in questo articolo analizziamo le regole per valutare se e quando e in quali casi l’amministratore può essere anche dipendente della società
La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 23763 del 20.11.2015, è tornata sulla questione relativa alla deducibilità dei compensi agli amministratori.
La Commissione Tributaria Regionale, di contrario avviso rispetto alla decisione di primo grado, aveva ritenuto che “in virtù del disposto dell’art. 2389 il requisito di certezza e determinabilità richiesto dall’art. 75” (ora 109) ‘per determinare la competenza temporale della componente negativa di reddito‘, la deduzione operata dalla società fosse corretta, malgrado la norma codicistica non abbia in tal caso alcuna rilevanza fiscale e la ripresa fosse motivata nella specie dall’intervenuta erogazione del compenso ‘fatto più che sufficiente a ritenere certa e determinabile la voce di costo‘“.
Contro tale conclusione ricorreva in Cassazione l’Agenzia delle Entrate.
I giudici di legittimità ritenevano corretto il motivo di censura avanzato dall’Amministrazione, che contestava un errore di diritto in relazione agli artt. 75 e 62, c. 3, TUIR, nel testo vigente all’epoca.
I giudici di legittimità evidenziano infatti che “da tempo questa Corte ha affermato che le regole in materia di imputazione dei componenti negativi di reddito, in quanto poste a presidio di un procedimento di determinazione oggettiva del reddito di impresa, sono inderogabili e come tali sono sottratte alla disponibilità di parte, non potendo invero rimettersi all’arbitrio del contribuente la scelta del periodo d’imposta più vantaggioso per operare la deduzioni (27296/14; 16349/14; 18237/12)”.
E tra le regole predette va annoverato anche il disposto dell’art. 62, comma terzo, Tuir, vigente all’epoca (e comunque poi non modificato), applicabile agli amministratori delle società di capitali in forza del richiamo operato dall’art. 95, c. 1, Tuir, in base al quale “i compensi spettanti agli amministratori delle società in nome collettivo ed in accomandita semplice sono deducibili nell’esercizio in cui sono corrisposti“.
Era perciò errato il convincimento in senso difforme espresso dalla Commissione Tributaria Regionale, la quale aveva in pratica autorizzato, laddove giudicava corretta l’imputazione della componente negativa in esame nell’anno di assunzione della relativa deliberazione ancorchè l’erogazione fosse avvenuta nell’anno precedente, una palese alterazione del procedimento di determinazione del reddito di impresa, con l’effetto di avvallare, in definitiva, proprio quelle condotte operative che la normativa intende invece scongiurare.
Né, evidenziano ancora i giudici della Suprema Corte, in senso contrario potrebbe essere richiamato l’argomento secondo cui, parlando la norma di compensi “spettanti“, sarebbe doveroso riferire il predicato all’assunzione della deliberazione corrispondente, in quanto solo a seguito delle determinazioni che l’assemblea assume a mente dell’art. 2389 c.c. sorgerebbe il diritto degli amministratori al compenso ed esso si potrebbe considerare perciò spettante.
Una tale lettura non sarebbe infatti “esauriente poiché si sofferma solo su un profilo letterale della disposizione denunciata ed omette di considerare, più pregnantemente, che essa vincola la deducibilità all’esercizio in cui i compensi sono “corrisposti”, affermando in tal modo la decisa prevalenza in questa materia del principio di cassa su quello di competenza”.
Nè è poi trascurabile, ad ulteriore conforto dell’inderogabilità del disposto normativo, e, più ampiamente del fatto che deliberazione dei compensi e deducibilità degli stessi sono variabili non correlate, la circostanza che, per giurisprudenza costante, non solo l’amministrazione è legittimata a recuperare a tassazione parte del compenso corrisposto agli amministratori, quando esso appaia sproporzionato rispetto all’attività svolta (vedi Cass. 9036/13), ma anche, come pure si è affermato, riconoscendone anche in tal caso la deducibilità, che sono ininfluenti sulla debenza della remunerazione dovuta agli amministratori, gli eventuali vizi che inficiano la relativa deliberazione (vedi Cass. 15442/01).
La medesima Corte, con la sentenza n. 21953 del 28.10.2015, aveva del resto già espresso principi compatibili con tali conclusioni, affermando che la relazione che intercorre tra il vizio di invalidità della delibera assembleare ed i requisiti di deducibilità del costo dal reddito d’impresa nell’esercizio di competenza non deve essere rinvenuta nel fatto che la violazione della norma integri ex se una “condotta abusiva” del contribuente.
In materia tributaria, osserva il Collegio, l’indeducibilità dei costi non può infatti che rinvenirsi nella mancanza dei requisiti di certezza e determinabilità della spesa richiesti dall’art. 109 TUIR (all’epoca art. 75).
E la norma tributaria definisce il “momento” in cui vengono ad assumere rilevanza, ai fini della deducibilità, le spese relative all’acquisto di beni o servizi inerenti all’esercizio dell’attività d’impresa, specificando, quanto alle prestazioni di servizi, che “ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza le spese di acquisizione dei servizi si considerano sostenute alla data in cui le prestazioni sono ultimate”.
La norma evidentemente si riferisce alle spese, indicate nel primo comma, delle quali sia “certa la esistenza” e “determinabile in modo obiettivo l’ammontare”, con la conseguenza che, ove alla chiusura dell’esercizio di competenza non sia ancora possibile quantificare l’importo dovuto a fronte della prestazione ricevuta, la deduzione dal reddito potrà essere differita al successivo esercizio in cui l’ammontare del costo venga ad essere esattamente definito, dovendo precisarsi al riguardo che la “indeterminabilità” delle componenti negative del reddito d’impresa, non può dipendere da mere scelte rimesse alle parti.
Ciò che rileva, ai fini della deducibilità, sono in sostanza i requisiti di certezza e di oggettiva determinabilità dell’ammontare del costo.
E incombe comunque al contribuente l’onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza.
Atteso, in conclusione, che non si pongono dubbi circa la deducibilità del compenso amministrativo (al di là delle problematiche riguardanti la necessità della preventiva e specifica delibera di approvazione) resta poi la questione della deducibilità del compenso erogato all’amministratore della società che sia anche lavoratore dipendente della stessa, tenendo in considerazione che, ai sensi dell’art. 49 del Tuir, sono redditi di lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri.
La qualità di amministratore di una società di capitali è del resto compatibile con quella di lavoratore subordinato solo ove sia accertata l’attribuzione di mansioni diverse dalle funzioni proprie della carica sociale rivestita (Cass., Sez. lav., n. 329/2002).
E, come stabilito ancora dalla Suprema Corte, sotto il profilo tributario non sono deducibili dal reddito d’impresa le spese per prestazioni di lavoro dipendente rese da un membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali, se non è compiutamente dimostrata la sussistenza di un vincolo gerarchico di tale dipendente rispetto all’organo di amministrazione della società nel suo complesso (Cass. n. 22403/2014).
Nella valutazione della deducibilità di tali compensi, interviene, del resto, anche la necessaria valutazione di inerenza delle spese costituite, appunto, dagli stipendi corrisposti per remunerare ulteriori attività di lavoro dipendente svolte dal componente del consiglio di amministrazione.
Il giudizio attiene, in tal caso, al problema della compatibilità del ruolo di amministratore con quello di lavoratore dipendente, laddove la sovrapposizione delle predette funzioni nell’ambito della stessa società, potrebbe ritenersi ammissibile solo laddove sussista un vincolo di subordinazione e le attività svolta non rientrino già nel mandato di amministratore.
Pur riconoscendosi, dunque, che l’amministratore possa anche essere, in linea teorica, un lavoratore dipendente della società (con deducibilità della relativa retribuzione), tale commistione di funzioni è possibile solo a condizione che le prestazioni rese nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato siano estranee all’attività tipica di amministratore e che tale separazione sia evidente e provata, anche considerato che “la natura subordinata, anziché autonoma, del rapporto di lavoro non è presunta neppure juris tantum ma deve essere dimostrata dal soggetto che la deduce” (Cass., Sez. lavoro, sent. 17 giugno 1988, n. 4150, e 27 gennaio 1989, n. 524).
Se manca in tale asserito rapporto di lavoro, il vincolo di subordinazione, che è imprescindibile elemento costitutivo del rapporto di lavoro dipendente e che costituisce altresì il presupposto di cui all’art. 95 del Tuir per la deduzione del relativo costo e se la società non prova che l’amministratore svolge mansioni ed attività che possano ritenersi non comprese nel mandato di amministratore, gli avvisi di accertamento saranno allora legittimi.
Affinché, dunque, la prestazione di lavoro sia considerata come effettuata in regime di subordinazione, vi devono essere due condizioni essenziali:
– che le attività (mansioni) svolte in forza del contratto di lavoro siano diverse da quelle (funzioni) che sono attribuite allo stesso soggetto in quanto amministratore;
– che l’amministratore si trovi in posizione subordinata nei confronti della società.
Sul piano pratico e procedurale è quindi opportuno (il minus probatorio richiesto) in questi casi:
– specificare nella delibera che l’amministratore viene assunto per esercitare una attività diversa, e comunque estranea, ai suoi compiti di organo della società;
– indicare in maniera precisa e dettagliata oltre le mansioni attribuite e il relativo trattamento economico-normativo, anche il superiore gerarchico (che non può certo essere il collegio di cui lo stesso consigliere fa parte) cui il dirigente è sottoposto nell’espletamento delle sue mansioni.
Se (almeno) queste due condizioni non vengono rispettate (e provate) il relativo costo non è quindi ascrivibile a lavoro dipendente.
In particolare nel caso di amministratore delegato è quindi esclusa (salvo prova contraria) la possibilità che questi sia titolare anche di un rapporto di lavoro subordinato, dato che, in questo caso, il dirigente/amministratore esprime la volontà propria della società ed è titolare dei poteri di controllo, di comando e di disciplina.
5 aprile 2016