Presupposti di legittimità per l'accertamento da studi di settore

nel momento caldo di UNICO, ripassiamo quali sono i presupposti che rendono legittimo un accertamento da studi di settore: l’evoluzione storica degli accertamenti basati su standard, la nascita degli indicatori di normalità economica e l’introduzione dei correttivi. E’ ormai giunto il momento di una riforma seria e coerente di lungo periodo

studi-di-settore-fiscooggiLa Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 4151 del 02.03.2016, è tornata ad affrontare un caso (l’ennesimo!) di accertamento da studi di settore.

Nel caso di specie, l’ufficio di Pavia dell’Agenzia delle Entrate notificava ad una società produttrice di parti interscambiali per macchine utensili, un avviso di accertamento con cui, in applicazione degli studi di settore riferiti al gruppo omogeneo di appartenenza in cui era stata inserita la contribuente e, segnatamente, dello studio di settore TD32U cluster 37, procedeva, in ragione degli scostamenti reddituali riscontrati tra i ricavi dichiarati e quelli puntuali, a rettificare, ai sensi degli arti. 62-sexies D.L. 331/93 e 39, comma primo, lett d), D.P.R. 600/73, le dichiarazioni IVA, IRPEG ed IRAP per l’anno 2004, determinando il maggior carico fiscale e liquidando imposte, interessi e sanzioni.

Avverso la sentenza di primo grado, che aveva accolto il ricorso della contribuente condividendo la tesi di questa che l’attendibilità degli studi di settore dovesse essere valutata in relazione alla specificità del caso concreto e che il cluster 37 non era nel caso di specie rappresentativo della realtà aziendale, proponeva appello l’Agenzia delle Entrate avanti alla CTR Lombardia, che, in accoglimento del gravame, riformava l’impugnata sentenza.

Ritenevano infatti i giudici di secondo grado che nella controversia in esame la società ricorrente non avesse fornito gli elementi che potessero giustificare la mancata congruità degli studi di settore, limitandosi ad affermare di non riconoscersi nelle caratteristiche del cluster e a segnalare generiche difficoltà di mercato dovute all’introduzione dell’euro e alla concorrenza dei paesi emergenti.

Del resto, osservavano i giudici più in generale, sebbene l’introduzione degli studi di settore sia fonte di una presunzione in favore dell’amministrazione, nondimeno si tratta di “presunzioni relative che ammettono la prova contraria“, sicché il contribuente che voglia contestarne l’applicazione “ha l’onere di attivarsi e dimostrare nella fattispecie in esame l’inaffidabilità del risultato ottenuto attraverso le presunzioni“, onere che essendo rimasto nella specie inadempiuto, non avendo la parte fornito alcuna prova a conforto del proprio assunto, rendeva l’accertamento legittimo e conseguentemente fondato l’appello dell’ufficio.

La società ricorreva infine davanti alla Suprema Corte per la cassazione di tale sentenza, per violazione, tra le altre, dell’art. 39, comma primo, lett d), D.P.R. 600/73, avendo la CTR basato la propria decisione sull’assunto che l’applicazione degli studi di settore fosse di per sé idonea, in caso di non congruità dei risultati, ad integrare il requisito previsto dall’art. 39, co. 1, lett d), D.P.R. 20 settembre 1973, n. 600, sebbene, secondo la più condivisibile giurisprudenza, si ritenga che la mera applicazione degli studi di settore non sia invece sufficiente allo scopo, essendo onere dell’amministrazione integrarne il risultato mediante l’indicazione di elementi contabili ed extracontabili collegati alla reale situazione aziendale, provvisti del necessario grado di gravità ed idoneità.

Tale motivo di ricorso, tuttavia, secondo la Corte, non era fondato.

Come chiarito dalle SS.UU. (26635/09), infatti, la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema unitario che non si colloca all’interno della procedura di accertamento di cui all’art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, 600, ma la affianca, essendo indipendente dall’analisi dei risultati elle scritture contabili, la cui regolarità, per i contribuenti in contabilità semplificata, non impedisce l’applicabilità dello standard, né costituisce una valida prova contraria, mentre, per i contribuenti in contabilità ordinaria, l’irregolarità della stessa costituisce esclusivamente condizione per la legittima attivazione della procedura standardizzata.

L’efficacia probatoria che si ritrae dalla determinazione induttiva dei ricavi operati in applicazione degli studi di settore non ricade dunque nell’ambito delineato dall’art. 39, c. 1, lett. d, D.P.R. 600/73 e non postula che il risultato reddittuale così conseguito sia integrato dall’acquisizione di conformi elementi di riscontro e che perciò l’amministrazione sia tenuta ad un’ulteriore attività di allegazione oltre a quella consistita nell’applicare al contribuente lo studio di settore corrispondente alla categoria di inclusione.

I giudici di legittimità evidenziano poi come le stesse SSUU hanno del resto chiarito che l’idoneità dello strumento parametrico ai fini di legittimare l’accertamento di ricavi maggiori rispetto a quelli dichiarati non discende ex se dalla mera applicazione alla fattispecie oggetto di verifica dello studio di settore ad essa relativo, costituendo invero gli studi di settore semplici estrapolazioni statistiche di indici di una normale redditività, “ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente“, il quale ha in quella sede facoltà di provare, “la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards’ o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame“, fermo restando che, se si astiene dal prendere parte al contraddittorio, “egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli standards, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito“.

La decisione di merito era dunque corretta, dato che nel caso in esame la società ricorrente non aveva fornito gli elementi che, a suo parere, potessero giustificare la mancata congruità con gli studi di settore, limitandosi, come detto, ad affermare di non riconoscersi nelle caratteristiche del cluster 37, nel quale il codice di attività l’aveva compreso e a segnalare generiche difficoltà incontrate sul mercato estero a causa dell’introduzione dell’euro e della concorrenza dei paesi emergenti.

Anche la censura sollevata avverso la sentenza sotto il profilo di vizio di motivazione, secondo la Corte, era comunque infondata.

Il contribuente aveva assunto infatti che, sebbene avesse eccepito l’esistenza di macroscopiche differenze tra la propria realtà aziendale e quella oggetto di inquadramento nel cluster 37, in particolare in ordine all’organico del personale, alla superficie utilizzata, al tipo di produzione e di prodotto, alla dotazione di beni strumentali ed avesse altresì allegato la contrazione dei consumi di energia elettrica e la crisi attraversata dal settore, la sentenza impugnata non conteneva alcuna espressa e congrua motivazione quanto alla rilevanza od irrilevanza degli elementi dedotti a prova contraria e sulle conseguenze che ne discendevano sul piano probatorio in merito all’attendibilità dell’accertamento operato dall’ufficio.

I giudici di legittimità evidenziano a tal proposito che le SS.UU hanno già precisato che un vizio motivazionale non è riconoscibile laddove “vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione” (24148/13).

La CTR, peraltro, aveva mostrato di non ignorare le controdeduzioni della parte, ma, nel potere di apprezzarne la concludenza che le compete in via esclusiva quale giudice del merito, ne aveva esclusa ogni valenza decisoria.

Al di là della specifica vicenda, l’ennesima pronuncia della Corte rappresenta comunque l’occasione per interrogarsi sull’attuale validità dello strumento.

Il Governo si è peraltro già impegnato, in sede di accoglimento di mozioni parlamentari, “ad assumere iniziative volte a regolamentare gli studi di settore affinché ne venga previsto un utilizzo come mero parametro statistico di analisi per selezionare i contribuenti da assoggettare ad attività di controllo fiscale e, di conseguenza, ne sia esclusa l’applicazione quale strumento per stabilire automaticamente l’adeguatezza delle dichiarazioni dei redditi”.

Il punto su cui intervenire, tuttavia, non riguarda tanto la motivazione a base degli accertamenti da studi di settore, ma il loro valore probatorio.

Sul valore probatorio degli studi di settore regna in effetti molta confusione, anche considerato che già oggi, come da interpretazione della Corte di cassazione, gli studi di settore non sono considerati elemento di automatico accertamento, ma mera presunzione semplice, che però, unita ad altri elementi, tra cui anche l’aver svolto il contraddittorio con il contribuente senza che questi fornisca specifiche giustificazioni, diventa poi presunzione legale e sufficiente a legittimare la pretesa accertativa.

Premesso dunque che, ai fini della legittimità della motivazione dell’accertamento da studi di settore, è sufficiente che l’Ufficio dia atto di quanto emerso nel contraddittorio con il contribuente, motivando anche in ordine al perché le giustificazioni addotte non sono state considerate sufficienti a superare le risultanze dello studio, è chiaro che il confronto in giudizio e l’esito del contenzioso dipende dalla valutazione dei giudici in merito ai contrapposti impianti probatori.

Prova che, nel caso di accertamenti da studi di settore, dovrà essere, da parte del contribuente, particolarmente efficace, in quanto deve superare una presunzione direttamente prevista dalla norma.

L’applicazione degli studi di settore si basa del resto sul concetto di ordinaria applicazione giurisprudenziale dell’id quod plerumque accidit, presupponendo che l’antieconomicità della gestione imprenditoriale (rispetto ad analoghi esercizi), come appunto desunta dallo strumento statistico, possa essere sintomo di evasione, laddove l’onere del contribuente di motivare le scelte che non sono in linea con i criteri di gestione economica della propria attività è simmetrico e reciproco all’obbligo di motivazione degli atti che grava sull’Amministrazione Finanziaria (Cass. 1821/2001).

La prova contraria fornita dal contribuente dovrà pertanto riguardare la prova positiva dell’esistenza di fatti che servano ad indebolire, fino eventualmente a neutralizzarla completamente, la forza dimostrativa che è insita nella presunzione codificata nella cifra di ricavo conteggiata dallo studio di settore.

La questione, quindi, non riguarda la sufficienza o idoneità della motivazione dell’accertamento e quindi la sua legittimità, ma, la sufficienza o idoneità della prova dei fatti contestati e in particolare il confronto comparativo con le prove contrarie addotte dal ricorrente.

Vero è, del resto, che la realtà della crisi economica si scontra oggi, spesso, con le presunzioni degli studi di settore.

Tale situazione viene segnalata dai dati Istat, Isee, dai monitoraggi delle associazioni di categoria e da molti altri indicatori.

Una cosa è certa: sono necessari dei correttivi.

I punti che in particolare necessitano di un’attenta valutazione e osservazione sono costi, margini, magazzini e ricavi.

Inoltre c’è da dire che nel 2006 vennero introdotti gli indicatori di normalità economica, che, però, oltre ad essere nati anacronistici e ad essere stati determinati unilateralmente dall’Amministrazione Finanziaria, non coglievano comunque la varietà delle tipologie di impresa a cui si applicavano.

A ben vedere comunque sulla Gazzetta Ufficiale n. 116 del 21 maggio 2015, è stato pubblicato il decreto 15 maggio 2015 del Ministero dell’Economia, recante “Approvazione della revisione congiunturale speciale degli studi di settore per il periodo d’imposta 2014”, che approva la revisione congiunturale degli studi di settore relativi alle attività delle manifatture, dei servizi, del commercio e quelle professionali, per tener conto della crisi economica e dei mercati.

Sono stati introdotti specifici correttivi che prendono in considerazione alcune grandezze e variabili economiche e le relative relazioni, modificate a seguito della crisi del 2014, tra cui: le contrazioni più significative dei margini e delle redditività; il minor grado di utilizzo degli impianti e dei macchinari; la riduzione dell’efficienza produttiva; le riduzioni delle tariffe per le prestazioni professionali; gli andamenti congiunturali negativi intervenuti nell’ambito dei diversi settori, anche in relazione al territorio di riferimento; la ritardata percezione dei compensi da parte degli esercenti attività di lavoro autonomo a fronte delle prestazioni rese.

È stato inoltre predisposto un apposito studio sull’analisi dell’efficienza produttiva per 193 studi di settore, escludendo però i 12 relativi alle attività professionali che applicano funzioni di compenso basate sul numero degli incarichi.

Certo è che non si può continuare per correttivi e rimodulazioni, essendo più opportuno provvedere ad una riforma seria e coerente di lungo periodo.

20 giugno 2016

Giovambattista Palumbo