Cessione di partecipazioni sociali al valore nominale

esaminiamo i presupposti e le condizioni di applicazione della possibilità di rideterminazione presuntiva del valore delle partecipazioni cedute per far emergere plusvalenze in capo al cedente: in questo articolo vediamo un classico caso in cui il fisco contesta che il valore indicato in atto di cessione di quota di SRL non è reale rispetto al valore effettivo e presunto delle quote compravendute

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L’attività di accertamento può procedere, come è noto, a vasto raggio anche attraverso modalità presuntive finalizzate alla ricostruzione di basi imponibili che verosimilmente si nascondono dietro comportamenti intesi a produrre una minor tassazione.

In particolare, le plusvalenze generate dalla cessione di partecipazioni (nel caso di specie da parte di persone fisiche) possono venire “ridotte” se alle quote cedute non è attribuito un valore corrispondente a quello “normale”, ossia, in termini generici, al valore di mercato. Il fisco è abilitato a disconoscere e a ricalcolare il valore di cessione, e quindi a rideterminare la plusvalenza, secondo un modus operandi avvalorato dalla giurisprudenza.

Il presente contributo intende esaminare i presupposti e le condizioni di applicazione di questa regola della “rideterminazione presuntiva” alla luce di un contenzioso che ha visto dapprima soccombere il fisco in CTR e ha poi “registrato” il rinvio della sentenza d’appello alla commissione regionale (sentenza della Corte di Cassazione n. 23498 del 18.11.2016). La Cassazione ha di fatto condiviso l’operato dell’ufficio fiscale, che aveva rettificato le plusvalenze derivanti dalla cessione delle partecipazioni sulla base del presunto valore effettivo delle azioni o quote cedute.

Il caso

La fattispecie dalla quale trae origine il contenzioso è relativa a una cessione di quote avvenuta nel 1998.

Le partecipazioni cedute, in una S.r.l. detentrice di marchi industriali piuttosto famosi, avevano un valore nominale relativamente modesto, a fronte di un valore “periziato” di molte grandezze superiore.

In particolare, il valore nominale era di 99 milioni di lire (= euro 51.129,23), mentre esistevano studi che valutavano i marchi in 247 milioni di lire e perizie successive che stimavano i valori degli stessi tra i 115 e i 215 milioni di euro.

Nelle due sentenze di merito erano state riconosciute le ragioni delle parti cedenti, secondo le quali gli accertamenti si fondavano su fatti (l’identificazione del valore dei marchi con quello della società) non idonei a fondare l’accertamento presuntivo di un maggior reddito.

Scostamento tra i valori

Come sopra anticipato, l’attività di accertamento aveva preso le mosse dalla riconosciuta forte difformità tra i valori “normale” e nominale delle quote cedute, fatta emergere dalla documentazione rinvenuta dai verificatori nel 2004 (uno studio fondato sulle royalties ritraibili dai marchi e alcune perizie).

Le contribuenti (persone fisiche cedenti le partecipazioni) avevano impugnato gli avvisi, ottenendone l’annullamento dalla CTP.

La CTR aveva successivamente respinto l’appello dell’ufficio, rimarcando l’insufficienza degli elementi addotti dall’Agenzia a sostegno della pretesa.

In particolare, secondo la commissione regionale, l’ufficio aveva “semplicisticamente identificato il valore dei marchi con quello della società, trascurando che le stime considerate, peraltro ampiamente successive rispetto alle cessioni e redatte in prospettiva di successive cessioni”, riguardavano i marchi dell’intero gruppo, dei quali peraltro la S.r.l. ceduta era titolare della sola nuda proprietà.

Non era quindi possibile, secondo la CTR, desumere per tale via che fosse stato pagato un corrispettivo diverso da quello dichiarato; né si poteva ipotizzare un’inversione dell’onere della prova a carico delle contribuenti in applicazione del divieto dell’abuso del diritto.

Ricorso per cassazione

Avverso la sentenza di merito aveva proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate contestando la violazione e falsa applicazione:

  • dell’art. 38, c.a 3, del D.P.R. n. 600/1973;

  • degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c.;

  • degli artt. 81, c. 1, lett. c;

  • dell’art. 82, c. 5, del TUIR.

Circa il divieto di abuso del diritto, la ricorrente rappresentava il comportamento palesemente e gravemente antieconomico delle contribuenti, che avevano alienato le quote della S.r.l. per un corrispettivo irrisorio, pari ad una percentuale compresa tra lo 0,20% e il 2% del loro valore (indicato come elemento presuntivo sufficiente a far ritenere percepito un corrispettivo sensibilmente superiore).

Secondo la Corte, il richiamo alla clausola antielusiva e al divieto di abuso del diritto era nel caso specifico inconferente, in quanto ciò postulerebbe una rappresentazione corrispondente alla realtà (mentre l’Agenzia contestava proprio che il corrispettivo di cessione fosse quello realmente realizzato dalle cedenti).

In base al ricorso, il corrispettivo ricevuto per le cessioni doveva essere ragguagliato non già al valore nominale delle quote, emergente dai contratti di cessione, bensì al loro valore di mercato, da ricostruirsi in base alle valutazioni di stima.

Al riguardo l’ufficio faceva leva sulla “enorme discrepanza” tra il valore di mercato e il valore nominale, specificando, ai fini della ricostruzione del primo in via presuntiva, che il reale valore delle quote era condizionato da quello dei marchi.

Partecipazioni e marchi

Secondo l’argomentare della Corte, che sul punto ha smentito la CTR, la valutazione dei marchi del gruppo influiva sul valore delle partecipazioni al capitale della S.r.l..

Detti marchi infatti, contabilmente inseriti tra le immobilizzazioni immateriali nell’attivo patrimoniale, a norma dell’art. 2424 c.c. concorrono per tale motivo alla determinazione del valore della società stessa.

Ciò in quanto, facendo riferimento al valore normale ex art. 9 del TUIR, l’ufficio ha assegnato alle quote della società (non azionaria) ceduta il valore proporzionato a quello del suo patrimonio netto.

Valorizzazione della cessione

Nel decidere, la Corte osserva di avere ben chiara la differenza tra il criterio stabilito per la determinazione del valore reddituale delle partecipazioni sociali e la tassazione della “diversa ricchezza manifestatasi con il trasferimento della titolarità” delle stesse.

Tuttavia, ciò non esclude secondo la Cassazione che il criterio del valore normale possa essere utilizzato dal giudice “per sorreggere la presunzione (semplice) che il corrispettivo percepito dalla vendita di una partecipazione societaria sia difforme da quello dichiarato e, invece, conforme al valore normale”.

Queste valutazioni rientrano nei poteri di accertamento del fatto del giudice di merito, al quale compete l’apprezzamento (non censurabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo del vizio di motivazione) circa il ricorso alla prova presuntiva, oltre che sulla ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza, sulla scelta dei fatti noti che costituiscono la base della presunzione e sul giudizio logico con il quale si deduce l’esistenza del fatto ignoto.

In relazione a ciò si rivelava fondata l’eccezione di inammissibilità del motivo, proposta dalle contribuenti nel controricorso: in tale sede era stato evidenziato che a tale apprezzamento il giudice di merito aveva provveduto, escludendo che la presunzione addotta dall’ufficio fosse connotata da gravità, precisione e concordanza.

La Corte ha altresì posto in luce il principio, di recente codificazione normativa (art. 5, c. 3, D.Lgs. 14.09.2015, n. 147), secondo il quale, per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non può essere desunto soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito a fini dell’imposta di registro, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale.

Per effetto di questa innovazione deve ritenersi superato l’orientamento della stessa Cassazione “in base al quale l’indicazione di un corrispettivo derivante dalla vendita di un bene, inferiore rispetto a quello accertato ai fini dell’imposta di registro, legittima di per sé l’amministrazione a procedere ad accertamento induttivo mediante integrazione o correzione della relativa imposizione, spettando al contribuente superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato al valore di mercato mediante la dimostrazione, anche in via indiziaria, di avere venduto proprio per il minor corrispettivo dichiarato”.

Secondo la Corte, quindi, non può essere ipotizzato alcun automatismo tra il valore delle quote e il valore (normale) della cessione: tuttavia, nel caso di specie, la decisione della CTR si era fondata soprattutto – in termini presuntivi – sull’enorme divario tra il valore di mercato delle partecipazioni e il loro valore nominale.

Proprio la misura del divario, si ritiene, ha fatto pendere il piatto della bilancia verso la versione dell’Agenzia, orientata alla prevalenza del valore normale.

Indizi presuntivi del valore superiore

Gli indizi presuntivi dell’avvenuto incasso da parte delle cedenti di un corrispettivo ben superiore a quello dichiarato faceva leva:

  • sul fatto che, come risultava dalle perizie di stima, la S.r.l. era una società dedita esclusivamente alla gestione di marchi (“di modo che la valutazione del valore dei marchi finisce col coincidere con quello della società, lasciando emergere l’insufficienza della motivazione espressa sul punto”);

  • sulla considerazione che la stima valorizzata dall’ufficio risaliva a un periodo temporalmente molto prossimo alle cessioni (4 mesi dopo), comprendendo anche la stima della redditività futura, e che peraltro la società operava attraverso la concessione ad altre società di licenze di sfruttamento;

  • sul fatto che, anche rispetto alla perizia di parte prodotta dalle contribuenti, il corrispettivo dichiarato risultava essere pari ad appena il 2% di quello di mercato.

Tali circostanze hanno indotto la Corte a cassare la sentenza della commissione regionale, con rinvio per un nuovo esame alla stessa CTR.

Osservazioni conclusive

La decisione della Corte di Cassazione qui esaminata contiene una serie di considerazioni di ordine più astratto, orientate a circoscrivere il raggio d’azione degli accertamenti presuntivi, e un momento più “fattuale”, che alla luce delle circostanze che caratterizzavano la fattispecie ha indotto a dare ragione al fisco.

Certo, anche se il ragionamento presuntivo non può arrogarsi alcun crisma di “scientificità” infallibile, e anche se, normalmente, una cosa è il valore degli asset (nel patrimonio della società ceduta) e un’altra il valore della cessione delle quote societarie, in forza dei poteri attribuiti all’amministrazione (di “vedere” oltre il filtro dei valori nominali), difficilmente i giudici avrebbero potuto ignorare uno scostamento così forte tra i due dati in gioco (basso valore nominale Vs altissimo valore di mercato condizionato dal “peso” dei marchi).

Ciò non diminuisce però l’importanza di quanto affermato su tale genere di accertamenti “da scostamento di valori”, che non possono essere motivati genericamente facendo riferimento all’antieconomicità dell’operazione o all’abuso del diritto.

La sentenza sfavorevole alle ragioni delle contribuenti è scaturita, malgrado questa presa di posizione, dalla considerazione che la società era “essenzialmente” dedita allo sfruttamento degli asset immateriali (dal valore imponente), nonché dalle previsioni sulla redditività futura della società stessa, anch’essa dipendente dalle royalties ritratte per lo sfruttamento dei marchi.

Nella prospettiva della sentenza qui esaminata, pur avendo la Corte escluso il “sindacato” di antieconomicità, in fondo viene comunque costruito e avallato un accertamento fondato sull’irragionevole discrepanza tra il valore “effettivo” (periziato) della società in base ai suoi asset (attività sottostanti) e il valore nominale della cessione. Un simile accertamento, tuttavia, appare motivato solo in presenza di un disallineamento abnorme.

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3 aprile 2017

Fabio Carrirolo