La web tax italiana

Nell’ambito del Def viene evidenziato come le nuove disposizioni introdotte con l’ultima Legge di Bilancio abbiano rafforzato e reso direttamente applicabile anche in Italia l’imposta sui servizi digitali (cosiddetta web tax), quantificandone l’impatto finanziario in circa 200 milioni nel biennio 2020-2021. Tale somma appare, in effetti, un impatto piuttosto ridotto rispetto al volume d’affari collegato agli “affari” del web; soprattutto, verrebbe da dire, in questo periodo, in cui risulta evidente come tale settore sia il solo settore che ha tratto giovamento economico dal lockdown.
Cerchiamo di seguito allora di capire esattamente come stanno le cose.

web tax italianaLe proposte di web tax in sede internazionale

Il 13 dicembre 2018 il Parlamento Europeo, riunito in plenaria, aveva votato ed approvato due relazioni, che chiedevano all’Europa di introdurre un sistema comune di tassazione per i servizi digitali.

Il Parlamento europeo aveva in sostanza proposto alcune modifiche alle proposte già avanzate a marzo 2018 dalla Commissione europea, aggiungendo all’elenco dei servizi che possono essere considerati entrate fiscali, la fornitura di “contenuti su un’interfaccia digitale come video, audio, giochi o testi che utilizzano un’interfaccia digitale”, indipendentemente dal fatto che tali contenuti fossero di proprietà della società fornitrice o che questa ne avesse acquisito i diritti di distribuzione e riducendo la soglia minima al di sopra della quale i redditi di una società sono soggetti a tassazione (qualsiasi società che generi entrate all’interno dell’UE superiori a 40 milioni di euro durante l’esercizio finanziario in questione, mentre nella proposta della Commissione europea l’importo era di 50 milioni di euro).

Si manteneva dunque l’aliquota del 3%, sempre proposta dalla Commissione, con la prospettiva di passare al 5%, dopo due anni dall’entrata in vigore delle nuove regole.

L’obiettivo era quello di colmare il divario tra la tassazione dei ricavi digitali e quella dei ricavi tradizionali, laddove, in media, le imprese digitali sono soggette a un’aliquota fiscale effettiva pari solo al 9,5 %, rispetto al 23,2 % per i modelli d’impresa tradizionali.

Una soluzione provvisoria, nelle more di una soluzione permanente condivisa in sede comunitaria, dovrebbe dunque consistere nell’istituire il sistema comune d’imposta sui servizi digitali (“ISD”), applicabile ai ricavi derivanti dalla fornitura di taluni servizi digitali, compresi i contenuti online, da parte di determinate entità, in cui gli utenti e le attività immateriali contribuiscono significativamente al processo di creazione del valore.

I servizi imponibili consistenti nell’elaborazione, trasmissione o vendita dei dati raccolti sugli utenti dovrebbero riguardare i dati generati dalle attività di tali utenti sulle interfacce digitali.

 

Web tax: soggetti passivi

Soltanto determinate entità dovrebbero comunque essere considerate soggetti passivi, dovendosi, nelle proposte in esame, considerare soggetti passivi le entità che soddisfano, congiuntamente, le seguenti condizioni:

  • l’importo totale dei ricavi a livello mondiale dichiarati dall’entità per l’ultimo esercizio finanziario completo per il quale è disponibile un bilancio consolidato supera 750 000 000 EUR;
     
  • e l’importo totale dei ricavi imponibili ottenuti dall’entità nell’Unione durante tale esercizio finanziario supera 40 000 000

La strada della tassazione di tali tipi di attività sta comunque per essere intrapresa, o è già stata intrapresa, singolarmente, da vari Paesi.

 

Un esempio: la Digital Service tax inglese

Con la proposta di Digital service tax inglese, per esempio, si mira ad intercettare i proventi derivanti da operazioni tramite piattaforme telematiche e social network, big data, online marketplace etc.

La digital service tax inglese è quindi specificamente mirata su determinate “digital business activities”, i cui proventi ammontino, globalmente, a più di 500 milioni di sterline all’anno, di cui almeno 25 milioni derivino da transazioni connesse alla partecipazione di un cittadino residente sul territorio britannico e con soglia di esenzione fino ai primi 25 milioni di sterline.

L’imposta, nella proposta inglese, dovrebbe essere applicabile alle operazioni che:

  •  avvengono su una piattaforma di social media, che trae infatti valore dalla partecipazione dell’utente e dai contenuti generati dagli utenti;
     
  • avvengono tramite un motore di ricerca, laddove il monitoraggio intensivo dei dati dell’utente consente alla piattaforma di personalizzare le esperienze per i singoli utenti e anche migliorare indirettamente le prestazioni della piattaforma per gli altri utenti e laddove un fattore chiave delle entrate è spesso la pubblicità basata sui dati forniti dall’utente medesimo;
     
  • su un mercato online, che si basa sullo sviluppo di una grande rete di utenti su entrambi i lati della piattaforma e sulla scelta dei beni e dei servizi offerti dagli utenti.

 

L’esempio francese: il GAFA tax

Anche la Francia ha infine predisposto una sua web tax.

Il tributo, già denominato “GAFA tax” (dalle iniziali di Google, Apple, Facebook e Amazon) e il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, ha riferito di puntare a far entrare nelle casse dello Stato almeno 500 milioni di euro l’anno.

Anche in questo caso saranno i ricavi generati dalla pubblicità, dalle piattaforme e dalla vendita di dati personali.

 

La web tax italiana

E l’Italia?

L’Italia, a dire il vero, era stata la prima a muoversi su tale terreno, approvando già, nel corso della Legge di Bilancio 2018, una sua web tax, che però è poi rimasta solo sulla carta per mancanza dei decreti attuativi.

Con la Legge di Bilancio 2019 è stata poi avanzata una nuova soluzione (che si sarebbe dovuta concretizzare, con Decreto Mef, entro il 30 aprile 2019, ma che poi non ha visto la luce).

La nuova imposta sui servizi digitali si sarebbe dovuta applicare ai soggetti esercenti attività d’impresa che, singolarmente o a livello di gruppo, nel corso di un anno solare, realizzassero congiuntamente:

  1. un ammontare complessivo di ricavi ovunque realizzati non inferiore a € 750.000.000;
     
  2. un ammontare di ricavi derivanti da servizi digitali, di cui al comma 29-quater, realizzati nel territorio dello Stato non inferiore a € 5.500.000.

La prima soglia (750.000.000 Euro) si riferiva all’ammontare complessivo dei ricavi ottenuti dal soggetto in tutto il mondo, mentre la seconda soglia (5.500.000 Euro) concerneva i ricavi realizzati nel territorio dello Stato.

La prima soglia intendeva dunque limitare l’applicazione dell’imposta ai soggetti economici che fossero in grado, grazie alla loro struttura, di fornire i servizi digitali in cui si genera un grande traffico di utenti, dati e pubblicità sul web.

La seconda soglia consentiva invece di tassare solo quei soggetti che in Italia generassero un gettito di una certa consistenza.

Sarebbero state soggette alla nuova imposta tutte le attività commerciali del settore relative alla “veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia; messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi; trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale”.

La capacità di tali interfacce di creare collegamenti tra gli utenti era quindi l’elemento fondante della previsione, mentre la trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale, faceva riferimento solo ai dati generati dalle attività di tali utenti sulle stesse interfacce digitali.

In sostanza, senza distinzione tra società con sede in Italia o all’estero, dovevano essere tassati i ricavi derivanti sia dai servizi e dai beni venduti dalle piattaforme e sia dal trasferimento ad altri soggetti dei cosiddetti big data.

Infatti, ad individuare il presupposto territoriale, sarebbe bastato che la pubblicità in questione figurasse sul dispositivo dell’utente nel momento in cui il dispositivo fosse utilizzato nel territorio dello Stato in detto periodo d’imposta per accedere a un’interfaccia digitale, laddove i soggetti non residenti, privi di stabile organizzazione nel territorio dello Stato e di un numero identificativo ai fini dell’Imposta sul valore aggiunto, che, nel corso di un anno solare, avessero realizzato i presupposti indicati avrebbero dovuto fare richiesta all’Agenzia delle Entrate di un numero identificativo, ai fini appunto dell’imposta sui servizi digitali.

La nuova imposta prevedeva un’aliquota al 3% e si conformava alla linea comunitaria, laddove, come visto, il Parlamento Europeo si era già espresso sul tema, incoraggiando gli Stati membri ad approvare una digital services tax, includendo nell’elenco dei servizi digitali che possono essere tassati anche coloro che forniscono contenuti digitali “come video, audio, giochi o testi che utilizzano un’interfaccia digitale” (anche se lo stesso Parlamento individua però in 40 milioni di euro la soglia sopra alla quale i redditi di una società diventano soggetti a tassazione). 

I ricavi tassabili dovevano essere assunti al lordo dei costi e al netto dell’imposta sul valore aggiunto e di altre imposte indirette.

E un ricavo sarebbe stato considerato tassabile in un determinato periodo d’imposta se l’utente di un servizio tassabile fosse risultato localizzato nel territorio dello Stato in detto periodo.

I soggetti passivi sarebbero stati tenuti al versamento dell’imposta entro il mese successivo a ciascun trimestre e alla presentazione della dichiarazione annuale dell’ammontare dei servizi tassabili prestati entro 4 mesi dalla chiusura del periodo d’imposta.

La legge di bilancio 2020 (L. 160/2019) ha infine ulteriormente modificato (intervenendo sull’art. 1, commi da 35 a 50 della precedente Legge di bilancio 2019, L. 145/2018) l’Imposta sui servizi digitali.

Rispetto alla versione precedente, con la nuova disposizione, si precisano alcuni servizi digitali non soggetti a tassazione, si individuano meglio alcune caratteristiche relative alla realizzazione della fattispecie impositiva e dei ricavi soggetti a tassazione, e si introducono nuovi obblighi contabili.

E pochi sanno forse che la stessa Web tax è già entrata in vigore dal 01/01/2020 (anche se ancora si attendono i provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle Entrate con i quali si definiranno le modalità applicative).

La stessa Web tax nazionale sarà però abolita al momento in cui entreranno in vigore eventuali accordi in sede internazionale in materia di tassazione dell’economia digitale.

L’imposta va quindi a colpire i ricavi ottenuti tramite la prestazione di specifici servizi resi tramite interfaccia digitale, e precisamente:

  • la veicolazione di pubblicità mirata agli utenti dell’interfaccia;
     
  • la messa a disposizione di interfaccia digitale multilaterale che consenta agli utenti di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni e servizi;
     
  • trasmissione di dati raccolti da utenti, generatisi tramite l’utilizzo dell’interfaccia digitale.

Alcune prestazioni invece non considerate servizi digitali ai fini della Web tax:

  • fornitura diretta di beni e servizi, resa nell’ambito di un servizio di intermediazione digitale;
     
  • fornitura di beni o servizi ordinati attraverso il sito web dello stesso fornitore;
     
  • messa a disposizione di un’interfaccia digitale allo scopo esclusivo o principale di fornire servizi di comunicazione, contenuti digitali e servizi di pagamento; d) di taluni servizi digitali utilizzati nell’ambito delle attività regolate dal decreto legislativo n. 385/1993 (Testo unico bancario) e dal decreto legislativo n. 58/1998 (Testo unico dell’intermediazione finanziaria), nonché la cessione dei dati da parte dei soggetti che forniscono i predetti servizi;
     
  • attività nell’ambito delle piattaforme telematiche per lo scambio di energia elettrica, gas, certificati ambientali, carburanti e relativa trasmissione dei dati ivi raccolti.

L’imposta si applicherà allorché l’utente di un servizio tassabile venga localizzato – attraverso l’indirizzo IP o altro sistema di geolocalizzazione – nel territorio dello Stato, “nel rispetto delle regole relative al trattamento dei dati personali” (comma 40-bis).

Il tributo andrà riversato all’erario entro il 16 febbraio dell’anno successivo a quello di imposizione (comma 42) e i soggetti passivi dovranno presentare entro il 31 marzo dello stesso anno apposita dichiarazione annuale dei servizi tassabili forniti.

I soggetti esteri privi di stabile organizzazione nel territorio dello Stato e privi di un numero identificativo ai fini Iva, i quali realizzano nel corso dell’anno i presupposti d’imposta, dovranno fare richiesta all’Agenzia Entrate di un numero identificativo ai fini dell’imposta sui servizi digitali.

Eventuali soggetti residenti, facenti parte dello stesso gruppo aziendale dei citati soggetti non residenti, saranno solidalmente responsabili con questi per le obbligazioni scaturenti da tale imposta.

E, inoltre i soggetti non residenti, privi di stabile organizzazione nel territorio dello Stato, stabiliti in uno Stato diverso da uno Stato membro dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo con il quale l’Italia non ha concluso un accordo di cooperazione amministrativa per la lotta contro l’evasione e la frode fiscale e un accordo di assistenza reciproca per il recupero dei crediti fiscali, dovranno nominare un rappresentante fiscale per assolvere gli obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’imposta sui servizi digitali (comma 43).

 

Web tax: riflessioni finali e proposta

La web tax, per come elaborata nella legge di bilancio 2018, appariva molto più vicina ad un concetto di accise che di imposte dirette, non confliggendo dunque con le disposizioni dei patti convenzionali internazionali in tema di doppia imposizione.

Il sistema di prelievo all’atto del pagamento del corrispettivo dai soggetti committenti con obbligo di rivalsa sui soggetti prestatori avrebbe dovuto assicurare un certo margine di efficienza nella riscossione.

Tale soluzione, però, come paventato anche dall’Ufficio parlamentare di bilancio, avrebbe potuto determinare uno svantaggio competitivo proprio per le imprese residenti, laddove i ricavi delle imprese digitali residenti sarebbero stati sottoposti non solo al nuovo tributo, ma anche alle altre imposte, dirette e indirette, mentre le multinazionali non residenti, grazie al nuovo tributo avrebbero potuto assolvere definitivamente agli obblighi tributari in Italia, continuando a godere delle ridotte aliquote di imposta dei Paesi a fiscalità privilegiata.

La struttura della web tax della legge di bilancio 2018 era peraltro il risultato di un percorso legislativo particolarmente tormentato, che aveva visto la prima versione presentata in Senato poi sostanzialmente modificata nel suo passaggio alla Camera.

Il passaggio della Legge di Bilancio 2018 alla Camera aveva poi cancellato anche il credito d’imposta per le imprese residenti, pensato in un primo momento proprio per evitare che queste si trovassero a pagare le imposte per due volte sulla stessa transazione.

La norma aveva tolto anche il riferimento all’individuazione della stabile organizzazione che si occupasse di estrazione di risorse di qualsiasi natura, perdendo così un’importante opportunità per allargare il campo della tassazione economia digitale anche al tema dei big data.

Una soluzione del genere rischiava quindi di fare un regalo alle multinazionali del web e danneggiare invece le imprese italiane, già sottoposte a rilevante pressione tributaria.

La web tax, di cui alla Legge di Bilancio 2019, cercava invece di definire meglio il perimetro oggettivo di applicazione dell’imposta, prendendo anche spunto dalla proposta di Digital service tax inglese e comunitaria e cercando di valorizzare anche lo sfruttamento dei big data.

Ma anche questa scontava (e sconta) vari limiti tecnici/giuridici.

Innanzitutto non differenziava il carico dell’imposta sulle aziende in perdita o con un margine operativo ridotto, almeno con funzione di clausola eccezionale, come appunto nel sistema inglese.

La tassa sui servizi digitali inglese (DST), infatti, prevede un’aliquota del 2% e si applica anche nel caso in cui le imprese sono in perdita o hanno margini di profitto molto bassi.

In queste circostanze, esiste però il rischio che la tassazione diventi sproporzionata rispetto alla capacità di pagamento o che abbia altri impatti negativi sulla sostenibilità aziendale.

Per garantire allora la giusta proporzionalità anche per le imprese con margini di profitto molto bassi, il governo inglese prevede una clausola di salvaguardia, consentendo alle aziende di scegliere di effettuare un calcolo alternativo del loro debito fiscale, moltiplicando il margine di profitto per la base imponibile soggetta a tassazione e moltiplicando poi il risultato per 0,8%.

Anche questa poteva essere dunque una soluzione da valorizzare nel sistema italiano.

Anche l’ultima versione di web tax, si ribadisce, già vigente, tranne pochi aggiustamenti, non ha comunque cambiato l’impostazione sostanziale dell’imposizione.

Se dunque fosse possibile pensare invece ad una nuova impostazione, quale potrebbe essere una proposta da avanzare oggi?

Invece che introdurre una imposta sul fatturato si potrebbe, per esempio, concentrarsi sull’agevolare l’accertamento della stabile organizzazione occulta, facendo pagare alle imprese del web tutte le imposte dirette e indirette (anche l’Iva, comunque dovuta), come tutte le altre imprese italiane.

In sostanza una soluzione “semplice” potrebbe essere la seguente:

  • Rafforzamento della procedura accertativa della stabile organizzazione;
     
  • Introduzione di una presunzione legale relativa basata su indici predeterminati di individuazione della stabile organizzazione;
     
  • E se proprio si volesse introdurre una misura “nuova” (comunque integrativa e non sostituiva delle imposte dovute a seguito della individuazione della stabile organizzazione), si potrebbe semmai pensare ad una tassazione sul valore dei big data, che queste multinazionali “carpiscono” gratis dal mercato italiano.

Big data è un termine che indica la capacità di estrapolare, analizzare e mettere in relazione un’enorme mole di dati eterogenei, strutturati e non strutturati, per scoprire i legami tra fenomeni diversi e prevedere quelli futuri.

L’esempio più immediato di utilizzo dei big data riguarda però la sfera del marketing.

Quando andiamo su Amazon, ma anche eBay, Netflix o YouTube, le proposte mostrate dai banner sembrano rivolte proprio a noi e ai nostri gusti; e non si tratta di una coincidenza.

Nel campo del marketing i big data servono infatti a profilare, permettendo di proporre in modo mirato prodotti o servizi sulla base di necessità o preferenze personali.

I big data possono dunque essere raccolti, aggregati, analizzati, profilati, trasmessi e rivenduti e sono la nuova vera ricchezza dell’economia globale.

Ma quanto valgono davvero questi dati?

Il Financial Times ha provato a rispondere alla domanda, pubblicando sul proprio sito un sistema in grado di calcolare, rispondendo ad una serie di domande inerenti il proprio status (dai beni posseduti, agli hobby, passando per malattie croniche e stato familiare), il valore commerciale di ogni singolo profilo.

Le ricerche condotte online, i prodotti acquistati, le posizioni registrate sulle mappe, ma anche le condizioni di salute, sono dunque dati che qualcuno poi aggrega e trasforma in bene rivendibile sul mercato.

Un interessante studio del Wall Street Journal ha stabilito, per esempio, che ciascuno di noi vale per Facebook 80,95 dollari, i nostri amici 0,72$ ciascuno e la nostra pagina completa quasi 1800$.

Le nostre storie, le nostre foto e le nostre relazioni personali sono dunque così diventate il prodotto più venduto al mondo, e senza alcuna retribuzione per gli originari proprietari.

Quando Facebook ha comprato Instagram per 1 Miliardo di dollari, del resto, il valore era dato proprio dai dati che tale soggetto aveva a disposizione.

E quando si dice quindi che le multinazionali del web (le principali estrattrici, utilizzatrici e venditrici di big data) devono essere tassate dove vendono i loro prodotti, bisogna riflettere in ordine al fatto che i cittadini italiani non sono solo clienti, ma sono loro stessi il “prodotto”.

I cittadini italiani cedono dunque gratis la loro vita privata a multinazionali che ci fanno un sacco di soldi, senza neppure pagarci le tasse: un insieme di paradossi.

La raccolta, gestione e vendita dei big data sta quindi diventando un elemento essenziale per le aziende, ma il problema, anche ai fini fiscali, è che, allo stato attuale, nessuno è in grado di fornire parametri precisi per comprendere quanto valgono esattamente questi dati.

Non esistono infatti linee guida ufficiali per stabilire il valore di questi asset intangibili.

Di fatto, la mancanza di metodi di misurazione del valore dei big data crea così un’enorme “zona cieca”.

Il problema è dunque il seguente: quanti soldi saranno capaci di generare queste informazioni e chi ne trarrà beneficio e dove pagherà le tasse per questo beneficio (se le pagherà)?

La monetizzazione dei dati, ossia la generazione di nuovi ricavi attraverso la vendita o lo scambio di dati in possesso di un’azienda, può essere del resto sia diretta che indiretta.

Con la prima si identifica la valorizzazione del dato grezzo, così come raccolto, senza ulteriori elaborazioni.

Con la seconda (indiretta) entrano invece in gioco le tecnologie di big data analytics e quello che si vende è un servizio: al dato, cioè, si associa la capacità di interpretazione dei dati.

E di tutta questa realtà cosa intercetta il Fisco …? Praticamente niente.

Eppure, proprio in tema di tassazione dei big data, peraltro, vi è già anche una proposta dell’OCSE di introduzione di una equalization tax, basata sul volume di dati personali, che, attraverso la loro attività, le multinazionali dell’economia digitale riescono ad acquisire dalla loro clientela.

Una soluzione del genere, non sostitutiva del concetto di tassazione della stabile organizzazione occulta, ma integrativa o rafforzativa della stessa, potrebbe essere peraltro rispettosa dell’attuale sistema tributario e al tempo stesso “rivoluzionaria” ed efficace.

Nel documento allegato al Comunicato adottato dalla Commissione Europea a Tallin il 21 settembre 2017 si legge che:

«digital businesses are now able to have a significant economic presence in a market jurisdiction without necessarily having a substantial physical presence.

That is why we need to examine what alternative factors should be considered to determine whether these new types of business models have a significant economic presence in a particular country. As outlined in work already carried out by the OECD, these factors could be based on the level of revenue generated from digital transactions, the number of users of a digital platform, the volume of data collected from users through a digital platform or the local domain name».

Se si legge allora il documento in uno con la proposta dell’Estonia di assumere come “stabile organizzazione virtuale”  l’esistenza e il numero dei cittadini di ciascuno Stato, che scambiano i loro dati con i giganti dell’economia digitale, si potrebbe prevedere, ai fini della tassazione di tale settore, tra gli indici presuntivi di stabile organizzazione occulta, anche la massa di dati raccolti in ciascuno Stato, che, effettivamente, coglie un profilo particolarmente rilevante e “specifico” dell’attività delle grandi multinazionali dell’economia digitale.

Come detto, gli acquirenti italiani dei servizi web sono al tempo stesso clienti e loro stessi “prodotto” (sotto il profilo delle informazioni personali).

E questo dato potrebbe essere valorizzato per aggiornare anche il concetto di stabile organizzazione virtuale (oltre che per “intercettare” il reale valore economico dell’attività che, in ciascuno Stato, tali multinazionali svolgono).

Secondo la classica definizione di “stabile organizzazione” (come anche esplicitata all’art. 162 del Tuir), infatti, essa è costituita, fra l’altro, anche da «una miniera, una cava o altro luogo di estrazione di risorse naturali», laddove è evidente che, quando questa disposizione fu coniata, si faceva riferimento a nozioni di “estrazione” e di “risorse naturali” fondate su un’idea del tutto “materiale” attività economica.

Tra le risorse da estrarre, come visto, ora però anche i dati personali assumono un’importanza economica fondamentale.

L’attività “estrattiva” rivolta alla loro acquisizione potrebbe dunque considerarsi sufficiente ad individuare una stabile organizzazione nel Paese dove tali dati vengono “estratti” (alla stregua del petrolio, dei metalli o delle pietre preziose per un’impresa estrattiva).

E basterebbe a tal fine introdurre una modifica all’art. 162 citato, secondo cui “al comma 2, lettera f) le parole “altro luogo di estrazione di risorse naturali” sono sostituite dalle seguenti “ogni altro luogo relativo alla ricerca e allo sfruttamento di risorse di qualsivoglia genere”.

E dunque, in conclusione, sarebbe sicuramente da prendere in considerazione una qualche forma di tassazione sui big data, come pure delineata nell’Action Plan n. 1 dei Beps ocse (punto 305).

Certo, come detto, resterebbe il problema di come quantificarne esattamente il valore.

E in tale direzione le strade sono essenzialmente due (forse, solo due):

  • usare le metodologie del transfer pricing, con riferimento al concetto di valore normale, da individuarsi mediante il raffronto con i prezzi di beni e servizi praticati “in condizioni di libera concorrenza”, al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi;
     
  • oppure, nell’ottica delle accise, quantificando l’imposizione in relazione ai bit collegati ai big data acquisiti.

E tale misura porterebbe centinaia di milioni di euro nelle casse erariali (certo più dei 200 milioni preventivati per il 2020/2021), se solo si riflette in ordine al fatto che gli stessi soggetti hanno anche già ammesso (pagando subito centinaia di milioni di euro), in sede di adesione con l’Agenzia delle Entrate, la sussistenza di una stabile organizzazione.

Perché dunque, invece di agevolare l’azione accertativa del Fisco, bisogna inventare nuove modalità di tassazione?

Pur rimanendo poi sulla strada maestra della stabile organizzazione, una misura di tassazione sui big data (come sopra delineata), o comunque sulle business activities che tali dati sfruttano, che si aggiunga (e non sostituisca) a quella delle imposte dirette sulla stabile organizzazione occulta (rilevata tramite indici presuntivi, tra cui anche la stessa estrazione dei big data) sarebbe certamente efficace e potrebbe anche portare notevoli risorse finanziarie, finora non intercettate neppure in sede accertativa.

Bisognerebbe solo provarci.

 

A cura di Giovambattista Palumbo

Sabato 9 maggio 2020