sono ancora in fase di discussione e decisione tante cause relative alla contestazione di un maggior valore dei beni derivante da accertamenti emessi ai fini dell’imposta di registro e poi ribaltati sulle imposte dirette; ma le due legislazioni prevedono presupposti giuridici completamente diversi, in quanto per la prima è rilevante il corrispettivo percepito, mentre per le seconde il valore del bene
Con la sentenza del 16 settembre 2016, n. 18234, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di un contribuente, il quale ha impugnato una sentenza della CTR del Friuli Venezia Giulia.
In particolare, i giudici di appello hanno affermato che il valore del bene definito con riguardo all’imposta di registro, è vincolante per l’Agenzia ai fini dell’accertamento della plusvalenza realizzata con il trasferimento, dichiarata dalla parte venditrice ai fini delle imposte dirette, e che, sussistendo presunzione di corrispondenza dei due valori, è onere del contribuente dimostrare la non corrispondenza tra il corrispettivo della cessione ed il valore definito ai fini dell’imposta di registro1.
Da quanto si legge dalla sentenza, la causa è sorta a seguito di un accertamento ai fini dell’imposta di registro, con il quale l’Agenzia delle Entrate ha contestato alla parte venditrice di un complesso aziendale di non avere assoggettato ai fini delle imposte dirette una plusvalenza superiore a quella dichiarata, derivante da un presunto importo introitato dalla vendita, ma non dichiarato.
Tale presunzione si è basata sul fatto che la parte acquirente ha aderito ai fini dell’imposta di registro ad una proposta di conciliazione con l’Agenzia delle Entrate, la quale ha determinato un maggiore valore dell’avviamento ed il cui importo avrebbe dovuto essere dichiarato anche dal venditore ai fini delle imposte dirette.
La Suprema Corte ha dichiarato illegittimo l’avviso di accertamento, sancendo che e disposizioni in tema di imposizione diretta sulle plusvalenze da cessioni di immobili e di aziende ovvero da costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, devono interpretarsi nel senso che, in proposito, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito a fini dell’imposta di registro di cui al D.P.R. n. 131/ 1986.
La sentenza in commento è da accogliere con favore da parte dei contribuenti, in quanto sancisce che l’accertamento da parte degli Uffici, che ha utilizzato i valori determinati ai fini dell’imposta di registro per contestare, in capo al venditore, una maggiore plusvalenza ai fini delle imposte dirette, non può più basarsi esclusivamente su tale presunzione. E’ necessario, infatti, che la rettifica sia integrata da altre elementi, purchè gravi, precisi e concordanti, mentre i giudici tributari devono tenere conto di quanto prodotto, in termini di documentazione, dai contribuenti per dimostrare che il prezzo di cessione indicato nell’atto corrisponde a quanto effettivamente incassato2.
Tale principio vale anche per gli accertamenti notificati prima dell’entrata in vigore del comma 5, comma 3, del Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 147, considerata la natura interpretativa della relativa norma.
Del resto, come è stato sostenuto, sia da parte della giurisprudenza, che da parte della dottrina, le imposte dirette e quelle indirette hanno due presupposti impositivi differenti.
2. Imposte dirette e imposta di registro: due presupposti impositivi differenti
La motivazione della sentenza in commento sostanzialmente si basa sulla tesi dell’autonomia dei presupposti giuridici che caratterizzano l’imposta di registro e l’imposta sul reddito, ed è conforme a quanto sempre sostenuto da parte delle prevalente giurisprudenza (si cita, ad esempio, la sentenza della CTR della Lombardia n. 140/28/2013 dell’11 ottobre 2013).
Si ricorda che, mentre per l’imposta di registro il valore di riferimento individuato dal Legislatore è il valore venale in comune commercio del bene ceduto, ai sensi dell’art. 51 del D.P.R. 131/1986 (determinato, quindi, con regole esogene rispetto alla situazione del contribuente e dipendenti da dati di mercato), per l’imposta sui redditi l’attenzione deve invece focalizzarsi sul corrispettivo determinato tra le parti, in una dimensione intersoggettiva, come previsto dal Legislatore tributario all’art. 86 o all’art. 68 (se si tratta di persone fisiche) del D.P.R. 917/1986 (di seguito anche T.U.I.R.).
Infatti, nell’ambito dell’accertamento delle imposte sui redditi devono essere tenuti in considerazione il prezzo ed il costo di un bene al fine di determinare la plusvalenza tassabile e non il valore del cespite come anche ai fini dell’imposta di registro (sentenza della CTR di Roma n. 81 dell’8 aprile 2009).
Come rilevato dalla stessa Amministrazione finanziaria in anni passati, la definizione dell’accertamento ai fini dell’imposta di registro non può, pertanto, esplicare una efficacia automatica anche ai fini delle imposte dirette atteso che, per queste ultime, la determinazione del reddito d’ impresa va fatta mediante la contrapposizione di costi e ricavi nella loro effettiva misura, mentre, com’è noto, l’imposta di registro colpisce non già il prezzo bensì il valore dei beni oggetto di trasferimento (Risoluzione Ministeriale del primo luglio 1980, 9/1437).
Nella controversia in esame, l’Ufficio ha quindi ingiustificatamente trasferito i principi validi per la determinazione del valore dei beni ai fini dell’imposta di registro nella disciplina relativa all’imposta sul reddito, imponendo arbitrariamente che gli elementi che rivestono un ruolo chiave ai fini della prima divengano decisivi anche ai fini della seconda.
Come tra l’altro sostenuto dalla giurisprudenza (sentenza della Corte di Cassazione del 20 gennaio 2003, n. 792), il valore accertato dall’amministrazione finanziaria ai fini applicativi di un’imposta vincola la stessa amministrazione ove i fatti economici sono gli stessi e le singole leggi di imposta non stabiliscono differenti criteri di contabilizzazione. Ma dal momento che per la fattispecie in esame le normative delle relative imposte prevedono due differenti criteri di valutazione, è evidente l’illegittimità della rettifica effettuata.
A conferma di questo, si cita anche la sentenza della Corte di Cassazione del 4 aprile 2008, n. 8773, richiamata da quella della stessa Corte del 17 febbraio 2010, n. 3706, la quale ha sancito che, in materia tributaria, non è possibile, neppure in termini di giudicato esterno, estendere ad una controversia riguardante un’imposta i principi di valutazione previsti per un’altra imposta, ed a maggior ragione, nel caso in cui, come quello in esame, si devono applicare norme giuridiche diverse.
Del resto la stessa Corte di Cassazione ha in più occasioni ribadito il principio secondo cui la divergenza tra il valore venale del bene venduto e il prezzo di cessione costituisce soltanto un elemento indiziario circa il possibile occultamento del prezzo realmente concordato tra le parti. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che il T.U.I.R. non lascia dubbi, “sulla scorta dell’equivoco significato della parola ‘corrispettivo’, circa l’influenza soltanto del maggiore ammontare del ricavato della vendita rispetto al costo di acquisto, cioè dell’entità della monetizzazione dell’incremento patrimoniale, e, quindi, non autorizza revisioni dell’imponibile in base al semplice riscontro dell’inferiorità di detto ricavato rispetto al valore di mercato, lasciando aperta soltanto la facoltà dell’Ufficio, nella specie non esercitata, di dedurre e dimostrare l’eventuale divergenza del prezzo effettivamente riscosso rispetto a quello enunciato nel contratto di vendita, se del caso avvalendosi degli elementi presuntivi offerti dal valore venale” (in tal senso, per tutte, le Sentenza della Cassazione n. 16700 dell’8 agosto 2005 e n. 7689 del 16 maggio 2003).
A riguardo si ribadisce il fatto che, è ben vero che il valore normale determinato ai fini dell’imposta di registro può, e non deve, rappresentare elemento fondante rispetto ad una presunzione di corrispondenza tra prezzo e valore ma, ciò nondimeno, l’Ufficio avrebbe potuto, tutt’al più, utilizzare lo scarto esistente tra il corrispettivo dichiarato e il valore venale accertato ai fini del registro come punto di partenza per avviare la fase di ricostruzione del presupposto d’imposta.
La contestazione dell’Ufficio avrebbe dovuto quindi trovare fondamento non già sul valore determinato ai fini dell’imposta di registro ma, semmai, nel quadro della disciplina dettata per l’imposta sui redditi.
Tale disciplina, infatti, contiene una norma apposita relativa alla determinazione del valore normale dei beni, cioè l’articolo 9 del T.U.I.R il quale, però, può trovare applicazione solamente in specifici casi (tra i quali non rientra, in alcun caso, la fattispecie oggetto di contestazione), e cioè: in primo luogo, quelli in cui una transazione sia priva di corrispettivo in denaro (come, ad esempio, nel caso di conferimenti in società, permute, dazioni in pagamento, destinazioni di beni a finalità estranee all’impresa ed in generale quando siano previsti corrispettivi in natura) e, in secondo luogo, nei casi in cui vi sia la necessità di contrastare fenomeni “patologici” (come nel caso del transfer pricing di cui all’art. 110, c. 7, del TUIR, dove si estende l’applicazione del valore normale, a determinate condizioni, pur in presenza di un corrispettivo in denaro determinato tra le parti).
Conseguentemente, l’Ufficio avrebbe dovuto effettuare ulteriori indagini e fornire le prove, ad esempio, tramite indagini bancarie, che la riscontrata differenza (tra quanto accertato ai fini dell’imposta di registro e quanto dichiarato) supporti un maggiore incasso in nero (CTP di Reggio Emilia del 18 gennaio 2010, n. 16).
Infatti, come insegna la Commissione Tributaria Centrale (sentenza del 17 gennaio 1990, n. 284 ) ai fini delle imposte dirette: “Il valore di (un cespite) in tanto rientra tra le plusvalenze patrimoniali tassabili, in quanto sia stato percepito poiché la norma impositiva mira a colpire non un reddito presunto, ma un reddito entrato effettivamente ad accrescere il patrimonio del cedente”.
Pertanto, nell’ambito dell’accertamento delle imposte sui redditi devono essere tenuti in considerazione il prezzo ed il costo di un bene al fine di determinare la plusvalenza tassabile e non il valore del cespite, come ai fini dell’imposta di registro (CTR di Roma – Lazio n. 81 dell’8 aprile 2009).
L’Ufficio, quindi, con l’avviso di accertamento, non può ingiustificatamente trasferire i principi validi per la determinazione del valore dei beni ai fini dell’imposta di registro nella disciplina relativa all’imposta sul reddito, imponendo arbitrariamente che gli elementi che rivestono un ruolo chiave ai fini della prima divengano decisivi anche ai fini della seconda.
3. Conclusioni
Come rilevato anche da parte di autorevole dottrina, l’entrata in vigore dell’art. 5, c. 3, del D.lgs. 14/2015, su cui si basa la sentenza in commento, permetterà di rendere il quadro normativo più certo e trasparente, in quanto eviterà l’emissione di avvisi di accertamento automatici che non tengono conto che le normative sulle imposte sui redditi e su quella di registro prevedono dei presupposti giuridici completamente diversi, in quanto per le prime è rilevante il corrispettivo percepito, mentre per la seconda il valore del bene3.
28 novembre 2016
Fabio Gallio
1 E questo in linea con quanto sostenuto da recenti pronunce della Corte di Cassazione, quale l’ordinanza del 7 gennaio 2014, n. 80.
2 Ad esempio, producendo una dichiarazione da parte dell’acquirente, il quale attesta che il prezzo pagato per l’acquisto corrisponde all’importo dichiarato dalla parte venditrice, mentre il valore del medesimo acquirente definito per l’importa di registro risponde solo a propri motivi di convenienza. Così sentenza della CTR della Lombardia del 27 luglio 2015, n. 3472.
3 Così Studio n. 102-2016/T del Consiglio Nazionale del Notariato dell’8 aprile 2016.