. 262/2020), la quale, nello specifico caso, si è espressa dichiarando l’illegittimità costituzionale della disposizione in tema di indeducibilità, ai fini delle imposte dirette, dell’IMU versata relativamente agli immobili strumentali per il periodo di imposta 2012[2].

La Consulta, nella richiamata pronuncia, ha infatti statuito che “costituisce principio imprescindibile della determinazione del reddito d’impresa quello di inerenza del costo da portare in deduzione” e che “il principio di inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime una correlazione tra costi ed attività d’impresa in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo”.

In buona sostanza, anche secondo la Corte Costituzionale l’inerenza individua in quel giudizio di carattere qualitativo, che opera su un livello “preventivo” generale e più alto rispetto alle singole disposizioni del Tuir, essendo volto a cogliere se si realizza quel necessario collegamento, anche in via prospettica, tra il componente economico e l’attività dell’imprenditore, a prescindere da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo.

In precedenza, invece, la Corte di Cassazione aveva individuato come fonte dell’inerenza la norma in argomento (l’articolo 109, comma 5, del Tuir).

Oggi, per fortuna, quasi sempre la giurisprudenza di legittimità conferma che il fondamentale principio dell’inerenza non risulta riconducibile a nessuna norma di legge – e men che meno alla previsione del citato art. 109, comma 5, del Tuir, che disciplina, come visto, il più limitato problema della deduzione dei componenti negativi a fronte di proventi esenti – in quanto si tratta di un principio immanente nella determinazione del reddito d’impresa.

Dai principi appena enunciati emerge quindi che l’inerenza si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che non tiene conto, in sé, di valutazioni di tipo “utilitaristico” o quantitativo.

Ne deriva che, come stabilito anche dalla Suprema Corte[3], esula, ai fini del giudizio qualitativo di inerenza, un apprezzamento del costo in termini di “congruità” o “antieconomicità”, parametri che non sono espressione dell’inerenza, ma costituiscono meri indici sintomatici dell’inesistenza di tale requisito, pur non identificandosi con essa, come meglio si vedrà più oltre.

In definitiva, qualora un ufficio accertatore emetta un atto impositivo contestando l’indeducibilità di una spesa in quanto non inerente ai sensi dell’articolo 109, comma 5, del Tuir, il contribuente – alla luce di tutto quanto sopra riportato – potrà eccepire che la pretesa impositiva si fonda su presupposti di diritto del tutto errati.

continua…

 

Argomenti trattati nel Diellepì Magazine n. 6:
  1. Il principio di inerenza 
  2. L’errata convinzione che l’articolo 109, comma 5, del Tuir sia la fonte dell’inerenza 
  3. La deducibilità degli interessi passivi 
  4. L’onere della prova in tema di inerenza
  5. L’antieconomicità della spesa sostenuta 
  6. L’antieconomicità nel contesto dell’IVA

 

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NOTE

[1] Si segnalano, ex multis, anche le successive pronunce della Corte di Cassazione in merito: 3170/2018; 6288/2018; 8893/2018; 10242/2018; 12416/2018; 13882/2018; 20113/2018; 32254/2018; 33572/2018; 14192/2019; 14193/2019; 23355/2019; 29404/2019; 30366/2019; 30367/2019; 33026/2019; 33964/2019; 4567/2020; 10730/2020; 14867/2020; 14873/2020.

[2] Articolo 14, comma 1, D.Lgs. 23/2011, anteriore alle modifiche di cui all’art. 1, comma 715, della legge 147/2013.

[3] In questo senso, fra le altre, Cassazione n. 27334/2020, n. 29002/2019, n. 28692/2019, n. 22938/2018, n. 18904/2018, n. 14579/2018 e n. 3170/2018.

 

A cura di Centro Studi Deotto Lovecchio & Partners

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Mercoledì 12 ottobre 2022