Come cambia il contenzioso su accertamenti e interpelli per società di comodo, non operative

questi soggetti sono presuntivamente ritenuti degli «schermi» giuridici volti a un utilizzo indebito delle regole tributarie che assistono le imprese [fiscalità analitica, detraibilità dell’IVA], fatta salva la possibilità di fornire adeguata dimostrazione circa la sussistenza di motivi di tipo oggettivo della situazione di non operatività

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bilancio calcolatrice tasseAspetti generali

Molto cambia a partire dal 2016 per le società c.d. non operative o di comodo, cioè per quei soggetti societari che non realizzano un certo ammontare di ricavi, che deve essere proporzionato agli asset patrimoniali detenuti [anche in forza di contratto di leasing].

Questi soggetti sono presuntivamente ritenuti degli «schermi» giuridici volti a un utilizzo indebito delle regole tributarie che assistono le imprese [fiscalità analitica, detraibilità dell’IVA], fatta salva la possibilità di fornire adeguata dimostrazione circa la sussistenza di motivi di tipo oggettivo della situazione di non operatività.

In un secondo momento la stessa presunzione e le stesse regole, in base alle quali viene chiesto alle società di dichiarare un «reddito minimo presunto», sono state estese alle società «in perdita sistemica», caratterizzate dalla produzione di perdite fiscali per più esercizi consecutivi [dapprima 3, in seguito 5].

La normativa primaria di riferimento in materia è rappresentata:

  • per le società non operative: dall’art. 30 della L. 23.12.1994, n. 724, modificato dapprima dal D.L. 4.7.2006, n. 223 (convertito dalla L. 4.8.2006, n. 248), e quindi dalla L. 27.12.2006, n. 296 e dalla L. 24.12.2007, n. 244;

  • per le società in perdita sistemica, dall’art. 2, commi da 36-quinquies a 36-duodecies, del D.L. 13.8.2011, n. 138, convertito dalla L. 14.9.2011, n. 148.

In sostanza:

  • la condizione di società non operativa («di comodo») scaturisce dalla presenza di un determinato volume di asset patrimoniali, con i quali vengono confrontati i ricavi della società («test di operatività»): se questi sono troppo bassi rispetto a un valore percentualmente determinato in base ai beni patrimoniali (immobilizzazioni), la società ha l’obbligo di dichiarare un reddito minimo presunto, anch’esso determinato percentualmente in base agli asset;

  • la condizione di società in perdita sistemica origina, a partire dal sesto periodo di imposta, dall’aver presentato cinque dichiarazioni fiscali in perdita consecutive all’interno del quinquennio di osservazione, ovvero quattro sole dichiarazioni in perdita, se nel rimanente periodo di imposta del quinquennio il reddito dichiarato è inferiore rispetto a quello minimo presunto ai sensi dell’art. 30 della L. n. 724/1994.

Nel contesto normativo precedente rispetto alle innovazioni apportate nel 2015 – di seguito analizzate -, le società non operative e in perdita sistemica potevano chiedere e ottenere la disapplicazione della norma restrittiva solo utilizzando la procedura di disapplicazione prevista dall’37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973 [soppresso dal c.d. decreto abuso o certezza del diritto].

La platea delle società rispetto alle quali trova applicazione la normativa speciale è stata circoscritta attraverso la previsione di una serie di cause di esclusione (radicale inapplicabilità), nonché di disapplicazione automatica senza necessità di presentare istanza all’amministrazione finanziaria.

Tali cause di disapplicazione automatica sono previste:

  • dal provvedimento direttoriale del 14.2.2008, n. 23681;

  • dal provvedimento direttoriale dell’11.6.2012, n. 87956.

Nelle pagine che seguono si prenderanno in considerazione i vari aspetti e le modalità di funzionamento delle nuove disposizioni normative che consentono alle società non operative e in perdita sistemica di liberarsi dalla presunzione legale relativa, alternativamente: o rendendo un’apposita dichiarazione nel modello Unico; [ovvero] producendo interpello «probatorio» a norma dell’art. 11, c. 1, lett. b), dello Statuto del contribuente.

Quando l’interpello era obbligatorio …

Nell’ambito della procedura di disapplicazione nella sua versione «storica», di cui all’abrogato art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600/1973, l’amministrazione finanziaria doveva compiere un’istruttoria orientata a stabilire se il soggetto considerato potesse essere o meno considerato come una struttura societaria finalizzata non a una vera e propria attività economica, bensì (secondo la ratio della presunzione introdotta dal legislatore) all’attuazione di schemi evasivi/elusivi/fraudolenti.

Secondo quanto era posto in luce nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 32/E del 14.6.2010, la procedura di disapplicazione si configurava come un interpello obbligatorio.

In particolare la procedura di disapplicazione era ritenuta obbligatoria in quanto manifestazione di una situazione di fatto la cui mancata conoscenza da parte dell’amministrazione finanziaria poteva costituire un ostacolo ai controlli.

In particolare, secondo quanto affermava la circolare:

«L’obbligo di presentazione dell’istanza, previsto dalla normativa di riferimento, risponde all’esigenza di consentire all’amministrazione finanziaria un monitoraggio preventivo in merito a particolari situazioni considerate dal legislatore potenzialmente elusive. Tra tali situazioni, a titolo di esempio, si possono ricondurre il possesso di una partecipazione in soggetti esteri localizzati in determinate giurisdizioni, la titolarità di un peculiare schema societario o l’attuazione di particolari operazioni di aggregazione aziendale.

L’obbligatorietà dell’istanza, in tali ipotesi, non muta il carattere non vincolante della risposta, quale atto avente natura di parere (cfr. circ. 7/E del 2009), né tanto meno preclude all’istante la possibilità di dimostrare anche successivamente la sussistenza delle condizioni che legittimano l’accesso al regime derogatorio. In tutti questi casi, infatti, le determinazioni dell’Agenzia rappresentano comunque un atto di indirizzo, indicativo dell’orientamento assunto dall’amministrazione, sulla base della documentazione fornita e/o richiesta, in ordine alla valutazione della sussistenza delle condizioni che autorizzano la disapplicazione della norma puntuale ovvero della disciplina che ordinariamente troverebbe applicazione».

E più avanti, in relazione alle sanzioni applicabili:

«nel corso dell’attività di controllo nei confronti dei soggetti che, pur in presenza di un obbligo normativo in tal senso, non hanno presentato istanza di interpello, in primo luogo sarà irrogata la sanzione prevista dall’art. 11, comma 1, lettera a) del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 (omissione di ogni comunicazione prescritta dall’Amministrazione finanziaria, punita con sanzione amministrativa da euro 258 ad euro 2065, diversamente graduata dagli uffici tenuto conto della situazione concretamente riscontrata). Il comportamento omissivo dei contribuenti che non presentano l’istanza, ove obbligatoria, incide, infine, anche sulla graduazione delle sanzioni ordinariamente applicabili qualora, in fase di accertamento, l’amministrazione rilevi, sulla base della documentazione in possesso del contribuente e del contraddittorio con quest’ultimo, l’insussistenza delle condizioni che legittimano la disapplicazione della disciplina, oggetto dell’interpello obbligatorio. Al riguardo, vale la pena precisare che l’analisi condotta dagli uffici non deve limitarsi alla mera constatazione del mancato rispetto di parametri quantitativi o di condizioni formali posti dal legislatore, ma deve mirare a verificare se gli elementi sostanziali addotti dal contribuente siano idonei a dimostrare l’effettiva sussistenza delle circostanze esimenti previste dalle norme di riferimento. In assenza di tale dimostrazione considerata la gravità del comportamento del contribuente che, omettendo la proposizione dell’interpello obbligatorio, ha sottratto al vaglio preventivo dell’amministrazione fattispecie che il legislatore tributario ritiene meritevoli di particolare tutela gli uffici applicheranno, in linea di principio, le sanzioni nella misura massima prevista dalla legge. Inoltre, nei suddetti casi di controlli effettuati nei confronti di soggetti che non hanno interpellato preventivamente l’amministrazione, gli uffici procedenti informano in ogni caso la Direzione regionale (che, se del caso, interessa la Direzione Centrale Normativa e la Direzione Centrale Accertamento)».

Insomma, era stato configurato un obbligo generale a pena di sanzioni amministrative per omessa comunicazione, e una connessa responsabilità sanzionatoria aggravata in sede di accertamento.

L’impatto della riforma

La riforma del 2015 cambia radicalmente tale impostazione, a favore della facoltatività dell’istanza, salvo però l’obbligo di fornire resoconto in dichiarazione dell’eventuale non operatività, la cui omissione o infedeltà viene sanzionata in via amministrativa.

In sostanza i contribuenti sono ora liberi di presentare ovvero di non presentare l’istanza di disapplicazione [che però nel nuovo sistema diviene interpello probatorio ex art. 11, primo comma, lett. c, della L. n. 212/2000], fatta salva l’indicazione in dichiarazione: nel caso in cui l’istanza non sia stata previamente presentata, la possibilità di fornire le dimostrazioni richieste dalla normativa speciale si spostano evidentemente nell’ambito del contraddittorio con l’ufficio finanziario.

Tale previsione deve essere collegata con quanto previsto dal c.d. decreto sanzioni – D.Lgs. 24.9.2015, n. 158, ai sensi del quale in caso di omessa / incompleta dichiarazione in dichiarazione risulta applicabile una sanzione amministrativa da 2.000 a 21.000 euro.

Tale sanzione doveva rendersi applicabile solo a partire dal primo gennaio 2017, ma la legge di stabilità 2017 ne anticipa la decorrenza al primo gennaio 2016.

In sostanza, per quanto sopra evidenziato:

  • il contribuente (società non operativa) ha la facoltà di presentare o di non presentare un’istanza di interpello intesa a dimostrare le ragioni oggettive della non operatività;

  • tuttavia, se non ha presentato l’istanza, ovvero riceve in tempo utile risposta non positiva (diniego o inammissibilità), è tenuto a dare indicazione di ciò nella dichiarazione dei redditi;

  • l’omessa o incompleta indicazione in dichiarazione è in tale ipotesi sanzionata in via amministrativa [sanzione da 2.000 a 21.000 euro].

Rimangono per ora irrisolte due questioni:

  • che ne è delle società in perdita sistemica, non contemplate dei nuovi schemi normativi?

  • L’omessa / incompleta / irregolare dichiarazione circa la situazione di non operatività potrà essere oggetto di ravvedimento lungo?

Il nuovo sistema fondato su dichiarazione e sanzioni

Nel qualificare talune tipologie di interpello come obbligatorie, la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 32/E del 2010 di fatto considerava questi interpelli come un preludio non incidentale, ma necessario, alle fasi successive del rapporto tra contribuenti e fisco.

Gli interpelli ritenuti obbligatori dall’amministrazione erano quelli:

  • finalizzati all’ottenimento «di un parere favorevole all’accesso ad un regime derogatorio (in talune ipotesi anche agevolativo) rispetto a quello legale, normalmente applicabile»;

  • resi necessari dall’esigenza «di consentire all’amministrazione finanziaria un monitoraggio preventivo in merito a particolari situazioni considerate dal legislatore potenzialmente elusive».

La circolare riteneva essere obbligatorie le istanze relative alle CFC, quelle riferite in generale alla disapplicazione specifica di norme antielusive [art. 37-bis, ottavo comma, del D.P.R. n. 600/1973] e quelle riguardanti la disapplicazione della normativa speciale in materia di società non operative [che rappresentavano una «sottospecie» delle istanze disapplicative, mentre attualmente vengono collocate tra le istanze «probatorie»].

Il decreto interpello n. 156/2015 ha innovato l’art. 30 della L. n. 724/1994, stabilendo che:

  • nel comma 4-bis, le parole «la società interessata può chiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi dell’articolo 37-bis, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600» sono sostituite dalle seguenti: «la società interessata può interpellare l’amministrazione ai sensi dell’articolo 11, comma 1, lettera c) della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante lo Statuto dei diritti del contribuente»;

  • nel comma 4-ter, le parole «in presenza delle quali è consentito disapplicare le disposizioni del presente senza dover assolvere all’onere di presentare l’istanza di interpello di cui al comma 4-bis» sono sostituite dalle seguenti: «non trovano applicazione le disposizioni di cui ai commi precedenti»;

  • il comma 4-quater è sostituito dal seguente: «4-quater. Il contribuente che ritiene sussistenti le condizioni di cui al comma 4-bis ma non ha presentato l’istanza di interpello prevista dal medesimo comma ovvero, avendola presentata, non ha ricevuto risposta positiva deve dame separata indicazione nella dichiarazione dei redditi».

Il riferimento è ora all’interpello di cui alla lettera b) del comma 1 dell’art. 11, ossia ai quesiti che attengono alla «sussistenza delle condizioni e la valutazione della idoneità degli elementi probatori richiesti dalla legge per l’adozione di specifici regimi fiscali nei casi espressamente previsti».

La prima dichiarazione utile ai fini delle nuove disposizioni normative è per i soggetti con esercizio e periodo di imposta solare Unico 2016, relativo al periodo di imposta 2015.

Secondo quanto è posto in luce nella relazione introduttiva al decreto, «gli interpelli delle società di comodo, attualmente ricondotti nell’alveo degli interpelli disapplicativi, presentano caratteristiche che li rendono più correttamente assimilabili agli interpelli probatori (…). Per le società e gli enti non operativi ai sensi dell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1994, n. 724, infatti, l’accesso al regime ordinario di tassazione è subordinato alla dimostrazione non già della assenza di effetti elusivi non altrimenti specificati dalla legge (come richiesto dal comma 2 del nuovo articolo 11, dello Statuto, che riprende sul punto la formulazione dell’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo certezza), ma alla sussistenza delle situazioni oggettive che, ai sensi del comma 4-bis del citato articolo 30, hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi, nonché del reddito determinati presuntivamente ai sensi del medesimo articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto di cui al comma 4».

Il nuovo quadro normativo è completato dal decreto sanzioni [D.Lgs. 24.9.2015, n. 158].

In particolare il nuovo comma 3-quinquies dell’art. 8 del D.Lgs. n. 471/1997 – inserito dall’art. 15, primo comma, lett. h), n. 4), del citato decreto sanzioni, individua, nel contesto delle disposizioni volte a punire le eventuali omissioni o incompletezze dei dati della dichiarazione, una sanzione fissa (da 2.000 a 21.000 euro) applicabile nei casi in cui il contribuente non abbia provveduto a effettuare le segnalazioni richieste da:

  • l’articolo 113, comma 6, del TUIR, in relazione alle partecipazioni acquisite per il recupero di crediti bancari;

  • l’articolo 124, comma 5-bis, del TUIR, in ordine alla continuazione del consolidato nazionale;

  • l’articolo 132, comma 5, del TUIR, relativo al consolidato mondiale;

  • l’articolo 30, comma 4-quater, della legge 30 dicembre 1994, n. 724 per le società di comodo;

  • l’articolo 1, comma 8 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, in tema di Aiuto per la crescita economica (ACE)1.

Nell’ambito della disciplina dei dividendi e delle plusvalenze esteri black list [art. 110, comma 7, TUIR] e delle CFC [artt. 47, 68, 87 TUIR], risulta invece applicabile una sanzione amministrativa speciale rispettivamente pari al 10% dei dividendi e delle plusvalenze e al 10% del reddito imputabile dal soggetto estero, con un minimo di 1000 e un massimo di 50.000 euro.

Gli effetti delle nuove normative

In buona sostanza, dal coordinamento tra le disposizioni normative di riferimento discende che:

  1. l’istanza di disapplicazione non è più obbligatoria per le società non operative (snop);

  2. apparentemente, in attesa di successive modifiche o indicazioni, essa è ancora obbligatoria per le società in perdita sistemica (sps);

  3. i soggetti non operativi secondo le disposizioni dell’art. 30 della L. n. 724/1994 sono tenuti a fornire di ciò adeguata comunicazione in dichiarazione dei redditi [prevedibilmente con riferimento ai periodi di imposta dal 2015 in poi per i soggetti solari];

  4. l’omissione o incompletezza della comunicazione rende applicabili le sanzioni tributarie sopra indicate.

Occorre altresì tener conto del fatto che il c.d. interpello disapplicativo non circoscriverà più la materia delle società non operative, che nel contesto del nuovo interpello sarà oggetto della diversa procedura «probatoria». Ciò equivale al riconoscimento che le disposizioni anti – snop non sono antielusive, limitandosi a precludere, in presenza di determinate circostanze [la non operatività della società, appunto], l’accesso al più favorevole regime di impresa.

Afferma relativamente alla categoria degli interpelli probatori la relazione di accompagnamento al decreto interpello che essa include diverse tipologie di istanze già conosciute dall’ordinamento, e consiste in una richiesta all’amministrazione finalizzata a ottenere un parere sulla sussistenza delle condizioni o sulla idoneità degli elementi probatori offerti dal contribuente ai fini dell’adozione di un determinato regime fiscale.

La procedura consente la valutazione dei requisiti di accesso a determinati regimi fiscali, con formula molto ampia, anticipando l’attività che ordinariamente l’amministrazione svolge in sede di accertamento (con più vasti poteri di acquisizione di dati ed elementi di prova).

Il riferimento all’accesso a un determinato regime fiscale va interpretato in senso ampio, come comprensivo dei casi in cui si tratti della non operatività di determinate limitazioni o regole speciali. Ecco quindi che talune tipologie di quesiti, che nel regime ante riforma rientravano tra gli interpelli «disapplicativi» (come accade, appunto, per le snop), vengono ora condotte al contesto «probatorio».

Le attività di accertamento

Il rapporto tra interpello ordinario e attività di accertamento è causa di numerosi interrogativi, che in parte sono stati risolti dalla prassi dell’amministrazione finanziaria.

Come è noto, l’istituto dev’essere preventivo, ed è stato ritenuto incompatibile con le situazioni nelle quali il contribuente stia subendo un’attività di controllo fiscale in relazione alle problematiche sulle quali verte il quesito.

Il carattere della preventività, in tale contesto, si pone come una garanzia rispetto alla possibilità che l’amministrazione renda una risposta positiva rispetto a comportamenti che verrebbero «censurati» in sede di controllo: è infatti evidente l’inopportunità che una fase autoritativa dell’attività del fisco, come quella del controllo tributario e dell’accertamento, venga prevaricata da un’attività di consulenza specifica, come quella dell’interpello.

L’intervento – successivo o contestuale – difforme rispetto all’operato degli organismi di controllo e accertamento [reparti della Guardia di Finanza e uffici locali, regionali o centrali dell’Agenzia delle Entrate], potrebbe infatti porsi come una revoca non prevista degli atti compiuti in sede di verifica e accertamento.

Per tale motivo è non solamente opportuno, ma necessario, che l’amministrazione abbia piena cognizione delle pendenze fiscali di coloro che ad essa si rivolgono in sede di interpello. Soprattutto quando queste problematiche riguardano un periodo recente e questioni identiche o simili a quella che è oggetto del quesito.

In sede di controllo, poi, l’amministrazione dovrà tener conto degli effetti dei pareri da essa resi quale organismo di consulenza, che sono essenzialmente preclusivi nei confronti delle attività ispettive e accertative difformi, salva la possibilità di revoca, la quale però non potrà certamente essere strumentale all’apertura di un’attività di controllo fiscale.

Per i c.d. grandi contribuenti [imprese con cento e più milioni di ricavi e/o volume d’affari all’anno] il controllo successivo del comportamento conforme – o difforme – rispetto all’indirizzo dell’Agenzia delle Entrate è stato addirittura codificato da norme di diritto positivo [art. 27, comma 13, D.L. n. 185/2008].

La tutela giuridica

Il diritto di interpello si pone quale procedura fisiologicamente estranea rispetto all’ambito del contenzioso: in esso si tratta infatti di intervenire in via preventiva, con la finalità di escludere una possibile vertenza tra il contribuente e il fisco pervenendo a una soluzione comune condivisa, o almeno a una via di mezzo [quando l’assenso del fisco rispetto alla soluzione interpretativa prospettata dall’istante è solo parziale].

Ciò nonostante, giacché esso genera nel contribuente delle aspettative, meritevoli di considerazione almeno sotto il profilo della tutela del legittimo affidamento, ci si è chiesto se, avverso il parere emesso dalla direzione regionale o dalla direzione centrale Normativa, possa essere ammessa una forma di tutela in sede giurisdizionale [tributaria o amministrativa].

Al riguardo è opportuno considerare che:

  • di fronte al silenzio dell’amministrazione finanziaria, per l’interpello ordinario – e ora anche per le altre tipologie di interpello [art. 11, comma 3, L. n. 212/2000 nel testo innovato a opera del D.Lgs. n. 156/2015] il silenzio è «significativo», causando effetti vincolanti per la parte (e, quindi, escludendo alla radice l’interesse a ricorrere);

  • di fronte a un’eventuale risposta negativa resa dall’amministrazione, il contribuente può comunque disattendere l’orientamento espresso dal fisco, e la successiva attività di controllo e/o di accertamento sarebbe solamente eventuale, garantendo ogni possibilità di opposizione in sede amministrativa e giudiziale (adesione, autotutela, acquiescenza, ricorso alla CTP, etc.).

Per quanto riguarda la procedura di disapplicazione specifica di disposizioni antielusive – di cui al soppresso art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. 600/1973 -, le istanze sono state invece spesso oggetto di impugnazioni, che hanno condotto a diverse pronunce in sede di legittimità.

Su tale procedura, che veniva impiegata per le istanze «disapplicative» in materia di società di comodo [ora ricondotte nell’alveo degli interpelli probatori] e in perdita sistemica, si registrava un disallineamento tra la posizione delle Corti [che ritenevano il parere impugnabile, ancorché non compreso nell’elenco dell’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992] e quella dell’Agenzia delle Entrate, che lo riteneva non impugnabile.

Per quanto attiene alla possibilità di impugnare atti non espressamente indicati nel predetto elenco dell’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992, e all’estensione della giurisdizione delle commissioni tributarie, merita evidenziare che la sentenza delle SS.UU. della Cassazione Civile del 10.8.2005, n. 16776, ha affermato quanto segue: «l’art. 12, comma 2, della L. 28 dicembre 2001, n. 448, ha stabilito che appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie, o relative alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari e agli interessi ed ogni altro accessorio».

La giurisdizione tributaria è così divenuta – all’interno del proprio ambito – una giurisdizione a carattere generale, competente ogni qual volta si controverta su uno specifico rapporto tributario, o su sanzioni inflitte da uffici tributari.

Nell’ambito delle norme generali sul procedimento amministrativo, l’art. 2, primo comma, della legge 11.2.2005, n. 15, recante «Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa», ha introdotto la possibilità di impugnare sempre e comunque il silenzio-inadempimento (art. 2, comma 4-bis, L. 7.8.1990, n. 241).

Dice infatti la norma che «decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso il silenzio, ai sensi dell’articolo 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, e successive modificazioni, può essere proposto anche senza necessità di diffida all’amministrazione inadempiente fin tanto che perdura l’inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 o 3. È fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti».

Gli effetti penali dell’interpello

A norma dell’art. 16 del D.Lgs. n. 74/2000, non erano punibili le condotte di quei contribuenti che, avvalendosi della procedura di cui all’art. 21, commi 9 e 10, della L. n. 413/1991, si fossero adeguati ai pareri espressi dal Ministero delle Finanze (allo stato, dalla direzione centrale Normativa dell’Agenzia delle Entrate), ovvero dal (soppresso) Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive.

Inoltre, qualora si fosse formato il silenzio-assenso per mancata risposta nei termini stabiliti, non costituiva reato l’aver compiuto le operazioni di natura tributaria nei termini indicati nell’istanza di interpello.

Tale previsione normativa è stata abrogata – con decorrenza 22.10.2015 – a opera dell’art. 14 del decreto sanzioni n. 158/2015.

Tale scriminante trovava la propria ratio nell’impossibilità di ravvisare l’elemento soggettivo del dolo specifico di evasione in presenza di un’istanza preventiva rivolta all’amministrazione, alla quale vi fosse stata risposta positiva [implicita – tramite il silenzio significativo -, ovvero esplicita].

Pur non essendo stata estesa all’interpello ordinario introdotto dall’art. 11 della L. n. 212/2000, la medesima scriminante avrebbe dovuto operare «di fatto» anche in tale contesto, poiché l’interpello ordinario prevedeva [e prevede] la sottoposizione al fisco di un’ipotesi interpretativa, opportunamente descritta in tutti i suoi aspetti, causando, tra l’altro, in caso di risposta positiva o di silenzio–assenso, la nullità degli atti impositivi o sanzionatori difformi.

Riguardo all’ipotesi di non punibilità in parola, era stato osservato che la previsione di una scriminante non poteva di per sé significare che i comportamenti elusivi erano sanzionabili sotto il profilo penale.

La sanzionabilità penale delle ipotesi di elusione è ora esclusa in forza del comma 13 dell’art. 10-bis dello Statuto del contribuente, come inserito dal D.Lgs. n. 128/2015 [certezza del diritto].

Nella circolare n. 50/E del 2001, l’espressa menzione della rilevanza penale per il solo interpello antielusivo ha generato in taluni il dubbio che, invece, l’interpello ordinario non potesse esplicare alcun effetto penale [vantaggioso].

Ben difficilmente, però, potrà essere riscontrato il dolo di evasione nei confronti di un contribuente che si sia limitato a realizzare un’operazione approvata in via preventiva dall’Amministrazione.

L’intervento del 2015

Secondo quanto è ora stabilito – con vigenza dal primo gennaio 2016 – dal decreto interpello, tutte le istanze, a eccezione di quelle di cui al comma 2 dell’art. 11 [interpelli disapplicativi] non sono impugnabili.

Per queste uniche istanze impugnabili, il ricorso può essere presentato unitamente al successivo ed eventuale atto impositivo. Ciò significa che la risposta a interpello viene ritenuta inidonea a incidere direttamente su situazioni giuridiche soggettive del contribuente, come un atto prodromico che viene assorbito dall’avviso di accertamento o rettifica.

La previsione circa l’impugnabilità delle istanze disapplicative appare giustificata dalla constatazione che esse rimangono, appunto, obbligatorie e la loro omissione è suscettibile di dar luogo al recupero di imposta, alle sanzioni dichiarative e agli interessi.

Se è stata fornita risposta a queste istanze disapplicative, al di fuori dei casi di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 156/2015 [casi di inammissibilità], senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice, l’atto di accertamento avente ad oggetto deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta, o altre posizioni soggettive del soggetto passivo è preceduto, a pena di nullità, dalla notifica di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di 60 giorni.

Si tratta di una previsione simile a quella che assisteva il vecchio interpello antielusivo, per effetto della quale il procedimento di accertamento non poteva essere perfezionato dall’amministrazione se non concedendo al contribuente la possibilità di manifestare le proprie ragioni con apposite «controdeduzioni».

La richiesta di chiarimenti deve essere notificata dall’amministrazione ai sensi dell’art. 60 del D.P.R. n. 600/1973 entro il termine di decadenza previsto per la notificazione dell’atto impositivo [il 31 dicembre del quarto anno a partire da quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata; del quinto anno nel caso di dichiarazione omessa].

Tra la data di ricevimento dei chiarimenti, ovvero di inutile decorso del termine assegnato al contribuente per rispondere alla richiesta, e quella di decadenza dell’amministrazione dal potere di notificazione dell’atto impositivo intercorrono non meno di 60 giorni.

In difetto, il termine di decadenza per la notificazione dell’atto impositivo è automaticamente prorogato, in deroga a quello ordinario, fino a concorrenza dei 60 giorni.

L’atto impositivo deve essere specificamente motivato, a pena di nullità, anche in relazione ai chiarimenti forniti dal contribuente.

È altresì stabilito dal D.Lgs. n. 156/2015 [art. 6, comma 3] che «le disposizioni di cui all’articolo 32, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 e all’articolo 52, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 non si applicano a dati, notizie, atti, registri o documenti richiesti dall’amministrazione nel corso dell’istruttoria delle istanze di interpello».

Ciò significa, secondo il dossier di documentazione predisposto dal Servizio bilancio della Camera dei Deputati [n. 189/1 del 14.9.2015], che l’amministrazione finanziaria può prendere in considerazione [a favore del contribuente] anche la documentazione non trasmessa nel corso dell’istruttoria delle istanze di interpello, così derogando a quanto prescritto dall’art. 32, quarto comma, del D.P.R. n. 600/1973 in materia di accertamento e dall’art. 52, quinto comma, del D.P.R. n. 633/1972 in materia di IVA.

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8 febbraio 2016

Fabio Carrirolo

1 Per quanto riguarda la sanzione in parola e i termini di entrata in vigore delle nuove disposizioni relative alle sanzioni amministrative tributarie [D.Lgs. n. 158/2015] si fa rinvio ai sottoparagrafi 1.4.2. e 3.2.3.