Il raddoppio del contributo unificato nel processo tributario: la posizione della Corte Costituzionale

Quando l’impugnazione è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale

Il contributo unificato per il giudizio d’appello – Premessa

L’articolo 1, comma 17, della legge 228 del 24 dicembre 2012, ha introdotto il comma “I-quater” all’art. 13 del D.P.R. n. 115/2002, recante il Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia.

Il predetto comma stabilisce che:

Quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis.

Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”.

 

In base al tenore letterale della disposizione, emerge in modo chiaro che la questione riguarda esclusivamente il giudizio di appello e non trova applicazione per il giudizio di primo grado, riferendosi la normativa citata ai “giudizi di impugnazione”.

Tale disposizione trova applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso si è perfezionata con la ricezione dell’atto da parte del destinatario (Cass., SS.UU., n. 3774 del 18 febbraio 2014).

Per ragioni esplicative si premette che il contributo unificato costituisce un prelievo coattivo, ovvero un tributo, volto al finanziamento delle spese giudiziarie e commisurato al valore del processo. Sono assoggettate all’obbligo del versamento del contributo unificato tributario ex art 13, comma  6 – quater, d.P.R. n. 115/2002 (C.U.T.), tutte le controversie aventi ad oggetto tributi e relativi accessori, restando escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria (ai sensi dell’art. 2, comma 1, D.Lgs. 546/92) e il giudizio per cassazione, per il quale trovano applicazione le norme dettate dal codice di procedura civile (art. 62, c. 2, D.Lgs. 546/92).

Viceversa, il raddoppio del contributo unificato è previsto a tutela dell’economia processuale, tutte le volte che si renda necessario l’impegno di risorse processuali per l’esercizio del diritto di impugnazione che non abbia avuto esito positivo per l’impugnante, essendo il provvedimento impugnato rimasto confermato o non alterato (Cass, n. 6280 del 27 marzo 2015; n. 10306 13 maggio 2014; n. 5955 del 14 marzo 2014).

Si osserva, infatti, che, mentre il contributo unificato è una tassa per il costo del servizio giustizia, le relative “maggiorazioni” devono considerarsi quali presidi sanzionatori contro eventuali abusi di tale servizio.

Ed invero, tali “maggiorazioni” non hanno natura tributaria (per aggiungersi al prelievo tributario già dovuto per il medesimo presupposto del tributo base), né natura risarcitoria (per sovrapporsi alla liquidazione degli interessi), ma esclusivamente natura afflittiva.

Il presupposto di insorgenza dell’obbligo del versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014).

Tale misura trova, infatti, applicazione ai soli casi di rigetto dell’impugnazione o della sua declaratoria d’inammissibilità o improcedibilità, così sanzionando la condotta della (sola) parte rimproverabile. (v., ex multis, Cass. sez. 6, ord. n. 6888 del 3 aprile 2015).

L’obbligo del pagamento del contributo aggiuntivo sorge, dunque, ipso iure, per il solo fatto del formale rilevamento della sussistenza dei suoi presupposti, al momento stesso del deposito del provvedimento di definizione dell’impugnazione.

Ne discende che detta sanzione rappresenta un’automatica conseguenza sfavorevole dell’impugnazione di un provvedimento in materie o per procedimenti assoggettati a contributo unificato, mediante un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle limitate risorse a sua disposizione.

Proprio in virtù del predetto automatismo, in quanto atto dovuto, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato non costituisce un capo del provvedimento di definizione dell’impugnazione dotato di contenuto condannatorio ovvero di contenuto declaratorio. 

Ed invero, le parti della sentenza di appello in cui si dà atto della sussistenza o insussistenza dei presupposti per la condanna al pagamento del doppio del contributo unificato non sono suscettibili di essere impugnate con ricorso per Cassazione.

Sul punto, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 22867 del 9 novembre 2016, riprendendo un consolidato indirizzo giurisprudenziale,  ha ribadito  che  il rilevamento del presupposto per la condanna:

<<non può quindi costituire un capo del provvedimento di definizione dell’impugnazione dotato di contenuto condannatorio, nè di contenuto declaratorio: a tanto ostando anzitutto la mancanza di un rapporto processuale con il soggetto titolare del relativo potere impositivo tributario, che non è neppure parte in causa, e quindi irrimediabilmente la carenza di domanda di chicchessia o di controversia sul punto e comunque discendendo il rilevamento da un obbligo imposto dalla legge al giudice che definisce il giudizio.

Deve allora ritenersi che la lettera della disposizione conferisca al giudice dell’impugnazione il solo potere-dovere di rilevare la sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato, cioè che l’impugnazione sia stata rigettata integralmente, ovvero dichiarata inammissibile o improcedibile.

Se il punto della sentenza che enuncia la sussistenza dei presupposti per l’obbligo di pagamento del contributo aggiuntivo non ha natura decisoria, esso non puo’ essere suscettibile di ordinaria impugnazione.>>

 

 

La erogazione da parte del soccombente di un importo pari a quello corrisposto per il contributo unificato, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, rappresenta una misura eccezionale – lato sensu sanzionatoria – e di stretta interpretazione, pertanto non suscettibile di interpretazione estensiva o analogica.

In particolare, in merito al divieto di estensione analogica, si osserva che già due anni fa la Corte Costituzionale, con sentenza 30 maggio 2016 n. 120, ha dichiarato infondata la questione di legittimità riguardante l’estensione dell’applicazione del regime del raddoppio del contributo unificato  alle ipotesi di cancellazione della causa dal ruolo e di estinzione del processo, per mancata omogeneità delle situazioni messe a confronto.

Ed invero, la Consulta, muovendo dal presupposto che il raddoppio del contributo unificato è previsto a tutela dell’economia processuale, ha chiarito che la fattispecie di cui all’art. 181 c.p.c. rubricato “Mancata comparizione delle parti” riguarda soltanto la condotta omissiva delle parti, con la conseguenza che la detta funzione deterrente non avrebbe modo di esprimersi, considerato che, le fattispecie di cui agli artt. 181 e 309 cod. proc. civ., non comportano un inutile dispendio di energie processuali e di correlati costi.

Parimenti, la giurisprudenza di legittimità ha individuato alcune fattispecie per le quali non trova applicazione il raddoppio del contributo de quo. In particolare, l’obbligo al versamento del raddoppio del contributo unificato è escluso nei casi di:

  • impugnazione incidentale tardiva, laddove il ricorso è divenuto inefficace ai sensi dell’articolo 334 c.p.c, comma 2, ai sensi del quale <<(…), se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l’impugnazione incidentale perde ogni efficacia>>. In tal caso, infatti, con la perdita di efficacia, il ricorso incidentale tardivo diviene tanquam non esset e non può essere preso in esame dalla Corte, non potendosi così pervenire ad una pronuncia di “rigetto” o ad una declaratoria di “inammissibilita'” o “improcedibilità” dell’impugnazione, che costituiscono le sole ipotesi in presenza delle quali il d.P.R. n. 115/2002, articolo 13 comma 1-quater, prevede che chi ha proposto l’impugnazione debba versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato (Cass., n. 18348 del 25 luglio 2017);
     
  • rinuncia al ricorso, laddove <<quanto al contributo unificato, deve escludersene il raddoppio atteso che tale misura si applica ai soli casi – tipici – del rigetto dell’impugnazione o della sua declaratoria d’inammissibilità o improcedibilità (…) e, trattandosi di misura eccezionale, lato sensu sanzionatoria, essa è di stretta interpretazione (…) e, come tale, non suscettibile di interpretazione estensiva o analogica>> (Cass., n. 23175 del 12 novembre 2015);
     
  • declaratoria di estinzione del giudizio, in quanto <<il tenore della pronunzia, che è di estinzione e non di rigetto o di inammissibilita’ od improponibilita’, esclude – trattandosi di norma lato sensu sanzionatoria e comunque eccezionale ed in quanto tale di stretta interpretazione – l’applicabilita’ del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla Legge 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17 circa l’obbligo, per il ricorrente non vittorioso, di versare una somma pari al contributo unificato gia’ versato all’atto della proposizione dell’impugnazione>> (Cass., n. 19560 del 30 settembre 2015);
     
  • sopravvenuto difetto di interesse, laddove la ratio della norma – orientata a scoraggiare le impugnazioni dilatorie o pretestuose – induce ad escludere che il meccanismo sanzionatorio ivi previsto sia applicabile in ipotesi di inammissibilità non originaria ma, come nella specie, sopravvenuta (Cass., n. 19464 del 15 settembre 2014; Cass., Sez. n. 13636 del 02 luglio 2015);
     
  • cessazione della materia del contendere, (Cass., n. 3542 del 10 febbraio 2017);
     
  • ricorso per cassazione avverso le sanzioni disciplinari del CNF, in base alla natura della controversia (Cass. SS.UU.., 25 novembre 2013, n. 2628);
     
  • le impugnazioni proposte da parti ammesse al patrocinio a spese dello Stato, in quanto -ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, articolo 11 – in tale ipotesi – come per quella relativa alle amministrazioni pubbliche ammesse da norme di legge alla prenotazione a debito – il contributo unificato è prenotato a debito. Pertanto, qualora risulti soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere stata ammessa al Patrocinio a spese dello Stato, non si applica il Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17 e la medesima non può essere condannata, in caso di esito negativo della lite, al pagamento di una somma pari al contributo stesso (Cass., n. 22867 del 9 novembre 2016; Cass., n. 18523 del 2 settembre 2014).

 

 

 

La decisione della Corte Costituzionale n. 18 del 2 febbraio 2018

Con due ordinanze del 23 marzo e del 4 aprile 2016, la Commissione Tributaria Regionale di Catanzaro ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 in riferimento all’art. 111, secondo comma, della Costituzione.

In particolare, la CTR rimettente osservava che nella fattispecie oggetto della sentenza sussistessero i presupposti per il raddoppio del contributo unificato a carico di entrambe le parti, ma che tale sanzione sarebbe stata applicabile solo alla parte privata e non anche alla PA, per la quale, invece, operava il meccanismo della prenotazione a debito delle spese, così esonerandola dal pagamento del contributo unificato.

A parere della rimettente, siffatta limitazione sarebbe in palese violazione del principio di parità delle parti di cui all’art. 111, secondo comma, in quanto se il fine della sanzione è quello di scoraggiare impugnazione dilatorie e pretestuose, allora detta sanzione dovrebbe poter colpire indifferentemente tutte le parti, anche nel processo tributario, in cui una di esse è necessariamente pubblica.

La Consulta dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale.

Ed invero, muovendo dall’interpretazione dell’art. 13 del D.P.R. 115/2002, la Consulta affronta due questioni rilevanti in materia di raddoppio del contributo unificato: una riguardante l’applicabilità della sanzione de quo alle parti come la PA, per le quali opera il meccanismo della prenotazione a debito; l’altra afferente la insuscettibilità dell’azione estensiva o analogica del raddoppio del contributo unificato al processo tributario.

Con la prima questione, la Consulta torna a ribadire che non ricorrono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato nel caso in cui la ricorrente sia un’amministrazione pubblica, in quanto per questa opera il meccanismo della prenotazione a debito delle spese.

Ed invero, riprendendo un principio generale del diritto tributario, la Corte Costituzionale con la sentenza in oggetto chiarisce che nei giudizi in cui sia soccombente la PA, quest’ultima e le altre amministrazioni parificate non sono tenute a versare imposte o tasse che gravano sul processo per la evidente ragione che lo Stato verrebbe ad essere al tempo stesso debitore e creditore di sé stesso con la conseguenza che l’obbligo non sorge.

In merito a tale questione, era già stata adita nel 2014 la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite al fine di fornire chiarimenti circa la possibilità di procedere alla riscossione allorquando il provvedimento del magistrato che dispone il pagamento dell’importo, fosse stato eseguito nei confronti dell’amministrazione pubblica ammessa, da norme di legge, alla prenotazione a debito di imposte o di spese a suo carico.

 

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9938 dell’8 maggio 2014, evidenziavano che:

è principio generale dell’assetto tributario che lo Stato e le altre amministrazioni parificate non sono tenute a versare imposte o tasse che gravano sul processo per la evidente ragione che lo Stato verrebbe ad essere al tempo stesso debitore e creditore di sé stesso con la conseguenza che l’obbligo non sorge” (in tal senso  Cass. sez. 4, n. 1778/16  n. 18893/16). 

 

Di conseguenza, in tale particolare ipotesi:

non deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al primo periodo dell’art. 13, comma I-quater, DPR n. 115/2002, introdotto dal comma 17 dell’art. 1 della Legge 24 dicembre 2012 n. 228, per i casi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile”.

Superata la questione relativa alla parità del processo, il Giudice delle Leggi, con la sentenza in commento, ha affrontato una questione decisamente più pregnante e radicale, relativa all’applicabilità della sanzione de quo anche al processo tributario.

In particolare, la Consulta ha ritenuto che la CTR non avesse preliminarmente tenuto conto ovvero argomentato sull’impossibilità dell’azione estensiva o analogica del raddoppio del contributo unificato al processo tributario.

Secondo i giudici:

<< il rimettente ha censurato l’art. 13, co. 1 quater, del D.p.R. n. 115 del 2002 muovendo dalla premessa interpretativa della sua applicabilità nel processo tributario d’appello – senza chiarire- come sarebbe stato suo onere – le ragioni che dovrebbero giustificarla e renderla prevalente rispetto all’azione ermeneutica precedentemente richiamata>>.

Occorre, a tal punto, rilevare che, sebbene il legislatore non abbia espressamente previsto l’applicazione del raddoppio del contributo unificato al processo tributario, nel corso degli anni sia la prassi che la giurisprudenza di merito hanno tentato di estendere detta sanzione anche alla giurisdizione tributaria.

Difatti, un primo impulso era stato fornito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze – direzione della Giustizia Tributaria che, con la Nota prot. n. 19148 del 30/12/2014, sembrava aver ritenuto implicitamente ammissibile l’applicazione del comma 1 quater dell’art. 13 D.P.R. n. 115/2002 anche al giudizio d’appello tributario facendo la norma riferimento ai “giudizi di impugnazione”.

Dello stesso avviso è stata una parte della giurisprudenza di merito, secondo la quale:

<<la ratio deflattiva della norma, che intende scoraggiare impugnazioni avventate o dilatorie, non può non attagliarsi anche al processo tributario, che, peraltro, a far data dalla riforma legislativa del 2011 (che ha innovato l’art. 9 del TU spese di giustizia), è stato equiparato al processo civile anche sotto il profilo dell’assoggettamento al pagamento del contributo unificato.

Una diversità di disciplina tra le due giurisdizioni, che peraltro rientrano comunque entrambe nella giurisdizione latamente “ordinaria”, unitariamente sottoposta al vaglio di legittimità della Suprema Corte, sarebbe evidentemente priva di ragionevolezza, specie in mancanza di una espressa disposizione che disponga in tal senso.>> (v. ex multis: C.T.R. Lombardia-Milano, n. 219 del 27 gennaio 2017; C.T.R. Lombardia- Milano, sentenza n. 3947 del 6 luglio 2016).

A conforto di tale soluzione interpretativa, i giudici di merito richiamavano la circostanza che il raddoppio del contributo unificato venisse pacificamente ritenuto applicabile ai ricorsi in Cassazione.

Più nel dettaglio, tale dato sarebbe desumibile dall’art. 261 TUSG che estende esplicitamente l’applicazione della citata normativa nel processo tributario dinanzi alla Corte di cassazione sancendo che:

“al ricorso per cassazione e al relativo processo si applica la disciplina prevista dal presente testo unico per il processo civile”.  

 

Tuttavia, detta tesi appare confutabile in quanto la specifica previsione dell’art.  261 TUSG circa l’applicabilità della sanzione al ricorso per cassazione e al relativo processo:

<<sarebbe ultronea ove il d.P.R. n. 115/2002 potesse trovare applicazione – in via meramente interpretativa – anche al giudizio tributario di merito; essendo, invece, espressamente prevista l’estensione della applicazione civile al solo giudizio di legittimità, se ne deve dedurre la non applicabilità al giudizio davanti alle Commissioni tributarie regionali>> ( C.T.R. LOMBARDIA- Milano,  n. 5280 del 14 dicembre 2017).

 

In base a tali premesse, dunque, deve concludersi per  l’esclusione della contribuzione aggiuntiva in sede tributaria solo (ed ancor più irragionevolmente) per la (mera) seconda fase di merito.

Peraltro, si osserva che la Corte Costituzionale, già con una precedente sentenza del 7 aprile 2016, n. 78, aveva rilevato che:

Quanto alla determinazione del contributo, l’art. 13 del d.P.R. 115/2002 stabilisce criteri diversi per il processo civile, amministrativo e tributario.

Nel primo, per la qualificazione del contributo – come determinato dei primi sei commi del predetto art 13 – vengono in rilievo sia la materia che il valore della controversia; nel secondo – disciplinato dal comma 6-bis del medesimo articolo – è stato adottato il criterio della differenziazione per materia; nel processo tributario – per i ricorsi davanti alle commissioni tributarie (perché davanti alla corte di cassazione il già citato art. 261 d.P.R. n. 115/2002 prescrive l’applicazione: “della disciplina prevista dal presente testo unico per il processo civile”) – il successivo comma 6-quater stabilisce importi crescenti per scaglioni di valore delle liti“.

 

E’, dunque, principio generale che in campo impositivo sussistono severi limiti di applicazione all’integrazione analogica e all’interpretazione estensiva.

Va, al riguardo, rilevato che la citata disposizione del T.U.S.G. trova applicazione per il giudizio ordinario civile e, dunque, in mancanza di una specifica disposizione, non trova applicazione al processo tributario di merito.

Una specifica disposizione, invece, è prevista dall’art. 261 d.P.R. n. 115/2002 che statuisce espressamente che “al ricorso per cassazione e al relativo processo si applica la disciplina prevista dal presente testo unico per il processo civile“, così estendendo esplicitamente l’applicazione della normativa civile del T.U.S.G. nel processo tributario dinanzi la Corte di cassazione.

In conclusione, la collocazione della norma in esame nel comma 1, che riguarda il processo civile, deve essere interpretata nel senso della non applicabilità della contribuzione aggiuntiva al giudizio tributario, i cui importi del contributo unificato sono stabiliti dal successivo comma 6-quater.

 

 

Sull’argomento segnaliamo il più recente: Contributo unificato, avviso impugnabile autonomamente

 

Maurizio Villani
Antonella Villani

5 aprile 2018