Indagini finanziarie: le imprese devono provare i beneficiari dei prelevamenti

segnaliamo una recente sentenza di Cassazione che può essere utile per impostare la difesa in caso di indagini finanziarie: le imprese accertate devono provare i beneficiari dei prelevamenti contestati ma ci sono anche dei limiti quantitativi

Provare i beneficiari dei prelevamenti: la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19810 depositata il 9 agosto 2017, ha confermato la necessità (in caso di indagini finanziarie) per i titolari di reddito d’impresa di dover provare, con riferimento ai prelevamenti, i beneficiari di tali somme, così da far venire meno la presunzione di maggiori ricavi.

Nel caso di specie non è stata accolta la giustificazione addotta dal contribuente, secondo cui i prelevamenti erano stati utilizzati per il pagamento per contanti di fatture ricevute, non essendovi, fra l’altro, nessuna corrispondenza tra le somme prelevate e quelle presuntivamente utilizzate per il pagamento delle fatture dei fornitori che risultavano essere di importo notevolmente superiore.

Brevi note in tema di indagini finanziarie

Come è noto, ai fini delle imposte sui redditi, ai sensi dell’art. 32, comma 2, del D.P.R. n. 600/1973, i dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni bancarie/finanziarie sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni.

Ai fini, Iva, l’art. 51, comma 2, n. 2, del D.P.R. n. 633/72, dispone che i dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni bancarie/finanziarie sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 54 e 55 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili. Rileviamo che, in sede di conversione in legge del D.L. n. 193/2016, attraverso l’art. 7-quater, c. 1, all’art. 32, c. 1, n.2, del D.P.R. n. 600/73, dopo le parole “rapporti od operazioni” sono state inserite le seguenti: “per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili”, fissando così dei limiti quantitativi alla trasformazione dei prelievi in ricavi per le imprese.

La norma introdotta, quindi, sui prelievi delle imprese fissa dei paletti quantitativi: solo i prelievi non giustificati superiori a 1.000 euro giornalieri e comunque superiori a 5.000 euro mensili possono essere valorizzati.

Le Entrate, nella C.M. n. 8/2017, nel rilevare che La presunzione relativa ai prelevamenti, per le imprese, si applica agli importi superiori a 1.000 euro giornalieri e 5.000 euro mensili mentre è inapplicabile nei riguardi degli esercenti arti e professioni”, hanno chiarito che “a partire dal 3/12/2016 (data di entrata in vigore della Legge di conversione n. 225 del 2016), a base delle rettifiche ed accertamenti, saranno considerati ricavi i prelevamenti o gli importi riscossi nei limiti previsti dalla nuova disposizione”.

Una volta acquisiti i dati, l’organo procedente dovrà verificare se le movimentazioni finanziarie (attive o passive) siano coerenti o trovino riscontro nella contabilità del contribuente, ovvero non siano imponibili o non rilevino per la determinazione del reddito o della base imponibile Iva, come anche, con riguardo alla persone fisiche, non siano compatibili con la complessiva capacità contributiva.

E nell’ipotesi delineata dalla Corte, se il contribuente non fornisce valide giustificazioni sui prelevamenti, l’ufficio può presumere che i prelievi siano serviti per scopi diversi. Quindi, non basta limitarsi ad affermare il beneficiario ma ciò va giustificato.

Sul punto specifico dei prelievi degli imprenditori, ricordiamo che, con la sentenza n. 22920 del 29 ottobre 2014 (ud. 10 luglio 2014), la Corte di Cassazione ha ribadito che non è arbitrario “ipotizzare che i prelievi ingiustificati dei conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa e siano quindi considerati, detratti i relativi costi, in termini di reddito imponibile” (13036/12). Detta presunzione determina un’inversione nell’onere della prova (18081/10; 4589/09; 7766/08) che esige “la prova specifica della non imponibilità dei movimenti finanziari” (1418/13), ed a fronte della quale, “va quindi contrapposta una prova, non un’altra presunzione semplice ovvero una mera affermazione di carattere generale, nè è possibile ricorrere all’equità” (13035/12; 10578/11; 25365/07); mentre, con la sentenza n. 18057 del 4 agosto 2010 (ud. del 20 maggio 2010) la Corte di Cassazione ha (in maniera netta e precisa) spiegato la presunzione legale in ordine ai prelevamenti: nel processo tributario, nel caso in cui l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, è onere del contribuente, a carico del quale si determina una inversione dell’onere della prova, dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non siano riferibili ad operazioni imponibili, mentre l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, per legge, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti (Cass. civ., sez. 5’, n. 4589 del 26 febbraio 2009). Specificamente in tema di accertamento dell’IVA, l’emissione di assegni da parte dell’amministratore, non giustificata da documentazione commerciale, fa legittimamente presumere che la società abbia effettuato operazioni non fatturate di acquisto e rivendita di beni, potendosi partire dalla presunzione legale prevista dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, per la quale i prelevamenti annotati nei conti correnti bancari sono serviti per acquistare merci successivamente commercializzate, per poi costruire su tale prova legale i conseguenti passaggi logici, fondati sull’’id quod plerumque accidit’ e sulla presunzione legale di vendita dei beni acquistati non rinvenuti nei luoghi in cui il contribuente esercita la sua attività – prevista dal D.P.R. n. 633 cit., art. 53, comma 1, applicabile ‘ratione temporis’, poi sostituito dalle norme contenute nel D.P.R. 10 novembre 1997, n. 441 – e, quindi, concludere che tali merci sono state rivendute dalla società con la percentuale di ricarico del 16 dicembre 2009)”.

2 ottobre 2017

Gianfranco Antico