Spese di pubblicità ed accertamenti bancari

Analizziamo la fattibilità di una diversa deducibilità delle spese di pubblicità: deducibilità nell’anno delle spese di pubblicità classica e deducibilità annuale per quote costanti delle spese per la pubblicità televisiva, e la legittimità dell’accertamento fiscale basato sulle indagini finanziarie.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25906 del 23.12.2015, è tornata sul tema dei presupposti di legittimità per gli accertamenti bancari (e non solo).

L’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso davanti alla Suprema Corte avverso sentenza della CTR della Liguria, sostenendo che, a differenza di quanto concluso dal giudice di merito, era evidente, quanto alla rilevata movimentazione bancaria, che in ragione dell’efficacia di presunzione legale che la norma accorda agli accertamenti operati in base all’art. 32 del Dpr 600/73, la spiegazione fornita dal contribuente, secondo cui il prelevamento corrispondeva ad un parziale disinvestimento di fondi di credito effettuato nel corso dell’anno, lasciava insoluto un profilo probatorio, quello cioè attinente alla destinazione della somma.

Mancava, in sostanza, la prova concernente il beneficiario di essa e la finalità, cioè l’estraneità all’impresa, finendo così per traslare nuovamente sull’ufficio l’onere di provare che il prelevamento era riferibile ad operazioni imponibili.

Il motivo, secondo la Corte, era fondato ed il suo accoglimento determinava altresì l’assorbimento degli altri motivi di ricorso, con cui l’Agenzia impugnante deduceva, in particolare, anche il vizio di insufficiente motivazione in relazione alla medesima statuizione, in quanto la CTR, nel far propria la spiegazione offerta dalla contribuente, avrebbe dovuto motivare in base a quale fonte avesse ritenuto veritiera questa spiegazione.

I giudici di legittimità evidenziano comunque che

“è noto che gli artt. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. 600/73 e 51, comma 2, n. 2, D.P.R. 633/72 introducono, secondo una consolidata chiave di lettura, una presunzione legale in base alla quale sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari riferibili al contribuente – e tra essi quelli degli amministratori dei soci e dei loro familiari – si reputano imputabili a ricavi realizzati dall’impresa, sicché compete al contribuente, in virtù dell’inversione dell’onere della prova che in tal modo si determina, dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica, ma analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare che ciascuna delle operazioni effettuate è estranea a fatti imponibili (20981/15; 7776/08; 26692/05)”.

A tanto non si era tuttavia attenuta la decisione in esame, in particolare laddove la circostanza da essa assunta a giustificazione della movimentazione (“parziale disinvestimento di fondi di credito effettuati nell’anno in esame”) era frutto di un giudizio apodittico espresso sulla scorta di una mera asserzione di parte, che non soddisfava minimamente il ricordato onere probatorio, sia in ragione della sua inattendibilità, in quanto, oltre alla dichiarazione di parte, la CTR non riportava se e quali altre fonti di prova ne corroborassero la fondatezza, sia in ragione della sua incompletezza, atteso che, nel far propria la dichiarazione della parte, la CTR trascurava di considerare che essa non recava alcuna indicazione in ordine al destinatario finale della somma prelevata e alla finalità del suo impiego.

E ciò, conclude la Corte, avrebbe dovuto indurre il giudice d’appello a ritenere, diversamente da quanto fatto con la decisione impugnata, che la presunzione legale scaturita dalle norme in indirizzo conservava integralmente la propria efficacia probatoria.

I dati e gli elementi risultanti dai conti correnti bancari assumono quindi sempre rilievo, ai fini della ricostruzione del reddito imponibile, se il titolare di detti conti non fornisce adeguata giustificazione.

Come ormai stabilito in via consolidata dalla Corte (vedi anche la sentenza n. 18126 del 15.09.2015), determinandosi in questi casi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, egli deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica, ma analitica.

E’ irrilevante, peraltro, come prova contraria, il fatto che il conto sia cointestato, in particolare laddove le allegazioni allo scopo fornite non siano correlate a puntuali riferimenti alle singole operazioni riferibili all’altro cointestatario ed alla causale delle operazioni stesse.

Se è vero infatti che, in ordine al tipo di prova che il contribuente ha l’onere di fornire per vincere la presunzione, è ammesso anche il ricorso alle presunzioni semplici, le stesse devono però essere sottoposte ad attenta verifica, essendo il giudice tenuto ad individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purché grave preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati.

Gli accertamenti bancari forniscono dunque un insieme di dati sufficientemente sicuri, che possono legittimamente essere posti a base di un avviso di accertamento.

E l’Amministrazione può del resto utilizzare, oltre ai dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari formalmente intestati all’ente, anche quelli relativi a conti formalmente intestati ai soci, amministratori o procuratori generali, allorché risulti provata, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione, o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati, in particolare laddove, magari, i soci non risultino svolgere alcuna diversa attività produttiva di reddito, né avere operato dismissioni patrimoniali, o essere divenuti beneficiari di atti di liberalità.

La documentazione bancaria rappresenta dunque, senza dubbio, una forte presunzione, superabile soltanto da una altrettanto forte prova contraria, che il contribuente deve in ogni caso fornire, se vuole superare l’accertamento dell’Ufficio.

Anche ai fini Iva, del resto, l’art. 51, c. 2, n. 2, secondo periodo, del d.P.R. n. 633 del 1972, dopo aver stabilito che i risultati delle indagini finanziarie “sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 54 e 55 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili”, aggiunge che “sia le operazioni imponibili sia gli acquisti si considerano effettuati all’aliquota in prevalenza rispettivamente applicata o che avrebbe dovuto essere applicata”.

Il riferimento alle operazioni imponibili e agli acquisti induce dunque a ritenere che, anche ai fini IVA, le movimentazioni bancarie si presumono corrispondere a cessioni di beni o prestazioni di servizi (operazioni imponibili), se in entrata (in misura pari agli gli importi accreditati), o ad acquisti, se in uscita (ad esempio, prelievi).

Il recupero dell’Ufficio, alla luce di quanto sopra evidenziato, risultava dunque, nel caso di specie, del tutto corretto.

L’onere dell’Amministrazione di provare la pretesa fiscale è soddisfatto per volontà di legge attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti bancari.

La sentenza in commento, oltre ai suddetti principi in tema di indagini finanziarie, è degna di interesse anche sotto un altro profilo, in relazione a quanto da essa statuito in punto di spese di pubblicità.

La Corte censura infatti la decisione della CTR anche per il fatto che essa aveva avallato l’impostazione adottata dalla contribuente di scorporare dalle spese di pubblicità le spese televisive, assoggettando le prime alla regola dell’integrale deducibilità nell’anno di sostenimento e le seconde alla regola della deducibilità annuale in quote costanti, sebbene la stessa contribuente avesse optato per la deducibilità annuale in quote costanti.

In tal modo, evidenziano i giudici, la Commissione Tributaria Regionale aveva applicato “un principio inesistente, vale a dire la continuità e periodicità delle prestazioni televisive”, laddove al contrario “la loro qualità di spese di pubblicità, volte a incrementare le vendite, non viene meno per effetto della continuità e periodicità” con cui esse vengono sostenute.

La Corte evidenzia poi come già in altre occasioni essa aveva precisato che “in tema di reddito d’impresa, l’art. 74 (ora 108), comma 2, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, consente di scegliere solo tra la deduzione integrale immediata delle spese di pubblicità e propaganda nell’esercizio in cui sono state sostenute e quella in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro anni successivi, sicché al contribuente non spetta uno ius variandi rispetto al vincolante criterio legale e la sua opzione, immodificabile, va mantenuta per tutti gli esercizi tra i quali viene ripartito l’ammortamento” (Cass. 26179/14).

Era dunque errato il diverso convincimento sposato nel caso di specie dalla CTR, che, legittimando con il proprio deliberato la prassi adottata dalla ricorrente, secondo cui le spese pubblicitarie andavano assoggetta ad un duplice regime di deduzione (deducibilità nell’anno delle spese di pubblicità classica e deducibilità annuale per quote costanti delle spese per la pubblicità televisiva), aveva avallato l’adozione in materia di quello ius variandi stigmatizzato dal richiamato precedente e che risultava peraltro più generalmente incompatibile con le regole, notoriamente inderogabili, che sovrintendono in tema di imputazione delle componenti negative di reddito.

 

21 aprile 2016

Giovambattista Palumbo