Controllo fiscale nello studio: accesso domiciliare e segreto professionale

Il controllo fiscale in uno studio professionale pone problemi assai delicati relativi alle garanzie presidiate dal segreto professionale e su come tale tutela funziona in caso di verifica sul professionista.

Mentre l’accesso presso l’azienda, a fini di controllo fiscale, può svolgersi anche in mancanza del titolare, affinché l’ufficio fiscale possa svolgere un accesso nei confronti di un professionista si rende necessaria la presenza del titolare dello studio o di un suo delegato.

Il controllo in loco in uno studio professionale pone problemi assai delicati relativi alle garanzie presidiate dal segreto professionale.

La tutela del segreto professionale si impernia sull’art. 622 del codice penale, il quale prevede il delitto di indebita rivelazione di notizie apprese in ragione di un particolare stato, ufficio o professione.

Tale segreto è salvaguardato in ragione dell’esigenza di tutelare l’interesse privato alla riservatezza dei clienti che si rivolgono ad un professionista e l’interesse pubblico a non scoraggiare il ricorso a prestazioni professionali che richiedono la conoscenza di notizie riservate sul conto del cliente.

La problematica viene approfondita nell’articolo con riguardo alla questione dell’eventuale illegittimità dell’autorizzazione della Procura [del P.M.], che va contestata o in sede di impugnazione avverso l’atto impositivo, avanti la CTP, ovvero, in caso di mancata emanazione dell’accertamento, autonomamente aventi l’A.G.O. in quanto lesiva di diritti soggettivi. Tali aspetti sono stati esaminati dalla Cassazione nella recente sentenza n. 8587/2016.

 

Garanzie del segreto professionale

Sul piano penale processuale, la tutela del segreto professionale è garantita sotto i profili:

  • della facoltà di astenersi dal testimoniare su quanto conosciuto per ragione della propria professione, per avvocati, notai e professioni sanitarie (art. 200 c.p.p.);

  • della possibilità di opporsi all’esibizione di atti e documenti richiesti dall’A.G., dichiarando per iscritto che si tratta di notizie coperte dal segreto professionale (art. 256 c.p.p.).

L’art. 52, c. 3, del D.P.R. n. 633/1972, stabilisce che l’esame di documenti e la richiesta di notizie per i quali è eccepito il segreto professionale possono verificarsi soltanto con l’autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell’Autorità Giudiziaria più vicina.

Il segreto professionale assume quindi rilevanza solamente se il professionista lo eccepisce nel corso dell’ispezione e, in ogni caso, l’autorità giudiziaria può consentire all’organo ispettivo di derogarvi, fatti salvi i limiti imposti dall’art. 103 c.p.p. in materia di garanzie del difensore.

L’autorizzazione del procuratore della Repubblica non è richiesta ai fini di un mero controllo amministrativo contabile, ma solo per rimuovere una eventuale eccezione di segreto professionale di cui il professionista intenda avvalersi a tutela di determinati documenti o a salvaguardia di particolari notizie (natura ablativa).

L’eccezione del segreto professionale può riguardare soltanto fatti e circostanze che attengono direttamente alla tutela del diritto alla riservatezza (per esempio, nei confronti dei notai, concerne la correttezza del rapporto fra le parti). In altri termini sarebbe illegittimo e chiaramente ostruzionistico il comportamento di quel professionista che intendesse eccepire genericamente il segreto professionale su tutti i fascicoli presenti nel proprio studio al momento dell’accesso, in particolare per gli atti inter vivos, e pertanto di atti pubblici; è da ritenere legittima, invece, se non strumentale, la mancata consegna degli atti di ultima volontà, siano essi testamenti pubblici che segreti, per espressa previsione della legge notarile. In questi casi i verificatori, per averne la materiale disponibilità, devono rivolgersi all’Autorità Giudiziaria.

L’acquisizione di documenti e notizie astrattamente coperti dal segreto professionale può quindi considerarsi illegittima solamente se vi sia stata opposizione del professionista nella sua qualità di depositario e custode dello specifico segreto.

Stante il tenore letterale dell’art. 53 del D.P.R. n. 633/1972 si deve presupporre infatti che, in mancanza di esplicita e formale dichiarazione, il professionista abbia rinunciato a opporre il segreto professionale.

Se le notizie riguardanti un proprio cliente sono invece spontaneamente rivelate dal professionista ai verificatori, non avviene alcuna acquisizione illegittima di dati e informazioni da parte di questi ultimi, e le notizie apprese possono essere utilizzate nell’accertamento.

Sotto il profilo della responsabilità civile, i clienti relativamente ai quali può essere contestata una violazione del segreto professionale da parte del professionista possono agire nei confronti di quest’ultimo, senza incidere sulla piena validità dell’accertamento istruito.

Se l’Autorità Giudiziaria non dovesse rilasciare l’autorizzazione, i verificatori potrebbero reiterare la richiesta offrendo nuove motivazioni.

Nel caso in cui l’autorizzazione venga concessa, il silenzio della norma porta ad escludere qualsiasi forma di appello da parte del professionista, anche se parte della dottrina ritiene percorribile il rimedio dell’art. 700 c.p.c..

Il provvedimento di autorizzazione da parte della competente Procura della Repubblica, richiesto in conseguenza del segreto professionale opposto sulla corrispondenza intrattenuta fra il professionista ed il cliente, non costituisce atto suscettibile di autonoma impugnazione, bensì elemento del procedimento di accertamento la cui legittimità è pienamente sindacabile dal giudice tributario.

 

Tutela del difensore

L’art. 103, c.p.p. («garanzie di libertà del difensore») stabilisce questi importanti punti.

  1. Le ispezioni e le perquisizioni negli uffici dei difensori sono consentite solo: a) quando essi o altre persone che svolgono stabilmente attività nello stesso ufficio sono imputati, limitatamente ai fini dell’accertamento del reato loro attribuito; b) per rilevare tracce o altri effetti materiali del reato o per ricercare cose o persone specificamente predeterminate.

  2. Presso i difensori e gli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, nonché presso i consulenti tecnici non si può procedere a sequestro di carte o documenti relativi all’oggetto della difesa, salvo che costituiscano corpo del reato.

  3. Nell’accingersi a eseguire una ispezione, una perquisizione o un sequestro nell’ufficio di un difensore, l’autorità giudiziaria a pena di nullità avvisa il consiglio dell’ordine forense del luogo perché il presidente o un consigliere da questo delegato possa assistere alle operazioni. Allo stesso, se interviene e ne fa richiesta, è consegnata copia del provvedimento.

  4. Alle ispezioni, alle perquisizioni e ai sequestri negli uffici dei difensori procede personalmente il giudice ovvero, nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero in forza di motivato decreto di autorizzazione del giudice.

  5. Non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e loro ausiliari, né a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite.

  6. Sono vietati il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra l’imputato e il proprio difensore in quanto riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato.

  7. Salvo quanto previsto dal comma 3 e dall’articolo 271, i risultati delle ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, eseguiti in violazione delle disposizioni precedenti, non possono essere utilizzati (art. 191 c.p.p.).

L’amministrazione finanziaria agisce, nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali di controllo, mediante una serie di poteri che le consentono di venire a conoscenza di informazioni coperte da «segreti» e obblighi di riservatezza di vario genere. Tali poteri sono «codificati» soprattutto nei settori impositivi dell’IVA e delle imposte sui redditi.

Collabora con gli uffici dell’Agenzia delle Entrate anche la Guardia di Finanza, nell’ambito delle sue funzioni di polizia tributaria. Gli obblighi e le cautele cui la Guardia di Finanza è tenuta sono, per quanto riguarda le funzioni in oggetto, i medesimi cui sono tenuti i funzionari degli Uffici fiscali.

La possibilità, per l’amministrazione, di conoscere e gestire le informazioni rilevate nelle attività di controllo, utilizzandole ai fini dei propri atti impositivi (ma anche per scopi differenti, quale – ad esempio – quello della concessione dei rimborsi, dei crediti di imposta…), deve essere coordinata con diritti dei contribuenti di varia natura (diritto all’accesso alla documentazione amministrativa, diritto di difesa, diritto alla riservatezza).

 

Dati personali

Col D.Lgs. 30.6.2003, n. 196, è stato introdotto il codice in materia di protezione dei dati personali, il cui art. 1 dispone che «chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano».

Ai sensi dell’art. 3 di tale codice, i sistemi informativi e i programmi informatici devono essere configurati riducendo al minimo l’utilizzazione di dati personali e identificativi, in modo da escluderne il trattamento nel caso in cui le finalità perseguite possono essere ugualmente realizzate mediante dati anonimi od opportune modalità che permettano l’identificazione dell’interessato solo in caso di necessità.

L’art. 66 del codice contiene previsioni specifiche riguardanti il campo tributario e quello doganale (le cui autorità di riferimento, nell’organizzazione italiana delle Amministrazioni Pubbliche, sono costituite, rispettivamente, dall’Agenzia delle Entrate e dall’Agenzia delle Dogane).

Secondo il comma 1 dell’articolo, sono considerate attività di rilevante interesse pubblico, ai sensi degli artt. 20 e 21, quelle:

  • svolte dai soggetti pubblici;

  • (e) finalizzate all’applicazione, anche tramite i loro concessionari, delle disposizioni in materia di tributi;

  • in relazione:

    • ai contribuenti;

    • ai sostituti d’imposta;

    • ai responsabili d’imposta;

  • (nonché) in materia di deduzioni e detrazioni;

  • (e) per l’applicazione delle disposizioni la cui esecuzione è affidata alle dogane.

Il comma 2 dell’articolo contiene alcune precisazioni, in base alle quali sono fatte rientrare nell’area del «rilevante interesse pubblico» le attività dirette, in materia di imposte:

  • alla prevenzione e alla repressione delle violazioni degli obblighi e all’adozione dei provvedimenti previsti da leggi, regolamenti o dalla normativa comunitaria;

  • al controllo e all’esecuzione forzata dell’esatto adempimento degli obblighi fiscali;

  • all’effettuazione dei rimborsi;

  • alla destinazione di quote d’imposta.

I professionisti che si trovino a trattare dati personali, per adeguarsi alla normativa in tema di privacy, hanno i seguenti obblighi:

  • nomina delle figure previste dalla legge: titolare e responsabile del trattamento (titolare e responsabile possono identificarsi nella stessa persona);

  • sistemi di protezione informatica (antivirus, firewall) per proteggere gli elaboratori dal rischio di intrusione e di virus;

  • adozione di procedure per la tutela e la riservatezza dei dati in tutte le fasi del trattamento (raccolta, registrazione, correzione, trasmissione, distruzione);

  • approntamento di misure fisiche idonee alla protezione dei locali in cui vengono conservati i dati (allarmi antifurto, limitazione degli accessi ai locali, armadi con lucchetti…).

Ogni accorgimento utilizzato ai fini della tutela dei dati personali doveva essere rigorosamente documentato nel DPS (documento programmatico sulla sicurezza). Il D.L. 9.2.2012, n. 5 (convertito dalla legge 4.4.2012, n. 35), ha successivamente abrogato l’obbligo di tenuta del DPS, nonché della relativa autocertificazione sostitutiva, che era consentita in alcuni casi.

 

Privacy vs. obblighi tributari

La legge cerca di mediare il conflitto, che inevitabilmente insorge, fra il cittadino soggetto passivo del prelievo fiscale, in relazione alla propria capacità contributiva, ed insieme destinatario del diritto alla privacy.

In tale ottica mediatrice fra gli obblighi di solidarietà interpersonale e statuale e le libertà individuali, trovano riconoscimento nel diritto tributario sia il segreto d’ufficio che il segreto professionale, i quali subiscono un contemperamento in virtù del principio costituzionalmente stabilito dall’art. 53 Cost. (in base al quale tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva).

Per segreto d’ufficio si intende, mediando dall’art. 326 del codice penale, quello concernente dati e notizie che appartengono all’ufficio e vengono a conoscenza del pubblico ufficiale o la persona incaricata di servizio in ragione del loro ruolo. Con il predetto articolo, il codice penale sanziona, la divulgazione da parte di tali soggetti che, violando i doveri inerenti alle loro funzioni o al servizio, rivelano notizie d’ufficio che devono rimanere segrete. Peraltro anche condotte meramente colpose di rivelazione di segreti di ufficio (cioè non frutto di comportamenti propriamente coscienti e volontari), possono costituire comportamenti penalmente rilevanti (cfr. art. 326, c. 2, c.p.).

In campo tributario, l’obbligo del segreto d’ufficio è previsto dagli artt. 66 del D.P.R. n. 633/1972 e 68 del D.P.R. n. 600/1973, che riguardano il segreto cui sono tenuti i soggetti dell’amministrazione finanziaria che partecipano al procedimento di accertamento tributario.

In questo ambito gli spazi per una riservatezza fiscale affidata al contribuente sono ridotti, per il contemperamento degli interessi coinvolti, e non vi è quasi spazio per opporsi alla richiesta di dati, informazioni e documenti idonei a consentire immediati controlli. Il contribuente, però, può contare almeno sul segreto d’ufficio la cui rivelazione senza giusta causa è penalmente sanzionata.

La rassegna di norme di riferimento e indirizzi giurisprudenziali fin qui compiuta consente di affermare quanto segue.

  • Il segreto professionale è presidiato, per la generalità dei professionisti, da una normativa che ne consente l’utilizzo da parte dei pubblici poteri (e in particolare dall’amministrazione finanziaria) solamente previa autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria: tale segreto deve però essere opposto in modo «specifico» dal professionista.

  • L’amministrazione finanziaria può trattare i dati dei contribuenti (clienti dei professionisti) superando sia la normativa sulla privacy, sia quella in materia di segreto professionale: tale utilizzo è però condizionato e limitato, dipendendo dalla concessione dell’autorizzazione (se è opposto il segreto professionale), e, comunque, dalla necessità di acquisire e amministrare i dati richiesti, nello spirito dello Statuto del contribuente.

  • In ogni caso, i dati e i documenti acquisiti dal fisco vengono tutelati rispetto alle possibilità di un utilizzo extraistituzionale, in base alle disposizioni che vincolano l’amministrazione al rispetto del segreto d’ufficio.

Si osserva anche che la sentenza n. 18603/03 del 24.07.2008 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha sostenuto che l’Autorità Giudiziaria non può autorizzare ispezioni in uno studio legale [francese, nel caso di specie] per il rischio di far venir meno il rapporto di fiducia fra il legale e il cliente.

 

Verifica fiscale presso uno studio professionale
Vertenza

La questione oggetto della nuova pronuncia della Corte di Cassazione sopra citata trae origine da una verifica fiscale condotta dall’ufficio finanziario presso uno studio legale e tributario, nel corso della quale era stato opposto il segreto professionale relativamente ad alcuni documenti riguardanti i clienti dello studio.

L’autorizzazione rilasciata dall’Autorità Giudiziaria era stata impugnata avanti il TAR della Lombardia che, con sentenza confermata dal Consiglio di Stato, aveva declinato la propria giurisdizione.

Investite dell’impugnazione, le SS.UU. della Cassazione con sentenza n. 11082/2010 avevano respinto il ricorso, confermando che non sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo nell’ipotesi di impugnazione dell’autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica, ai sensi dell’art. 52, c. 3, del D.P.R. n. 633/1972, per consentire nel corso di una verifica fiscale l’esame di documenti rispetto ai quali il contribuente abbia eccepito l’esistenza del segreto professionale.

Le SS.UU. avevano anche precisato che la giurisdizione del giudice tributario si estende non solo all’impugnazione del provvedimento impositivo, ma anche alla legittimità di tutti gli atti del relativo procedimento, compresa l’autorizzazione in questione. Solo se l’attività di accertamento non sfocia in un atto impositivo (ovvero questo non è oggetto di impugnazione), l’autorizzazione suddetta, in quanto in ipotesi lesiva del diritto del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi previsti dalla legge, può essere impugnata avanti il giudice ordinario.

La CTP di Milano, adita a seguito della pronuncia delle sezioni unite, aveva accolto parzialmente il ricorso annullando il provvedimento di autorizzazione impugnato e respingendo la domanda risarcitoria.

Con la sentenza avverso la quale era stato proposto il ricorso per cassazione, la CTR della Lombardia aveva dichiarato l’improponibilità dei ricorsi presentati, in quanto il provvedimento conclusivo del procedimento di verifica fiscale a carico dello studio non era stato oggetto di impugnazione, e difettava pertanto il collegamento tra l’impugnazione del provvedimento stesso e l’autorizzazione del P.M..

Secondo la parte ricorrente per cassazione avverso questa decisione dei giudici di appello, doveva essere riconosciuto che la giurisdizione appartiene sempre al giudice ordinario quando vengono lesi diritti soggettivi derivanti da un’attività di verifica fiscale posta in essere al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge. Inoltre, veniva manifestata l’eventuale remissione alla Corte Costituzionale in relazione alla ritenuta illegittimità dell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, laddove non include anche l’autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria tra gli atti autonomamente impugnabili avanti le commissioni tributarie.

 

Impugnazione autonoma e derivata

La Cassazione, respingendo il ricorso, ha deciso per l’infondatezza della censura rivolta alla sentenza della CTR, osservando che le SS.UU. (tra le altre, nella sentenza n. 6315/2009) hanno affermato che la giurisdizione del giudice tributario ha carattere pieno ed esclusivo e si estende non solo all’impugnazione del provvedimento impositivo, ma anche alla legittimità di tutti gli atti del relativo procedimento, ivi compresa l’autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria .

Ciò perché l’eventuale giudizio negativo in ordine alla legittimità (formale o sostanziale) su di un atto istruttorio prodromico può causare la caducazione, per illegittimità derivata, dell’atto finale impugnato, con la conseguenza che gli eventuali vizi di atti istruttori prodromici possono essere fatti valere dinanzi al giudice tributario soltanto in caso di impugnazione del provvedimento che conclude l’iter di accertamento.

Se tuttavia l’attività dell’ufficio non sfocia in un atto impositivo (oppure tale atto, come nel caso di specie, non è stato impugnato), l’autorizzazione in questione è autonomamente impugnabile avanti il giudice ordinario.

Infine le SS.UU. hanno precisato che il problema della riconducibilità dell’atto impugnato alle categorie indicate dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 è questione che non attiene alla giurisdizione del giudice adito, bensì alla proponibilità della domanda dinanzi a quel giudice.

Secondo la Corte, i giudici della CTR Lombardia, in accordo con le SS.UU., non avevano declinato la giurisdizione loro attribuita, ma la avevano esercitata dichiarando l’improponibilità dei ricorsi (in quanto non era stato impugnato il provvedimento finale, rispetto al quale l’autorizzazione aveva carattere infraprocedimentale).

La Cassazione ha altresì ritenuto corretta la decisione della CTR sul punto della non riconducibilità dell’autorizzazione tra gli atti autonomamente impugnabili avanti la CTP, che sono comunque atti dell’amministrazione finanziaria, espressioni (dirette o indirette) del potere impositivo.

 

Tutela avanti l’autorità giudiziaria ordinaria

In ogni caso, come precisa la Corte, la dichiarazione di improponibilità del ricorso non crea un vuoto di tutela [né alcuna violazione della Costituzione e della CEDU], dato che, qualora il procedimento di verifica fiscale non si sia concluso con un provvedimento «tributario», ovvero tale provvedimento non sia stato impugnato dal contribuente, in relazione all’atto infraprocedimentale è assicurata la tutela giurisdizionale dinanzi al giudice ordinario, con la possibilità, ricorrendone i presupposti, di agire anche in via cautelare.

Ciò perché l’eventuale illegittimità del provvedimento adottato dal Procuratore della Repubblica non lede un semplice interesse legittimo ma integra – se effettivamente sussistente – sempre la lesione di un diritto soggettivo del contribuente nei cui confronti viene eseguita la verifica.

Solo quel provvedimento rende infatti legittimo l’esercizio dell’azione accertatrice e fa sorgere, a carico del contribuente – professionista sottoposto a verifica, l’obbligo di soggiacere a tale azione anche in ordine ai documenti secretati, nonché di fare quanto eventualmente le norme gli richiedano per consentire agli inquirenti di svolgere la propria attività.

 

8 settembre 2016

Fabio Carrirolo