Distacco del personale all’estero: la disciplina fiscale

l’internazionalizzazione dei sistemi economici rende sempre più spesso necessario distaccare all’estero lavoratori italiani; in questo articolo analizziamo la parte fiscale del distacco: le regole del TUIR all’interno del quadro normativo OCSE, l’eventuale imponibilità IRPEF del reddito maturato

Il distacco transnazionale: premessa

L’attuale incremento del grado di internazionalizzazione delle imprese sta spingendo molti gruppi multinazionali ad inviare proprio personale dipendente all’estero.

Tale operazione viene generalmente regolata mediante l’istituto del “distacco”1 e richiede un’attenta valutazione degli impatti fiscali.

Preliminarmente, è necessario accertarsi in quale Paese il soggetto distaccato sia fiscalmente residente, per stabilire dove avvenga la liquidazione definitiva delle imposte sui redditi da lui percepiti.

Successivamente, si renderà opportuno verificare se il reddito di lavoro sia imponibile esclusivamente nello Stato estero, esclusivamente in Italia, oppure in entrambi i Paesi.

In tale ipotesi, la “doppia imposizione” potrebbe essere evitata mediante gli istituti previsti nella singola fattispecie (il TUIR, ad esempio, prevede il meccanismo del credito d’imposta).

La società distaccante, qualora continuasse a corrispondere le retribuzioni, dovrà considerare tutti tali aspetti al fine di gestire correttamente le buste paga.

 

La disciplina fiscale italiana in relazione al distacco del personale all’estero

La nozione di residenza fiscale secondo il TUIR e il Modello OCSE

L’art. 2, c. 2, del TUIR stabilisce che: “Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”.

Secondo tale disposizione, sono considerate residenti in Italia le persone fisiche che per la maggior parte del periodo d’imposta2:

  • risultano iscritte nelle anagrafi della popolazione residente;
  • hanno nel territorio dello Stato il domicilio, ovvero la sede principale dei loro affari ed interessi, anche morali e familiari (ex art. 43, c. 1, c.c.). L’identificazione del domicilio richiede un’analisi d’insieme, tesa a bilanciare dal punto di vista qualitativo e quantitativo la rilevanza dei diversi luoghi in cui sono presenti gli interessi economici, professionali e familiari del soggetto (cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 751 del 15 marzo 1954; Corte di Cassazione, sentenza n. 2936 del 5 maggio 1980);
  • hanno nel territorio dello Stato la residenza, ovvero il luogo della loro dimora abituale (ex art. 43, c. 2, c.c.), dovendo accertare non solo la reale permanenza in un luogo, ma anche l’intenzione di abitarvi stabilmente, desumibile dalle consuetudini di vita e dalle relazioni sociali (cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 791 del 5 febbraio 1985; Corte di Cassazione, sez. II, sentenza n. 1738 del 14 marzo 1986).

In presenza di almeno uno dei suddetti elementi di collegamento con il territorio dello Stato, una persona fisica si considera fiscalmente residente in Italia.

Mentre il requisito dell’iscrizione anagrafica può essere verificato agevolmente3, la verifica del luogo di domicilio e di residenza potrebbero richiedere valutazioni più complesse. In tale procedimento, l’Amministrazione finanziaria ritiene che questi possano essere desunti con qualsiasi mezzo di prova (come ad esempio i legami affettivi e familiari, l’iscrizione a circoli sportivi, o da altri fatti concludenti di varia natura), non ritenendo invece sufficienti la mera cancellazione dall’anagrafe della popolazione residente, e la contestuale iscrizione all’AIRE, per escludere il domicilio o la residenza nel territorio dello Stato (cfr. Circ. Min. Finanze 2 dicembre 1997, n. 304/E).

Inoltre, in applicazione dell’art. 2, c. 2, l’onere di provare i presupposti che determinano la residenza fiscale di una persona fisica in Italia spetta all’Amministrazione finanziaria. Qualora invece un cittadino italiano si sia trasferito in un Paese diverso da quelli contenuti in un’apposita lista, l’art. 2, c. 2-bis prevede una presunzione relativa di residenza all’estero, salvo prova contraria fornita dal contribuente.

In ambito internazionale, la nozione di residenza è fissata dall’art. 4 del Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni.

Tale norma stabilisce che l’espressione “residente in uno stato contraente” designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è ivi assoggettata ad imposta a motivo del suo domicilio, residenza, sede di direzione ed ogni altro criterio di natura analoga4.

La nozione convenzionale di residenza potrebbe applicarsi in virtù dell’art. 169 del TUIR, rendendo inefficaci le regole sancite dal TUIR sopra descritte, oppure al fine di dirimere eventuali conflitti tra la normative domestiche degli Stati contraenti. In quest’ultimo caso, l’art. 4, par. 2, del Modello OCSE detta una serie di regole (cd. tie-breakers rules) finalizzate all’individuazione del Paese di residenza del percettore del reddito5.

La verifica della residenza fiscale è determinante, in quanto per i soggetti residenti è prevista una tassazione su tutti i redditi prodotti, non solo in Italia, ma anche all’estero; mentre, per i non residenti, è prevista la tassazione solo per i redditi prodotti in Italia (art. 3 del TUIR).

 

I redditi di lavoro dipendente nel Modello OCSE

Dopo aver individuato il luogo della residenza fiscale, è necessario richiamare quanto previsto in materia di lavoro dipendente dalla Convenzione contro le doppie imposizioni, se tra i Paesi interessati è stata stipulata6.

L’art. 15, par. 1, del Modello OCSE, stabilisce che

“… i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente possono essere tassati soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell’altro Stato contraente.”

In tale ultima ipotesi, le remunerazioni percepite possono essere tassate anche nello Stato in cui viene esercitata l’attività lavorativa, emergendo quindi una tassazione concorrente tra i due Paesi.

In deroga a tale principio, l’art. 15 cit., c. 2, prevede che, se sono soddisfatte contemporaneamente una serie di condizioni, il reddito di lavoro viene assoggettato ad imposizione esclusivamente nel Paese di residenza7.

Non verificandosi anche solo una di tali condizioni, potrebbe emergere una tassazione concorrente del reddito di lavoro nei due Paesi e la doppia imposizione potrebbe essere eliminata con i rimedi offerti dalla Convenzione, o dalle norme interne.

 

La tassazione del reddito di lavoro dipendente e la retribuzione convenzionale

Quando un soggetto si qualifica come fiscalmente residente in Italia, il reddito di lavoro viene assoggettato ad imposizione secondo quanto stabilito dall’art. 51, cc. da 1 a 8, del TUIR8.

In deroga a tali regole, l’art. 51, comma 8-bis, prevede un regime speciale per i lavoratori dipendenti che prestano la propria attività all’estero in via continuativa ed esclusiva per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di dodici mesi.

Al ricorrere di tutti i requisiti richiesti dalla norma, il reddito di lavoro dipendente viene determinato sulla base di retribuzioni convenzionali, definite annualmente con un decreto del ministro del Lavoro e della previdenza sociale. In questo modo, il reddito viene calcolato facendo riferimento ad una retribuzione forfetaria, senza considerare eventuali ulteriori remunerazioni in denaro o in natura.

In particolare, i requisiti per l’applicazione delle retribuzioni convenzionali sono i seguenti:

  • residenza fiscale del lavoratore nel territorio dello Stato;
  • effettuazione di una prestazione di lavoro dipendente all’estero, in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto di lavoro;
  • durata della prestazione lavorativa all’estero superiore a 183 giorni nell’arco di dodici mesi.

In merito a tale ultimo requisito, l’Amministrazione finanziaria ha precisato che l’espressione “nell’arco di dodici mesi” deve intendersi riferita “alla permanenza del lavoratore all’estero stabilita nello specifico contratto di lavoro, che può anche prevedere un periodo a cavallo di due anni solari” (Circ. Min. Fin. 16 novembre 2000, n. 207/E, par. 1.5.7).

Nonostante l’applicazione di tale regime, il lavoratore potrebbe essere comunque soggetto ad imposizione anche nel Paese estero; pertanto, poi dovrà recuperare le imposte ivi pagate con il meccanismo del credito d’imposta, ex art. 165 del TUIR.

Nella determinazione del credito, se il reddito di lavoro dipendente è stato tassato forfetariamente ai sensi dell’art. 51, c. 8-bis, l’imposta estera potrebbe non essere recuperabile totalmente. L’art. 165, c. 10, infatti, stabilisce che qualora il reddito estero concorra parzialmente alla formazione del reddito complessivo, anche l’imposta estera deve essere ridotta in misura corrispondente (in questo senso si è pronunciata anche l’Agenzia delle Entrate, con la Ris. 8 luglio 2013, n. 48/E).

 

Il caso: lavoratore dipendente distaccato all’estero pagato dalla società distaccante italiana

Quando una società italiana decide di inviare un proprio dipendente all’estero, magari presso una propria controllata, è necessario fare alcune valutazioni per la gestione delle retribuzioni.

Nell’ipotesi in cui la società distaccante intenda continuare ad erogare direttamente la retribuzione al lavoratore, benché distaccato e benché non presti la propria attività in Italia9, ci si deve chiedere se sia ancora tenuta, o meno, ad operare le ritenute sui redditi di lavoro dipendente corrisposti.

Per rispondere a tale interrogativo è necessario verificare quale sia il luogo di residenza fiscale del lavoratore.

Se il soggetto fosse considerato fiscalmente residente all’estero10, la società italiana non dovrebbe operare alcuna ritenuta Irpef sulle retribuzioni. L’art. 23 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, pur non prevedendo espressamente che le ritenute debbano essere operate nei confronti di soggetti residenti in Italia, parrebbe implicitamente sostenere tale circostanza. Peraltro, non vi sarebbe alcuna ragione che giustifichi l’effettuazione di trattenute su tali redditi, dei quali è già noto (ex ante) che non saranno tassati in Italia11.

Qualora, invece, il soggetto distaccato mantenesse la propria residenza fiscale in Italia, la società distaccante sarebbe tenuta ad operare le ritenute ex art. 23 del D.P.R. n. 600/1973, eventualmente in misura ridotta se ricorrono le condizioni per la tassazione su base convenzionale12.

In tale ipotesi, potrebbe emergere un disagio finanziario in capo al lavoratore, perché potrebbe essere tenuto anche al pagamento delle imposte dovute nello Stato estero. Come si dirà in seguito, al fine di agevolare il proprio dipendente, la società potrebbe erogargli un prestito di importo pari alle ritenute Irpef operate.

 

Lavoratore fiscalmente residente all’estero

Nell’ipotesi in cui il lavoratore non risulta fiscalmente residente in Italia13, la società distaccante potrà corrispondere le retribuzioni senza dover effettuare le ritenute di cui all’art. 23 del D.P.R. n. 600/1973, poiché, come detto, il lavoratore liquiderà le proprie imposte definitivamente all’estero14.

Tenendo conto di tale circostanza, i cedolini paga potrebbero essere strutturati seguendo una delle seguenti tre metodologie, ovvero:

  • la tax equalization;

  • la tax protection;

  • il netto garantito.

La tax equalization si basa sul principio che il lavoratore dipendente distaccato non deve sopportare alcun danno, né alcun beneficio, per effetto della sua assegnazione all’estero.

Operativamente, il datore di lavoro italiano corrisponde al lavoratore le retribuzioni effettuando una ritenuta fittizia (cd. Hypothetical Withholding Tax), per un ammontare pari all’ordinario debito fiscale cui il lavoratore sarebbe stato soggetto in Italia, se avesse qui continuato a svolgere la sua mansione.

Al momento della liquidazione delle imposte nello Stato estero, la società potrà utilizzare gli ammontari trattenuti al dipendente (HypoTax), mentre le eventuali differenze tra importi versati e trattenuti rimarranno a carico/beneficio della società.

Tale metodologia ha indubbiamente il pregio di garantire al dipendente la percezione di un determinato reddito netto, a prescindere dal Paese di destinazione; inoltre, garantirebbe parità di trattamento “retributivo” tra tutti i dipendenti della medesima azienda, evitando possibili gestioni ad personam.

La gestione dell’HypoTax, tuttavia, non è sempre agevole, soprattutto al momento della riconciliazione delle imposte estere con quelle italiane.

La tax protection è fondata sul principio che il lavoratore non dovrà sopportare alcun danno economico a seguito della sua assegnazione all’estero.

In quest’ottica, il lavoratore dovrà sostenere l’onere delle imposte dovute nel Paese di destinazione, in misura non eccedente a quella che avrebbe sostenuto se avesse continuato a lavorare in Italia. La società distaccante, pertanto, non dovrà effettuare alcuna ritenuta ipotetica (HypoTax) sulla retribuzione mensile del dipendente.

Le imposte dovute all’estero potranno essere liquidate con i seguenti metodi:

  1. gross up, secondo cui il versamento delle imposte viene effettuato direttamente dalla società, mediante ritenuta diretta;

  2. roll over, mediante il quale il versamento delle imposte avviene mediante dichiarazione dei redditi e successivo rimborso;

  3. gross net gross, che consiste in una preventiva determinazione del trattamento economico netto di sede estera da garantire al dipendente distaccato, calcolato come sommatoria della RAN estera (retribuzione annua lorda italiana al netto delle imposte e contributi italiana) e l’indennità netta estera. Tali importi vengono poi lordizzati sulla base delle aliquote d’imposta locali e dei contributi italiani (ed esteri, se dovuti) e definiti contrattualmente come importi lordi.

Tale metodologia, benché sia di semplice applicazione, potrebbe incentivare i lavoratori a scegliere distacchi in Paesi a bassa fiscalità, o a chiedere rimborsi per maggiori imposte pagate in Paesi a fiscalità onerosa.

Se le imposte pagate all’estero fossero inferiori a quelle dovute in Italia, infatti, il beneficio economico rimarrebbe a vantaggio del lavoratore.

In caso contrario, se il dipendente avesse pagato imposte “estere” superiori a quelle che avrebbe assolto in Italia, dovrebbe chiedere un rimborso dell’eccedenza alla società distaccante.

Il netto garantito, infine, si basa su un accordo tra la società distaccante e il dipendente di garantire a quest’ultimo un “netto retributivo”, che non potrà subire alcuna variazione in presenza di qualsiasi evento di carattere fiscale che si verifichi successivamente.

Con tale regime, che trae origine dalla Tax equalization e dal gross net gross, la società versa al dipendente, in aggiunta alla retribuzione concordata al lordo delle eventuali imposte dovute al Paese d’origine, una somma pari alle imposte dovute al Paese ospitante (oppure, in alternativa, la società provvede direttamente al versamento di tali imposte).

Il dipendente distaccato, infine, sarà tenuto a tutti gli obblighi fiscali previsti dalla normativa del Paese ospitante.

 

Lavoratore fiscalmente residente in Italia

Qualora il lavoratore distaccato all’estero mantenga la propria qualifica di residente fiscale in Italia15, la società distaccante dovrà necessariamente operare le ritenute Irpef previste dall’art. 23 del D.P.R. n. 600/1973 al momento della corresponsione delle retribuzioni16.

Per la costruzione dei cedolini paga, è necessario chiedersi se, secondo la normativa dello Stato estero e dell’eventuale Convenzione contro le doppie imposizioni, il reddito di lavoro sia imponibile anche nel Pase di destinazione, oppure no.

In caso di risposta negativa, le buste paga verrebbero generate seguendo le ordinarie regole previste in Italia, effettuando esclusivamente le ritenute Irpef previste dall’art. 23 del D.P.R. n. 600/1973.

In caso di risposta affermativa, il dipendente sarebbe assoggettato ad imposizione anche all’estero, emergendo un fenomeno di doppia imposizione. Conseguentemente il dipendente, benché abbia percepito una retribuzione già al netto delle ritenute Irpef “italiane”, dovrà versare anche le imposte estere sul medesimo reddito.

Il lavoratore subirebbe quindi un disagio finanziario, che potrebbe essere evitato mediante l’anticipo in busta paga da parte della società “italiana” delle imposte dovute in Italia, erogandogli una somma a titolo di prestito non assoggettata ad imposte e contributi previdenziali.

Ad esempio, ipotizzando una retribuzione di 1.000, il datore di lavoro effettuerebbe:

  • una ritenuta previdenziale di 100 (10%)17;

  • una ritenuta IRPEF di 207 (23% di 900);

  • un anticipo imposte pari a 207 (il medesimo importo di cui al punto precedente, con segno contrario).

Conseguentemente, il lavoratore percepirebbe una retribuzione netta pari a 900, che gli permetterebbe di far fronte al pagamento delle imposte dovute all’estero, senza subire alcun disagio finanziario.

L’anticipo delle imposte da parte della società rappresenta un prestito, assimilato ad una forma di finanziamento, per un ammontare pari alle ritenute IRPEF effettivamente dovute in Italia sul reddito da lavoro dipendente prodotto all’estero. Il prestito, poi, si estinguerà in seguito alla presentazione delle dichiarazione dei redditi in Italia da parte del lavoratore, mediante la quale lo stesso recupererà, con il meccanismo del credito d’imposta, le imposte pagate all’estero.

E’ bene evidenziare, però, che il credito d’imposta recuperato dal lavoratore potrebbe essere inferiore all’ammontare delle imposte dovute in Italia18 e l’azienda può scegliere se pretendere il rimborso integrale della somma prestata, oppure se richiedere esclusivamente la parte recuperata. In tale ultimo caso, la differenza non richiesta al lavoratore costituirà una retribuzione in capo allo stesso, da assoggettare a contribuzione e tassazione, oltre a rappresentare un costo per l’azienda.

Strutturando la busta paga in questo modo, infine, sarà necessario considerare anche che, in capo al lavoratore, il prestito sarà assoggettato a tassazione secondo quanto stabilito dall’art. 51, c. 4, lett. b, del TUIR.

 

Distacco transnazionale: conclusioni

Nell’ambito del processo di internazionalizzazione delle imprese, la mobilità dei lavoratori dipendenti richiede spesso una complessa valutazione delle norme fiscali (interne e Convenzionali) per individuare il luogo di tassazione dei redditi di lavoro e, operativamente, per scegliere come gestire l’erogazione delle retribuzioni.

In primis, è necessario accertare in quale Paese il lavoratore distaccato sia considerato residente fiscalmente.

Poi, si dovrà verificare il luogo nel quale il reddito di lavoro sia rilevante fiscalmente. In caso di tassazione concorrente tra l’Italia e il Paese di destinazione, la gestione dei cedolini paga potrebbe richiedere l’effettuazione di una HypoTax, qualora il dipendente sia fiscalmente residente all’estero, oppure la necessità di erogare un finanziamento al lavoratore, per alleviare il disagio finanziario connesso alla doppia imposizione sul medesimo reddito.

Dal momento che alcune soluzioni potrebbero produrre dei vantaggi ai lavoratori distaccati (si pensi all’adozione del metodo della Tax Protection per un dipendente assegnato in un Paese a fiscalità privilegiata), la scelta del metodo di assolvimento degli oneri fiscali dovrebbe sempre essere coerente con i regolamenti interni aziendali, per evitare possibili trattamenti retributivi differenziati tra dipendenti del medesimo inquadramento.

 

19 ottobre 2016

Fabio Gallio e Alessandro Muradore

 

NOTE

1 In ambito nazionale, tale istituto è disciplinato dall’art. 30 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276. In merito all’impiego in Italia di lavoratori distaccati da altri Paesi europei, il D.Lgs. 17 luglio 2016, n. 136, in attuazione della direttiva 2014/67/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, ha dettato una serie di disposizioni finalizzate ad evitare la fittizia allocazione di un datore di lavoro presso Stati membri dell’Unione europea, diversi da quelli in cui si svolgono le prestazioni. L’art. 3 del sopra citato D.Lgs. n. 136/2016 stabilisce che gli organi di vigilanza possano esaminare l’autenticità del distacco, verificando se l’impresa distaccante eserciti effettivamente attività differenti rispetto a quelle di mera gestione del personale dipendente, pena l’applicazione di sanzioni fino ad un massimo di 50.000 Euro (art. 3, co 5).

2 Ai sensi dell’art. 7 del TUIR, il riferimento è all’anno solare. La locuzione “maggior parte del periodo d’imposta”, in assenza di una precisa definizione, dovrebbe riferirsi ad un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di un anno solare di 365 giorni, potendo tale periodo essere anche non continuativo. In relazione ai criteri di calcolo dei giorni, l’Amministrazione finanziaria (nell’ambito di redditi di lavoro dipendente percepiti in Italia da soggetti residenti in Paesi con i quali sono in vigore le Convenzioni contro le doppie imposizioni – Circ. Min. Fin. 17 agosto 1996, n. 201) ha precisato che il computo dei giorni ai fini della verifica della permanenza in Italia deve essere effettuato considerando i giorni di presenza fisica.

3 E’ sufficiente infatti che il soggetto risulti iscritto nell’anagrafe della popolazione residente, ai sensi di quanto stabilito dalla Legge 24 dicembre 1954, n. 1228 e dal relativo regolamento di attuazione, il D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223.

4 Tale espressione, però, non comprende le persone assoggettate ad imposta in questo Stato soltanto per il reddito che esse ricavano da fonti situate in detto Stato.

5 L’art. 4, c. 2, del Modello OCSE stabilisce che: “Quando, in base alle disposizioni del paragrafo 1, del presente articolo, una persona fisica e’ considerata residente di entrambi gli Stati contraenti, la sua situazione è determinata nel seguente modo:

a) detta persona è considerata residente dello Stato contraente nel quale ha un’abitazione permanente. Se essa dispone di un’abitazione permanente in ciascuno degli Stati contraenti, è considerata residente dello Stato contraente nel quale le sue relazioni personali ed economiche sono più strette (centro degli interessi vitali);

b) se non si può determinare lo Stato contraente nel quale detta persona ha il centro dei suoi interessi vitali, o se la medesima non ha un’abitazione permanente in alcuno degli Stati contraenti, essa è considerata residente dello Stato contraente in cui soggiorna abitualmente;

c) se detta persona soggiorna abitualmente in entrambi gli Stati contraenti ovvero non soggiorna abitualmente in alcuno di essi, essa è considerata residente dello Stato contraente del quale ha la nazionalità;

d) se la situazione di residente non può essere determinata in base ai paragrafi a) – c), le autorità competenti degli Stati contraenti risolvono la questione di comune accordo.”

6 Tale analisi si rende necessaria perché il reddito di lavoro dipendente potrebbe essere rilevante fiscalmente in due Paesi, secondo le rispettive normative interne dei Paesi. Considerato che le disposizioni convenzionali prevalgono sulle norme interne, eventuali conflitti di imposizione potrebbero essere risolti ex ante.

7 Tali elementi sono:

“- il beneficiario soggiorna nell’altro Stato per un periodo o periodi che non oltrepassano in totale 183 giorni nel corso dell’anno solare considerato (lett. a); e

– Le remunerazioni sono pagate da, o per conto di, un datore di lavoro che non è residente dell’altro Stato (lett. b); e

– l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell’altro Stato.”

8 Tali norme sono applicabili anche quando un soggetto, che si qualifica come fiscalmente non residente in Italia, produce un reddito di lavoro dipendente in Italia, ai sensi dell’art. 23 del TUIR.

9 In questo caso, generalmente, viene previsto il riaddebito degli oneri sostenuti dalla casamadre nei confronti della società distaccataria, che beneficia delle prestazioni lavorative del lavoratore distaccato, con la maggiorazione di un mark up, che deve essere in linea con i valori di mercato (ai sensi dell’art. 110, c. 7, del TUIR, in materia di transfer pricing, se applicabile). Inoltre, occorre prestare attenzione alla nozione di economic employer definito dalle Convenzioni: in alcuni casi, se il costo del lavoro si intende sopportato dalla distaccataria, potrebbero non rendersi applicabili alcune previsioni convenzionali (art. 15 c. 2).

10 Ai sensi di tutte le disposizioni sopra descritte (par. 2) e di quelle interne del Paese di destinazione.

11 In tale ipotesi, è consigliabile farsi rilasciare un’attestazione dalla Tax Authority del Paese in cui viene distaccato il lavoratore, che certifichi che lo stesso è fiscalmente residente in quel Paese, da esibire all’Amministrazione finanziaria italiana in caso di verifica.

12 Ai sensi di quanto disposto dall’art. 51, c. 8-bis del TUIR, richiamato dall’art. 23, co 1-bis, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

13 La verifica relativa all’individuazione del luogo di residenza del lavoratore deve essere effettuata applicando le normative descritte nel paragrafo 2.

14 In merito, tale principio è stato confermato, anche se con riferimento ad un caso di liquidazione del TFR, dalla pronuncia della Corte di Cassazione n. 26438 del 4 novembre 2008.

15 Anche in questo caso, l’indagine relativa all’individuazione del luogo di residenza del lavoratore deve essere effettuata applicando le normative descritte nel paragrafo 2.

16 Se ricorrono le condizioni previste dall’art. 51, c. 8-bis, del TUIR, le ritenute Irpef vengono effettuate conformemente alla retribuzione convenzionale, ex art. 23, c. 1-bis, del D.P.R. n. 600/1973.

17 Per semplicità, l’impatto dei contributi previdenziali è stato simulato nella misura del 10%.

18 Tale circostanza potrebbe verificarsi, ad esempio, quando il lavoratore viene tassato sula base delle retribuzioni convenzionali (ex art. 51, c. 8-bis), dal momento che l’art. 165, c. 10, del TUIR impone che il credito d’imposta debba essere ridotto in caso di imposizione parziale del reddito.