Abuso del diritto nelle operazioni tra due società dello stesso gruppo

di Giovambattista Palumbo

Pubblicato il 5 maggio 2016

abuso del diritto in una fittizia triangolazione tra due società del gruppo, al fine di evitare scientemente l’imposta dovuta in Italia

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26060 del 30.12.2015, è tornata, con ampia pronuncia, su una fattispecie di abuso del diritto.

La sentenza può essere interessante anche in chiave interpretativa, per l’applicazione della recente disciplina che ha finalmente disciplinato, con norma di diritto positivo, il fenomeno.

Nel caso di specie, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio aveva rigettato l'appello principale dell'Ufficio e l'appello incidentale del contribuente, proposti avverso i capi della decisione di prime cure relativi, rispettivamente:

a) all'annullamento parziale dell'avviso di rettifica della dichiarazione IVA, limitatamente alla contestata omessa autofatturazione da parte della contribuente di prestazioni di servizio ricevute in base ad un rapporto qualificato dai militari della Guardia di Finanza come "leasing finanziario" di aeromobile;

b) all'accertamento della legittimità del medesimo avviso di rettifica in ordine alla maggiore IVA dovuta dalla società per omessa fatturazione di operazioni imponibili realizzate, nonchè della legittimità dell'avviso di accertamento in relazione alla indebita detrazione IVA su costi ritenuti indeducibili.

I Giudici di merito respingevano l'appello principale, ritenendo che la tesi dell'Ufficio, secondo cui l'operazione di leasing finanziario, intercorsa tra la società italiana e altra società tedesca dello stesso gruppo, ed avente ad oggetto l'aeromobile poi da quest'ultima concesso in godimento ad altra società italiana, era funzionale ad evitare l'applicazione dell'IVA, che la contribuente avrebbe dovuto versare all'Erario qualora il leasing finanziario fosse stato stipulato direttamente con la società italiana, non aveva fondamento giuridico, in quanto all'Ufficio non era consentito qualificare diversamente i contratti stipulati dalle parti, prescindendo dalla effettiva volontà dei contraenti, ed in quanto l’anteriorità della stipula del contratto di locazione tra la società italiana utilizzatrice finale e la società tedesca rispetto a quella del contratto di leasing "infragruppo" non faceva venire meno la differente causa (finanziaria, in un caso e di godimento, nell'altro) di detti schemi negoziali, ben potendo le parti subordinare l’efficacia del primo contratto alla stipula del secondo.

Aggiungevano poi i Giudici di appello che, anche se non era da escludersi una potenziale utilizzazione del complesso schema operativo al fine esclusivo di realizzare un indebito vantaggio fiscale, nel caso concreto l'Ufficio finanziario non aveva comunque fornito la necessaria prova.

La sentenza veniva dunque impugnata per cassazione dall’Agenzia delle Entrate, la quale sosteneva che il riferimento contenuto in sentenza ad una illegittima "riqualificazione giuridica" dei negozi intercorsi tra le parti ad opera dell'Ufficio, era del tutto errato, in quanto nei gradi di merito l'Amministrazione finanziaria aveva inteso denunciare la condotta della contribuente che veniva a rivestire i connotati dell'abuso del diritto.

Il motivo di ricorso, secondo i giudici di legittimità, era tuttavia inammissibile.

La Corte evidenziava del resto che il Giudice di merito aveva in realtà ben tenuto presente la questione sottoposta dall'Ufficio finanziario, relativa alla "fittizia triangolazione del contratto di locazione dell'aeromobilee il ruolo svolto dalla società tedesca di “utile schermo al fine di evitare scientemente l'imposta dovuta in Italia ". Tanto è vero che la stessa CTR affermava che l’operazione descritta poteva anche essere utilizzata a fini elusivi, pervenendo tuttavia alla conclusione, sulla scorta degli elementi in fatto e diritto indicati, che nella specie non era stata fornita la prova della "esclusiva" finalità del perseguimento del vantaggio fiscale, in quanto:

  1. la scelta dello schema negoziale era giustificata dalla diversa funzione economica sottesa al leasing finanziario ed al contratto di locazione, non essendo riconducibile a quest'ultimo l'interesse dell'utilizzatore all'acquisto della proprietà del bene che caratterizzava invece il primo, con la conseguenza che non era dato ravvisare una sostanziale sovrapponibilità dei due contratti, tale da ipotizzare un rapporto di "leasing finanziario" (e non di locazione) intercorso direttamente tra la proprietaria-concedente e la società italiana utilizzatrice finale;

  2. la stipula di un contratto di locazione tra la conduttrice italiana e il locatore tedesco, nel quale veniva espressamente dato atto che il locatore avrebbe concesso in godimento il bene mediante stipula di un successivo contratto con la società italiana, non incideva sulla validità della locazione, avendo inteso le parti soltanto subordinare l’efficacia di tale contratto alla stipula del secondo.

Tanto premesso, osservava comunque il Collegio di legittimità che spettava, in via esclusiva, al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi.

Risultava quindi del tutto estranea all'ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l'autonoma, propria, valutazione delle risultanze degli atti di causa.

Né del resto l’Agenzia indicava specifici elementi probatori, ovvero documenti prodotti in giudizio, che i Giudici di appello avrebbero omesso di considerare ai fini della ricostruzione della fattispecie concreta, ma lamentava piuttosto che dagli elementi fattuali e dalle prove dedotte in giudizio il Giudice di merito era pervenuto ad un convincimento diverso da quello che l'Ufficio stesso si attendeva, non avendo riconosciuto nel rapporto tra società tedesca e quella italiana una "attività di intermediazione" intracomunitaria, avente ad oggetto prestazioni derivanti dal "contratto di leasing finanziario" relativo ad un mezzo di trasporto, fattispecie che ricadeva nella previsione dell'art. 40, comma 8, DL n. 331/1993 conv. in legge n. 427/1993, che considerava espressamente "effettuata nel territorio dello Stato" la prestazione di intermediazione "se relativa ad operazioni [ndr: la concessione in leasing del mezzo di trasporto, secondo la tesi sostenuta dalla Agenzia] ivi effettuate", con conseguente assoggettamento della operazione (idest del leasing finanziario) ad IVA nello Stato italiano.

In sostanza l’Agenzia individuava un rapporto di leasing finanziario, tra committente/utilizzatrice e proprietario/concedente del bene, fiscalmente rilevante nello Stato, non ostandovi la intermediazione ("lo schermo") della società tedesca.

Se però così era, secondo la giurisprudenza comunitaria, perché si potesse parlare di pratica abusiva, occorreva che si verificassero due condizioni. Da un lato, le operazioni controverse dovevano procurare un "vantaggio fiscale", la cui attribuzione fosse contraria all'obiettivo perseguito dalla normativa di riferimento. E dall'altro, doveva risultare, da un insieme di elementi oggettivi, che lo "scopo essenziale" dell'operazione controversa era effettivamente l'ottenimento di detto vantaggio fiscale.

L'elemento della fattispecie integrante 1'"indebito" vantaggio fiscale per contrarietà" allo scopo perseguito dalle norme tributarie eluse, va ricercato infatti, sottolinea la Corte, nella causa concreta dell’operazione negoziale sottesa al "meccanismo giuridico contorto" (cfr. Corte cass. V sez. 8.4.2009 n. 8487, id. V sez. 10.6.2011 n. 12788, che fanno riferimento ad un "uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico"; id. V sez. 21.1.2011 n. 1372, id. V sez. 20.5.2011 n. 11236, id. V sez. 20.10.2011 n. 21782, id. V sez. 15.1.2014 n. 653, che fanno riferimento a "vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione od un risparmio d'imposta"; id. V sez. 30.11.2012 n. 21390, che si riferisce a "modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato"), volto ad aggirare la normativa tributaria, e posto in atto per raggiungere lo scopo essenziale del risparmio d'imposta che in altro modo non sarebbe possibile conseguire (cfr. Corte giustizia, Newey, secondo cui "il principio del divieto dell'abuso del diritto comporta il divieto delle costruzioni meramente artificiose"), rimanendo precluso l'utilizzo di strumenti o combinazioni negoziali, pur se esenti da vizi di nullità ex art. 1418 c.c., diretti a realizzare un risultato fiscale non conforme a quello "normale" e cioè non conforme allo scopo voluto dalla norma tributaria elusa, avuto riguardo alla realtà effettuale dell’operazione economica e non al suo mero rivestimento giuridico (id. V sez. 21.1.2009 n. 1465 ed id. V sez. 22.9.2010 n. 20029, per cui l'operazione economica deve essere valutata "tenuto conto sia della volontà delle parti implicate, che del contenuto fattuale e giuridico"; id. Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 6835 del 19/03/2013, secondo cui la verifica della condotta abusiva "impone di privilegiare l'intrinseca natura e gli effetti giuridici, rispetto al titolo e alla forma apparente degli stessi, con la conseguenza che i concetti privatistici relativi all'autonomia negoziale regrediscono, di fronte alle esigenze antielusive poste dalla norma, a semplici elementi della fattispecie tributaria, per ricostruire la quale dovrà, dunque, darsi preminenza alla causa reale e complessiva dell'operazione economica, rispetto alle forme dei singoli negozi giuridici"; id. Sez. 5, Sentenza n. 17965 del 24/07/2013).

La Suprema Corte, infine, evidenzia come devono comunque ritenersi escluse dalla nozione di abuso del diritto le ipotesi di condotte illecite fraudolente od anche soltanto simulatorie, in quanto il fenomeno abusivo deve iscriversi nell'ambito delle sole condotte lecite (idest: non violative di prescrizioni normative) e non occulte (essendo realmente diretta la volontà dei contraenti "abusivi" alla produzione degli effetti giuridici previsti dalla legge), che consentono di perseguire legalmente il risultato finale previsto, ad esempio attraverso l'uso indiretto del negozio od il collegamento negoziale od anche eventuali deroghe negoziali allo schema tipico dei contratti o commistioni tra discipline negoziali differenti (che collocano il rapporto nella sfera dei negozi atipici o misti rimessi all'esercizio della autonomia privata), od ancora il frazionamento, in autonomi contratti, di prestazioni unitariamente riconducibili ad un medesimo schema negoziale tipico, dovendo inoltre ravvisarsi il connotato della abusività della condotta, nel risultato finale, che viene raggiunto dalle parti "costruendo" l’operazione economica in modo da "destrutturare" il fatto giuridicamente rilevante, altrimenti integrante il presupposto d'imposta previsto dalla norma impositiva.

Tutto ciò imponeva all’Agenzia fiscale ricorrente di fornire, in modo specifico, la prova dei fatti dimostrativi dell'abuso di diritto, gravando su quest'ultima il relativo onere della prova (cfr. Corte cass. V sez. 17.10.2008 n. 25374, secondo cui "l'individuazione dell'impiego abusivo di una forma giuridica incombe sull'Amministrazione finanziaria, la quale non potrà limitarsi ad una mera e generica affermazione, ma dovrà individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che fanno ritenere l'operazione priva di reale contenuto economico diverso dal risparmio d'imposta"; id. V sez. 21.1.2009 n. 1465; id. V sez. 22.9.2010 n. 20029; id. V sez. 30.11.2012 n. 21390), indicando gli elementi della fattispecie concreta che evidenziavano un utilizzo abnorme dello schema negoziale prescelto in relazione alla causa tipica del negozio nominato (locazione) rispetto alla causa del negozio atipico (leasing finanziario), ed evidenziando, per esempio, le anomalie concernenti l’entità dei canoni locativi, la durata del rapporto rispetto alla obsolescenza del bene, l'inserimento di una clausola di opzione dell'acquisto in proprietà del bene alla scadenza del rapporto locativo, ovvero dimostrando la "antieconomicità" del contratto di locazione rispetto al contratto di leasing (ad esempio nel caso in cui i canoni locativi fossero del tutto fuori mercato, ovvero fosse possibile acquisire sul mercato italiano la disponibilità di un bene di caratteristiche analoghe ad un prezzo di locazione maggiormente vantaggioso).

La doglianza formulata dall’Agenzia si risolveva invece nella mera contestazione della modalità di esercizio dell'autonomia negoziale (in relazione alla scelta dell'operatore con cui contrarre gli impegni, ed alla scelta degli strumenti negoziali da impiegare nello svolgimento dell'attività economica) , e specificamente della libera iniziativa economica delle imprese, e si poneva pertanto del tutto al di fuori del fenomeno dell'abuso del diritto in materia tributaria, anche considerato che l’opzione del soggetto passivo per l’operazione negoziale che risulti fiscalmente meno gravosa non costituisce ex se condotta "contraria" allo scopo della disciplina normativa tributaria, laddove sia lo stesso ordinamento tributario a prevedere tale facoltà di scelta.

L’abuso del diritto è dunque ciò che “avrebbe dovuto essere” per l’Ordinamento e non ciò che è stato ma che il contribuente in realtà non voleva (perché voleva un’altra cosa  simulazione relativa, o perché non voleva nulla  simulazione assoluta).

L’operazione abusiva rappresenta in questi casi solo il mezzo, lo schermo per non dover pagare le maggiori imposte dovute, che, invece, ponendo in essere l’operazione consentita dall’Ordinamento, avrebbero dovute essere pagate.

In caso di abuso, quindi, l’ordinamento, ex ante, non consente la non insorgenza del presupposto di imposta, che non necessita neppure di essere fatto riemergere. In questo caso gli effetti fiscali illeciti dell’operazione abusiva non saranno infatti mai venuti ad esistenza, ex tunc.

In tale contesto la realizzazione di una disciplina normativa sull’abuso del diritto, nell’ambito del decreto non a caso chiamato “Certezza del diritto”, è stata di un’importanza epocale.

L’abuso del diritto era infatti, fino ad oggi, un concetto di origine meramente giurisprudenziale, come dimostrano i numerosi richiami nella sentenza in commento.

Fino ad oggi, dunque, l’"ingiustizia" dell’abuso, non essendo riferibile a parametri normativi diretti e ad una norma tributaria imperativa, che tale lo qualificasse e come tale lo sanzionasse, doveva essere necessariamente riferita ad una clausola metagiuridica insita nell’Ordinamento e riportata alla luce solo grazie alla giurisprudenza. Per rendere tutto più trasparente e consapevole era doveroso emanare una legge, che a tali principi desse finalmente voce positiva.

Norma generale che comunque ha fatto tesoro dei tanti indirizzi giurisprudenziali, egregiamente richiamati nella sentenza della Corte del 30 dicembre, ad ideale chiusura del periodo di imposta.

Non si considerano dunque abusive le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali non marginali, laddove viene ora anche in norma esplicitata la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale.

Nel procedimento di accertamento dell’abuso del diritto l’onere della prova della condotta abusiva graverà del resto sempre sull’amministrazione finanziaria, mentre il contribuente sarà tenuto a dimostrare la sussistenza delle valide ragioni extrafiscali che stanno alla base delle operazioni effettuate.

5 maggio 2016

Giovambattista Palumbo