Il Fisco può contestare e riqualificare le operazioni delle imprese disponendo di un ampio ventaglio di metodologie che fanno spesso ricorso a dimostrazioni di tipo presuntivo. Se solitamente, nell’ambito dell’ampio accertamento analitico-induttivo, si tratta di una rielaborazione di un comportamento formale dell’impresa attestato dalle scritture contabili ma ritenuto non veritiero dal Fisco, in determinate ipotesi si attinge a un superiore livello di presunzioni, prendendo atto che il comportamento del contribuente è stato quello rappresentato nelle scritture e trasfuso nelle dichiarazioni dei redditi presentate
L’accertamento analitico-induttivo: aspetti generali
Quando opera in fase di controllo e accertamento, l’amministrazione finanziaria può contestare e riqualificare le operazioni delle imprese disponendo di un ampio ventaglio di metodologie, che fanno spesso ricorso a dimostrazioni di tipo presuntivo. Inerenza, congruità e antieconomicità sono alla base delle valutazioni poste in essere.
Mentre solitamente, anche nell’ambito dell’ampio “accertamento analitico-induttivo” [art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 600/1973], si tratta di una rielaborazione di un comportamento “formale” dell’impresa, attestato dalle scritture contabili ma ritenuto non veritiero dal fisco, in determinate ipotesi si attinge a un superiore livello di presunzioni.
Insomma: si prende atto che il comportamento del contribuente è stato quello rappresentato nelle scritture e trasfuso nelle dichiarazioni dei redditi presentate, ma si ipotizza che tale comportamento non sia coerente alla luce della razionalità economica.
Atteso insomma che l’impresa ha lo scopo di produrre beni e servizi per ricavarne un beneficio economico, e non uno svantaggio, l’amministrazione finanziaria si vede riconoscere la possibilità di contestare il carattere “anormale”, in quanto “antieconomico”, di un comportamento, ad esempio della cessione di un bene, se e in quanto da tale comportamento anomalo derivi un vantaggio fiscale.
La questione dell’antieconomicità
Quando opera utilizzando metodologie di accertamento come quella analitico – induttiva, facendo ricorso a dimostrazioni di carattere presuntivo (presunzioni semplici gravi/precise/concordanti), l’amministrazione finanziaria può anche effettuare una valutazione circa la congruità di taluni comportamenti del contribuente, che sono ritenuti non orientati a fini economici (produzione / vendita di beni / servizi a fini di guadagno).
Secondo la Corte di Cassazione, l’antieconomicità del comportamento “può rappresentare un serio elemento probatorio in ordine ad una evasione” (Cass. 3.8.2001, n. 10650, con richiamo a: Cass. 9.2.2001, n. 1821; Cass. 27.9.2000, n. 12813).
Inoltre, “rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e la rettifica di queste ultime, anche se non ricorrono irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa; pertanto, la deducibilità dei compensi agli amministratori, soci e non soci, delle società in nome collettivo non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o contratti” (Cass. Sez. Trib., sentenza 3.8.2001 n. 10650).
L’Agenzia delle Entrate ha quindi la facoltà di contestare un determinato c