La riqualificazione della cessione di ramo d'azienda vitinicolo

Il settore vitivinicolo è estremamente vitale nel quadro economico italiano. In questo articolo vediamo come il Fisco può riqualificare (ai fini dell’imposta di registro) anche gli atti relativi alla compravendita di aziende agricole.

La CTP di Firenze, con la sentenza n. 544/5/17 del 15.5.2017, ha affrontato un complesso caso di cessione di ramo di azienda.

Nella fattispecie in esame un’importante azienda agricola aveva impugnato gli avvisi di liquidazione relativi alle imposte di registro, ipotecaria e catastale, eccependo, tra le altre, l’omessa motivazione, la violazione della direttiva comunitaria n. 2008/7 /CE, ed, infine, l’infondatezza nel merito degli impugnati avvisi.

L’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate si costituiva in giudizio, chiedendo il rigetto del ricorso e deducendo la piena legittimità del proprio operato, ai sensi del disposto dell’art. 20 D.P.R. n. 131/86.

In data 15/11/10 una contribuente costituiva infatti una società agricola, operante nel settore vitivinicolo, di cui deteneva l’0%, mentre il restante 20% era detenuto dal marito e dalla di lei figlia.

Dopo circa sei mesi, in data 31/05/11, altra Società, operante nel medesimo settore, concedeva in affitto alla società agricola un ramo d’azienda composto da vigneti.

In data 26/6/13, poi, veniva aumentato il capitale sociale della società agricola mediante altro conferimento di ramo d’azienda (costituito da vigneti, da alcuni fabbricati, da beni strumentali e dall’avviamento) effettuato dalla medesima Società (conferente) in favore della società agricola (conferitaria), con contestuale acquisizione delle quote alla conferente.

In data 05/7/13 venivano infine stipulati due atti.

Con il primo la Società già conferente acquistava le quote sociali detenute dalla contribuente (la moglie di cui sopra) nella stessa Società e, con il secondo, la medesima contribuente acquistava invece dalla Società già conferente le quote della società agricola, compensando quanto dovuto con il credito derivante dalla vendita di cui al primo atto.

L’ufficio riteneva quindi detti atti funzionalmente connessi, in quanto tutti miranti all’unico risultato finale, costituito dal trasferimento del ramo d’azienda, avente ad oggetto attività vitivinicola.

L’Amministrazione Finanziaria richiedeva quindi, con un primo avviso di liquidazione, una maggiore imposta di registro ed applicava in misura proporzionale l’imposta ipotecaria e quella catastale.

Con un secondo avviso, inoltre, richiedeva anche l’imposta di registro in relazione alla compensazione effettuata con il secondo atto di compravendita quote, ai sensi dell’art. 21, c. 1, D.P.R. 131/86, a mente del quale, se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna di esse è soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto.

Così ricostruiti i fatti, il Collegio riteneva che il ricorso fosse destituito di fondamento.

La Commissione Tributaria Provinciale definisce in particolare la natura dell’imposta, su cui spesso vi è molta confusione.

Dalla lettura dell’art. 42 del T.U.R., sottolineano i giudici di merito, emergeva infatti la natura complementare dell’imposta di registro determinata all’esito della riqualificazione negoziale ex art. 20 del Dpr 131/86 degli atti stipulati dalle parti.

L’art. 42 D.P.R. n. 131/86, del resto, espressamente statuisce che è principale l’imposta applicata al momento della registrazione e quella richiesta dall’Ufficio, se diretta a correggere errori od omissioni effettuati in sede di autoliquidazione nei casi di presentazione della richiesta di registrazione per via telematica; suppletiva l’imposta applicata successivamente, se diretta a correggere errori od omissioni dell’Ufficio; e complementare l’imposta applicata in ogni altro caso.

Nel caso di specie l’imposta liquidata non poteva dunque qualificarsi imposta suppletiva: la liquidazione non era infatti intervenuta a correggere errori od omissioni dell’Ufficio, ma a ricostruire a posteriori il reale contenuto giuridico degli atti registrati in ossequio alla previsione dell’art. 20 D.P.R. n. 131/86, dando così vita ad un’imposta che (non essendo certamente principale) doveva considerarsi complementare, in quanto appartenente alla categoria residuale.

Natura suppletiva aveva, invece, l’imposta recuperata con il secondo avviso di liquidazione impugnato, posto che recuperava l’imposta di registro dovuta in relazione alla compensazione effettuata, e non riscossa in sede di registrazione.

In questo caso, pertanto, si era piuttosto di fronte ad un errore dell’Ufficio, che non aveva riscosso l’imposta nel momento della registrazione dell’atto.

Il contribuente, poi, contestava anche la violazione della direttiva comunitaria n. 2008/7 /CE.

Ma, secondo la CTP, anche questa eccezione non poteva trovare accoglimento, posto che l’Ufficio aveva contestato una cessione di azienda, rispetto alla quale l’art. 6 della direttiva citata prevede che gli Stati membri, in deroga alle disposizioni di cui all’art. 5, possano applicare imposte di trasferimento di beni immobili o di aziende commerciali situati nel proprio territorio.

Sul punto, la Commissione, in linea con la giurisprudenza di legittimità, ritiene dunque che l’imposta proporzionale di registro, applicata sul trasferimento connesso all’atto del conferimento di un azienda commerciale ad una società di capitali, non si ponga in contrasto con i limiti ed i divieti posti dalla direttiva comunitaria 69/335 (e successive modifiche), non avendo ad oggetto il conferimento in sé, ma (al pari di qualsiasi altra ipotesi di trasferimento di proprietà, quale che sia la persona che l’effettua ed a qualsiasi titolo ciò avvenga – vendita, donazione, successione, conferimento in società) l’oggettivo trasferimento di proprietà.

Trattavasi quindi di un’imposta che rientra nell’ambito di previsione di cui all’art. 12 della direttiva medesima, il quale, autorizza gli Stati membri, in deroga agli artt. 10 e 11, a percepire imposte di trasferimento ivi comprese le tasse di pubblicità fondiaria, sul conferimento ad una società, associazione o persona giuridica che persegua scopi di lucro, di beni immobili o di aziende commerciali situati sul loro territorio, quale che sia il soggetto conferente, richiedendo soltanto che tali tributi non siano superiori a quelli applicabili alle operazioni similari (quali, ad esempio, le operazioni tra persone fisiche) compiute nello Stato membro che li riscuote (cfr. Cass., V sez. civ., 20/6/13 n. 21548).

Infine la CTP esaminava la dedotta infondatezza nel merito degli impugnati avvisi, ritenendo che l’Ufficio avesse correttamente operato, in applicazione dell’art. 20 D.P.R. n. 131/86.

Sottolineano infatti i giudici che, in tema di imposte ipotecarie e catastali, la prevalenza che l’art. 20 del D.P.R. n. 131/86 attribuisce, ai fini dell’interpretazione degli atti registrati, alla natura intrinseca ed agli effetti giuridici degli stessi sul loro titolo e sulla loro forma apparente, vincola l’interprete a privilegiare il dato giuridico reale dell’effettiva causa negoziale dell’atto sottoposto a registrazione, rispetto al relativo assetto cartolare.

La disposizione in esame esprime in sostanza la volontà normativa di assumere, quale oggetto del rapporto giuridico tributario, gli atti in considerazione non della loro consistenza documentale, ma degli effetti giuridici prodotti, né, secondo la CTP, è incompatibile con la nozione di imposta d’atto, non ponendosi essa in contrasto con il principio costituzionale sancito dall’art. 23 Cost., o con quello di cui all’art. 41 Cost., mantenendo i soggetti integra la propria autonomia privata, anche nelle ipotesi di collegamento negoziale.

Sul punto i giudici rilevano inoltre che la prevalenza che l’art. 20 del D.P.R. n. 131/86 attribuisce alla intrinseca natura ed agli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, impone, nella relativa loro qualificazione, di considerare preminente la causa reale e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, seppure mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali o di singole operazioni, non rivelandosi decisiva, in ipotesi di negozi collegati, la rispettiva differenza di oggetto.

Pertanto, in caso di conferimento di azienda con contestuale cessione, in favore di un socio della conferitaria, delle quote ottenute in contropartita dal conferente, il fenomeno ha carattere unitario (in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva ed all’evoluzione della prestazione patrimoniale tributaria dal regime della tassa a quello dell’imposta), è configurabile come cessione di azienda e non costituisce operazione elusiva, per cui non grava sull’Amministrazione l’onere di provare i presupposti dell’abuso di diritto, atteso che i termini giuridici della questione sono già tutti desumibili dal criterio ermeneutico di cui al citato art. 20.

Riprendendo il più recente orientamento della Suprema Corte, la CTP evidenzia quindi che la norma in commento non è disposizione predisposta dal legislatore per il recupero di imposte eluse, anche perché l’istituto dell’abuso del diritto presuppone una mancanza di causa economica, che non è invece prevista per l’applicazione dell’art. 20 D.P.R. n. 131 cit.

Tale ultima norma, infatti, semplicemente impone, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l’atto o il collegamento negoziale in ragione del loro intrinseco, vale a dire in ragione degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio o dal collegamento negoziale, laddove la fattispecie regolata dall’art. 20 D.P.R. n. 131 cit. nemmeno ha a che fare con l’istituto della simulazione, atteso che la riqualificazione in parola avviene anche se le parti hanno realmente voluto quel negozio o quel collegamento negoziale e questo appunto perché ciò che conta sono gli effetti oggettivamente prodottisi (cfr. Cass., V sez. civ., 2114/16 n. 9582).

E quindi, tornando al caso specifico, secondo la CTP, non vi era dubbio che attraverso la stipula dei tre atti sopra specificati le parti avevano realizzato la cessione del ramo di azienda, avente ad oggetto attività vitivinicola, dalla Società alla contribuente per il tramite della società agricola, laddove, peraltro, come visto, tale ramo d’azienda era già nella disponibilità della società agricola, che la deteneva in virtù di atto di affitto di azienda del 31/5/11.

Scindere quindi l’unica operazione di cessione di azienda in più atti solo formalmente distinti, ma sostanzialmente connessi, aveva comportato – tra l’altro – il pagamento delle imposte indirette in misura fissa in luogo che in misura proporzionale (come sarebbe invece accaduto in presenza di un atto di cessione di azienda).

In conclusione e riprendendo proprio l’ultimo tema affrontato nella sentenza, si evidenzia che, come anche recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11877 del 12.05.2017, l’art. 20, D.P.R. n. 131 del 1986 non è disposizione antielusiva (cfr anche Cass. n. 3562/2017).

Priva di rilievo risulta, allora, la ricerca delle ragioni economiche giustificatrici dell’operazione in quanto, una volta riconosciuto che ci si trova di fronte ad un caso di cessione d’azienda, non è richiesta alcuna valutazione circa l’esistenza o meno di valide ragioni economiche idonee a giustificare l’operazione medesima.

Bisogna però dare conto anche di un (a dire il vero isolato) precedente contrario della medesima Corte, la quale, con la sentenza n. 2054/2017, individua un limite all’attività riqualificatoria dell’Ufficio nella insuperabilità dello schema negoziale tipico in cui l’atto presentato alla registrazione risulti inquadrabile, per cui, in mancanza di prova, a carico della Amministrazione finanziaria, del disegno elusivo, ricorrerebbe piuttosto “un’ipotesi di libera scelta di un tipo negoziale invece di un altro“.

12 giugno 2017

Giovambattista Palumbo