Imposta di registro, abuso del diritto e contraddittorio preventivo

partendo da una recente sentenza di Cassazione analizziamo il problema della necessità del contraddittorio preventivo in caso di contastazioni di elusioni fiscale su atti soggetti ad imposta di registro

Con la sentenza n. 3562 del 10 febbraio 2017, la Corte di Cassazione ha confermato che “il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, non è disposizione predisposta al recupero di imposte ‘eluse’, perchè l’istituto dell’’abuso del diritto’ ora disciplinato dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10 bis, non presuppone una mancanza di ‘causa economica’ che non è invece prevista per l’applicazione del D.P.R. n. 131 cit., art. 20. Norma che semplicemente impone, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l’atto o il ‘collegamento’ negoziale in ragione del loro ‘intrinseco’. E cioè in ragione degli effetti ‘oggettivamente’ raggiunti dal negozio o dal ‘collegamento’ negoziale, come per es. può avvenire con il conferimento di beni in una Società e la cessione di quote della stessa che se ‘collegati’ potrebbero essere senz’altro idonei a realizzare ‘oggettivamente’ gli effetti della vendita e cioè il trasferimento di cose dietro corrispettivo del pagamento del prezzo. E la fattispecie regolata dal D.P.R. n. 131 cit., art. 20, nemmeno ha a che fare con l’istituto della simulazione, atteso che la riqualificazione in parola avviene anche se le parti hanno realmente voluto quel negozio o quel ‘collegamento’ negoziale e questo appunto perchè ciò che conta sono gli effetti ‘oggettivamente’ prodottisi (così le sentenze n. 9582 del 11 maggio 2016; n. 10211 del 18 maggio 2016; n. 9573 del 11 maggio 2016, tutte emesse il 21 aprile 2016 ed ancora la sentenza n. 18454 del 21 settembre 2016; n. 2050 del 27 gennaio 2017)”.

Di conseguenza, se “la tassazione dell’imposta di registro in misura proporzionale non deriva dalla individuazione di un ‘abuso di diritto’ non vi è ragione per estendere alle imposte indirette una disposizione dettata per le imposte dirette, e relativa alla applicazione dell’istituto della ‘plusvalenza’ (che opera esclusivamente nelle imposte dirette): ed è irrilevante che la legge escluda, in riferimento alle imposte dirette la sussistenza dell’’abuso’ in riferimento a determinate operazioni economiche”.

Brevi note

Una volta che nell’imposta di registro non si valuta il risparmio d’imposta ma si interpreta la natura dell’atto, sono escluse le garanzie proprie previste per gli accertamenti da abuso del diritto, fra le quali primeggia il contraddittorio preventivo. Sono queste le conclusioni che si traggono dalla lettura della sentenza che si annota.

Principio, peraltro, non nuovo, atteso che con la sentenza n. 20029 del 7 ottobre 2015 (ud. 22 aprile 2015) la Corte di Cassazione aveva già dato rilievo, in materia di registro, alla sostanza e non alla forma.E’ noto che il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 che in rubrica reca ‘Interpretazione degli atti’, statuisce che ‘L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici, degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente’ e, in ambito fiscale, si pone in maniera complementare alla disposizione civilistica in tema di ermeneutica contrattuale di cui all’art. 1362 c.c. che, nell’interpretazione del contratto, fa carico all’interprete d’indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole, a tal fine valutando il comportamento complessivo delle parti anche posteriore alla conclusione del contratto. Questa Corte ha, più volte, anche di recente, affermato il principio secondo cui, in tema di determinazione dell’imposta di registro, in caso di pluralità di atti non contestuali debba essere ‘attribuita preminenza, in applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 alla causa reale dell’operazione economica rispetto alle forme negoziali adoperate dalle parti, sicchè, ai fini del corretto trattamento fiscale, è possibile valutare, ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2, circostanze ed elementi di fatto diversi da quelli emergenti dal tenore letterale delle previsioni contrattuali’ (in tale senso Cass. civ. sez. 5 19 marzo 2014, n. 6405, correttamente richiamata in termini da parte ricorrente e tra le altre, in senso conforme, Cass. civ. sez. 5 4 febbraio 2015, n. 1955)”.

Attraverso l’art.20, del D.P.R.n. 131/86, si tassa l’atto secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici che presenta alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, vincolando l’interprete a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma, cioè il dato giuridico reale rispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche in maniera frazionata, in uno o più atti, così da divenire non solo norma interpretativa degli atti registrati, ma una disposizione volta ad identificare l’elemento strutturale del rapporto giuridico tributario (cfr. Cass. sent. n. 21770/2014).

Sempre la Suprema Corte, con la sentenza n. 21770 del 15 ottobre 2014 (ud. 2 luglio 2014) aveva rilevato che “in sede giurisprudenziale si è affermato (cfr., più di recente, Cass. civ. sez. trib. 5 giugno 2013, n. 14150; tra le altre si vedano Cass. civ. sez. trib. 25 febbraio 2002, n. 2713; Cass. civ. sez. trib. 23 novembre 2001, n. 14900) ‘che la prevalenza della natura intrinseca degli atti registrati e dei loro effetti giuridici sul loro titolo e sulla forma apparente, vincola l’interprete a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma, cioè il dato giuridico reale conseguente alla natura intrinseca degli atti e ai loro effetti giuridici, rispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche in maniera frazionata, in uno o più atti. Tale giurisprudenza, d’altronde, si è sviluppata parallelamente all’evoluzione normativa che ha caratterizzato la prestazione patrimoniale tributaria di registro, dal regime della tassa (corrispettivo del servizio di registrazione avente ad oggetto l’atto inteso nella sua forma documentale) a quello dell’imposta, avente come oggetto la manifestazione di capacità contributiva commisurabile ad una specifica forza economica. Da ciò deriva che il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, non è solo norma interpretativa degli atti registrati, ma una disposizione volta ad identificare l’elemento strutturale del rapporto giuridico tributario, che “è dato dall’oggetto e che viene fatto coincidere con gli effetti giuridici indicativi della capacità contributiva dei soggetti che li compiono”’ (così, testualmente, la già citata Cass. n. 2713/2002)”.

E ancora la Corte, con la sentenza n. 14150 del 5 giugno 2013 (ud. 3 aprile 2013), la Corte di Cassazione ha ribadito che In tema di imposta di registro, il D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 20, attribuisce prevalenza, ai fini dell’interpretazione degli atti registrati, alla natura intrinseca e agli effetti giuridici degli stessi sul loro titolo e sulla loro forma apparente; e in tal senso vincola l’interprete a privilegiare il dato giuridico reale rispetto ai dati formalmente enunciati – anche frazionatamente – in uno o più atti. Pertanto una pluralità di operazioni societarie e/o di negozi, strutturalmente e funzionalmente collegati al fine di produrre un unico effetto giuridico finale costituito dal trasferimento della proprietà di beni immobili, vanno considerati, ai fini dell’imposta di registro, come un fenomeno unitario, anche in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva“.

Sul punto specifico del contraddittorio va richiamata la sentenza n. 15319 del 19 giugno 2013 (ud. 28 febbraio 2013), dove la Corte di Cassazione ha confermato che l‘imposta di registro va applicata secondo la intrinseca natura degli atti, senza ritenerla una disposizione antieleusiva che necessita del contraddittorio. La Corte proclama la preminenza del reale dato giuridico, dell’effettiva causa negoziale dell’atto sottoposto a registrazione, rispetto al relativo assetto cartolare, così esprimendo “la precisa scelta normativa di assumere, quale oggetto del rapporto giuridico tributario inerente a dette imposte, gli atti registrati, in considerazione, non della loro consistenza documentale, ma degli effetti giuridici prodotti (v. Cass. 10273/07, 2713/02)”. Inoltre, osserva la Corte, che la norma, quand’anche ispirata pure a finalità genericamente antielusive, non configura “disposizione antielusiva” (del resto la sua formulazione, mutuata peraltro da normativa previgente, è storicamente ben precedente al diffondersi del dibattito sull’elusione), giacchè delinea l’ambito oggettivo del rapporto giuridico tributario di riferimento, con specifica opzione per i contenuti sostanziali degli atti registrati rispetto ai relativi profili meramente cartolari (v. Cass. nn. 10273/07, 2713/02), e non pone una generale clausola antielusiva “di chiusura“. Pertanto, nella prospettiva dell’imposta di registro si procede alla ricostruzione dell’obiettiva portata, sul piano degli effetti giuridici, dell’attività negoziale posta in essere. Ciò comporta che “la ricorrenza dell’intento elusivo non è essenziale ai fini dell’applicazione della previsione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 (cfr. Cass. 9162/10, 11769/08, 2713/02, 14900/01), in considerazione della specifica positiva definizione normativa dell’oggetto del rapporto impositivo”.

Come naturale conseguenza dell’estraneità delle imposte d’atto al novero dei tributi armonizzati, non risulta pertinente il richiamo alla normativa ed alla giurisprudenza comunitaria in tema di obbligatorietà del contraddittorio in sede di procedimento amministrativo.

5 maggio 2017

Gianfranco Antico