La complessa deducibilità fiscale del compenso amministratore, la congruità e modalità di determinazione

la deducibilità del compenso amministratore dal reddito d’impresa genera spesso contenzioso fra il Fisco ed i contribuenti in forma societaria: partendo da un caso di giurisprudenza, ricostruiamo l’evoluzione delle norme del TUIR, la prassi dell’Agenzia nelle contestazioni, la congruità e gli esiti giurisprudenziali più comuni

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21953 del 28.10.2015, ha espresso principi particolarmente interessanti in tema di presupposti per la deducibilità dei compensi degli amministratori.

Nel caso di specie, una s.r.l., società controllata da altra s.p.a. attraverso la partecipazione da questa detenuta in una terza società, portava in deduzione nell’esercizio di competenza i costi sostenuti per il pagamento dei compensi ad alcuni componenti del Consiglio di amministrazione, fatturati da tre società del Gruppo di imprese per conto delle quali dette persone fisiche avevano svolto l’incarico.

L’Amministrazione Finanziaria recuperava dunque a tassazione IRPEG ed IVA tali costi, ritenuti indeducibili in quanto non determinati nello Statuto, nè deliberati preventivamente dall’assemblea della s.r.l., in violazione dell’art. 2389 c.c. e dunque da considerarsi “non certi nell’esistenza e neppure obiettivamente determinabili”, come richiesto dall’art. 109 TUIR e dall’art. 19 Dpr n. 633/72.

La Commissione tributaria provinciale di Lucca annullava l’atto impositivo.

La Commissione Tributaria Regionale della Toscana confermava la decisione di primo grado, rigettando l’appello principale dell’Ufficio.

I Giudici di secondo grado rilevavano infatti che non vi erano impedimenti alla determinazione ex post del compenso degli amministratori, disposta con la delibera assembleare di approvazione del bilancio di chiusura dell’esercizio, e che, in assenza di contestazione da parte dell’Ufficio finanziario in ordine alla congruità della spesa, la inerenza del costo e dunque la sua deducibilità da parte della società contribuente non veniva meno, essendo irrilevante la relazione di controllo societario, e l’appartenenza di della s.r.l. ad gruppo di imprese, tenuto conto che in entrambi i casi permaneva la distinzione di soggettività giuridica tra le diverse società appartenenti al gruppo e tra la società controllante e quella controllata, essendo del tutto indifferente alla disciplina fiscale che gli amministratori fossero stati o meno nominati direttamente dalla Capogruppo, o dalle società per conto delle quali gli stessi operavano, così come era del tutto indifferente che i compensi fossero stati versati direttamente alle società, anziché alle persone fisiche, atteso che, in ogni caso, i pagamenti eseguiti venivano a configurarsi per la società contribuente come costi inerenti e quindi deducibili.

Correttamente, inoltre, secondo la CTR, i primi Giudici avevano ritenuto dovuta l’IVA sui compensi agli amministratori, in quanto corrispettivi per “prestazioni di servizi” rese dalle società del Gruppo, che avevano emesso le fatture e per conto delle quali gli amministratori avevano svolto l’incarico presso la società contribuente, con conseguente inapplicabilità della disposizione dell’art. 5 co 2 Dpr n. 633/72, che poneva fuori campo IVA le collaborazioni coordinate e continuative di cui all’art. 53 TUIR.

Ricorrendo in Cassazione l’Agenzia delle Entrate deduceva quindi il vizio di violazione dell’art. 109 TUIR e dell’art. 2389 c.c., nel testo vigente ratione temporis.

Osservava quindi il Collegio che le norme che regolavano la materia, nel testo anteriore alla riforma del diritto societario introdotta dal D.Lgs. 17.1.2003 n. 6, prevedevano, ai sensi dell’art. 2364, c. 1, n. 3, c.c. (applicabile anche alle società a responsabilità limitata, in virtù dell’espresso rinvio contenuto nell’art. 2486 c. 2 c.c.), che l’assemblea “determina il compenso degli amministratori e dei sindaci, se non è stabilito nell’atto costitutivo”, mentre l’art. 2389 c.c., c.1 (applicabile anche alle società a responsabilità limitata, in virtù dell’espresso rinvio contenuto nell’art. 2487 c. 2 c.c.), disponeva che “i compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti nell’atto costitutivo o dall’assemblea”.

La modifica di tali norme, in seguito alla riforma del Dlgs n. 6/2003 entrata in vigore l’1 gennaio 2004, non ha del resto apportato significativi mutamenti, essendo attualmente prevista dall’art. 2364 c. 1, n. 3, c.c., la competenza a deliberare della assemblea ove il compenso non sia stato stabilito nello “statuto”, e disponendo l’art. 2389 c. 1 c.c. che il compenso deve essere stabilito nell’atto costitutivo, o “all’atto della nomina” deliberata dalla assemblea ordinaria dei soci ex art. 2383 co l c.c. (ovvero “all’atto della nomina” del componente del consiglio di amministrazione, o del componente del comitato esecutivo, da parte dei soggetti estranei alla società, indicati nell’art. 2383 c. 1 c.c.).

A seguito della riforma del diritto societario, le norme che disciplinano la “amministrazione” (artt. 2475 – 2476 c.c.) e le “decisioni dei soci” (artt. 2479 – 2479-ter c.c.) nelle società a responsabilità limitata, non contengono però più il precedente rinvio disposto dagli artt. 2486 e 2487 c.c. alle norme di cui agli artt. 2364 e 2389 c.c. in materia di società per azioni: tale soluzione trova giustificazione nella maggiore snellezza della organizzazione e del funzionamento, che il Legislatore ha inteso riconoscere alla società a responsabilità limitata, privilegiando le disposizioni pattizie, rispetto alle quali le norme di legge assumono efficacia suppletiva, venendo meno, pertanto, non, evidentemente, la necessità della previsione, nell’atto costitutivo (art. 2463 c. 2 nn. 7 – 8 c.c.), ovvero con delibera assembleare (artt. 2475 c. 1 e 2479 c. 2 n. 2 c.c.), della nomina degli amministratori e della determinazione dei relativi compensi, quanto piuttosto l’esigenza di tutela dei diritti patrimoniali dei soci, che richiede l’apposita previsione di forme vincolate nell’esercizio dei poteri che possono comportare l’assunzione di oneri patrimoniali particolarmente onerosi per la società.

Nel caso di specie, pertanto, essendo costituita la contribuente nella forma della società a responsabilità limitata, l’Ufficio finanziario, contestando la violazione dell’art. 2389 c.c., nella interpretazione che di tale norma aveva fornito la Corte già con la sentenza resa a SS.UU. in data 29.8.2008 n. 21933, aveva preso in considerazione la disciplina normativa delle società vigente nell’anno 2003, cui si riferiva la spesa sostenuta dalla contribuente, ed in relazione alla normativa previgente aveva, infatti, svolto le proprie difese, criticando la statuizione del Giudice tributario, e risultando pertanto irrilevante la sopravvenuta inapplicabilità dell’art. 2389 c.c. alle società a responsabilità limitata.

Tanto premesso, la designazione, da parte di società del gruppo che esercitano indirettamente il controllo, delle persone nominate nel consiglio di amministrazione, non assumeva in realtà rilevanza in ordine alla questione controversa, come sembrava, invece, ritenere l’Agenzia fiscale, che richiamava anche la disposizione dell’art. 2475 c. 1 c.c. nel testo riformato, per prospettare l’invalidità della assunzione della carica di amministratore da parte di persone fisiche estranee alla composizione sociale della società ed espressione di altre società del Gruppo di imprese. Ed infatti, da un lato, per le ragioni suddette la norma introdotta dal D.lgs. n. 6/2003 non trovava applicazione ratione temporis alla fattispecie; e dall’altro la questione prospettata, anche considerando la disposizione del previgente art. 2487 c. 1 c.c. (di identico tenore), non considerava che la norma è ed era derogabile (“Salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo…”), laddove dalla lettura della sentenza di appello risultava che “… la funzione di controllo ed organizzazione aziendale nelle società del gruppo è infatti espressamente prevista nell’oggetto sociale…” (idest: nell’atto costitutivo era espressamente contemplata la possibilità di nomina di amministratori estranei alla composizione sociale), essendo quindi del tutto legittima la nomina alla carica sociale di persone estranee alla compagine sociale e designate da altre società del Gruppo.

Secondo i giudici di legittimità, “la violazione dell’art. 2389 c.c., inficia invece, in modo insanabile, la validità della delibera assembleare di approvazione del bilancio nella parte in cui approva la determinazione dei compensi degli amministratori”, liquidati con fatture emesse dalle società “designanti”, attesa la interpretazione che di tale norma ha fornito la Corte, nella richiamata sentenza a sezioni unite.

L’esigenza di un’espressa previsione statutaria o di una specifica delibera assembleare avente ad oggetto la determinazione dei compensi degli amministratori, nel regime normativo antevigente la riforma del D.lgs. n. 6/2003, è stata, infatti, ritenuta funzionale a garantire la piena trasparenza e la previa conoscenza di tutti i soci della relativa voce di spesa, in quanto elemento essenziale del rapporto fiduciario che presiede all’affidamento dell’incarico di amministrazione; esigenza che si ritiene soddisfatta soltanto attraverso la previsione di una specifica manifestazione volitiva dell’assemblea dei soci, diretta all’assunzione dell’onere patrimoniale connesso al funzionamento dell’organo di direzione della società.

Ne segue pertanto, conclude la Corte, che debbono essere sanzionati con l’invalidità gli atti degli organi societari diversi dalla delibera della assemblea, così come quelli da delibera assembleare assunta in modo difforme dalla previsione dell’art. 2389 c.c., come avvenuto nel caso di specie, in cui la liquidazione delle somme da erogare agli amministratori era stata meramente indicata in una delle voci di spesa del bilancio di chiusura esercizio presentato alla approvazione dell’assemblea.

Il vizio di invalidità (limitato alla determinazione dei compensi) della delibera assembleare di approvazione del bilancio assunta in violazione dell’art. 2389 c.c., non deve ricondursi, del resto, nella categoria del vizio di invalidità-annullabilità, ex art. 2377 c. 2 c.c. (che può essere opposto soltanto dai soggetti legittimati, ed è suscettibile di convalida), nè in quella del vizio di invalidità-nullità ex art. 2379 c.c., concernente la “impossibilità od illiceità dell’oggetto” (che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile anche d’ufficio), ma piuttosto alla fattispecie della nullità generale, di cui all’art. 1418, c. 1, c.c., per contrarietà a norma imperativa, in quanto “la disciplina di cui all’art. 2389 c.c. (dettata in continuità con l’orientamento legislativo tradizionale, risalente all’art. 154, n. 4 del codice di commercio del 1882) ha certamente natura imperativa e inderogabile, sia perché, in generale, la disciplina della struttura e del funzionamento delle società regolari sono dettate (anche) nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività commerciale e industriale del Paese, sia perché, in particolare, la loro violazione, in particolare la percezione di compensi non previamente deliberati dall’assemblea, era prevista dall’art. 2630 c.c., comma 2, n. 1 (abrogato dal D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, art. 1) come delitto che non poteva certo essere scriminato dalla approvazione del bilancio successiva alla consumazione. È pertanto evidente che la violazione dell’art. 2389 c.c., sul piano civilistico, da luogo a nullità degli atti di autodeterminazione dei compensi da parte degli amministratori per violazione di nonna imperativa, nullità che, per il principio stabilito dall’art. 1423 c.c., non è suscettibile di convalida, in mancanza di una norma espressa che disponga diversamente” (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 21933 del 29/08/2008).

Le conclusioni cui sono pervenute le SS.UU., dalle quali il Collegio, nella sentenza in esame, non si discosta, censurano, pertanto, la sostanziale violazione delle competenze attribuite alla assemblea generale dei soci (organo societario attraverso il quale si realizza la garanzia della tutela della minoranza), e dunque la difformità assoluta dallo schema legale del procedimento di formazione della volontà dell’ente collettivo, con la conseguenza che l’atto negoziale adottato in difformità è affetto da “nullità assoluta ed insanabile”, atteso che l’entità del compenso viene – di fatto – ad essere (auto)determinata dagli stessi amministratori (dovendo esclusivamente ad essi imputarsi la redazione del bilancio), non potendo l’ammontare del compenso fatturato in alcun modo ricondursi alla volontà della assemblea, fatta salva la sola eccezione in cui venga fornita “la prova che, approvando il bilancio, l’assemblea sia a conoscenza del vizio e abbia manifestato la volontà di far proprio l’atto posto in essere dall’organo privo di potere, non essendo invece sufficiente, in quanto circostanza non univoca, la generica delibera di approvazione” del bilancio.

Il procedimento di formazione della volontà assembleare, in materia di determinazione dei compensi degli amministratori, potrebbe quindi essere riconosciuto valido (nel caso in cui il compenso fosse stato liquidato in sede di delibera di approvazione del bilancio di chiusura dell’esercizio annuale) soltanto se un’assemblea totalitaria fosse stata chiamata a discutere, in tale occasione, anche su tale specifico argomento posto all’ordine del giorno (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 21933 del 29/08/2008).

Nel caso di specie, invece, non era stata fornita prova alcuna che, in sede di convocazione dell’assemblea dei soci della s.r.l., indetta per l’approvazione del bilancio esercizio 2003, fosse stato specificamente inserito, tra gli oggetti posti all’ordine del giorno, anche la determinazione del compenso da liquidare agli amministratori, o che tale questione fosse stata, comunque, espressamente discussa in un’assemblea che prevedeva la partecipazione totalitaria dei soci.

Tanto premesso, la relazione che intercorre tra il vizio di invalidità della delibera assembleare ed i requisiti di deducibilità del costo dal reddito d’impresa nell’esercizio di competenza, questione cui è strettamente connessa anche quella della indetraibilità dell’IVA liquidata nelle fatture emesse dalle società indirettamente controllanti, non deve essere rinvenuta (diversamente da quanto sosteneva l’Agenzia, nella funzione “antielusiva” svolta dall’art. 2389 c.c.) tale per cui la violazione della norma integrerebbe ex se una “condotta abusiva” del contribuente, ovvero nell’elemento ritenuto sintomatico dell’affidamento degli incarichi di amministrazione a persone estranee alla compagine sociale, in difformità dalla prescrizione dell’art. 2487 c. 1 c.c..

Quanto al primo aspetto, sottolinea la Suprema Corte, è sufficiente infatti osservare come la funzione antielusiva della imposta sia del tutto estranea alla ratio legis che presiede alla sanzione di nullità di diritto civile di cui all’art. 2389 c.c. e che si rivolge, piuttosto, a tutelare la inderogabilità delle norme che regolano il procedimento formativo della volontà dell’ente collettivo, su determinate specifiche materie riservate alla assemblea dei soci.

Mentre il secondo argomento, sostenuto dall’Agenzia, si palesava del tutto privo di riscontri, non essendo stato neppure allegato dalla ricorrente che l’atto costitutivo non conteneva disposizioni derogatorie alla norma dell’art. 2487 c.c..

Ne seguiva che, in difetto di contestazione da parte della Amministrazione finanziaria di puntuali elementi circostanziali connotativi di una condotta integrante “abuso di diritto”, in quanto rivolta, in via esclusiva o assolutamente principale, ad ottenere surrettiziamente, attraverso l’impiego di strumenti negoziali formalmente leciti, il conseguimento di indebiti vantaggi fiscali, nè l’art. 2389 c.c., nè l’art. 2487 c.c., consentivano di escludere, alla stregua della legislazione vigente al tempo, che una società appartenente ad un gruppo di imprese potesse “mettere a disposizione” di altra società del medesimo gruppo (della quale detenesse direttamente od indirettamente il controllo) propri collaboratori o lavoratori dipendenti, o persone ad essa in altro modo legate, per svolgere l’incarico di amministratore nella società controllata, ricorrendo allo schema del “distacco” di personale (laddove il contratto di lavoro del dipendente della società controllante prevedesse tale mansione), ovvero anche obbligandosi contrattualmente a fornire, mediante impiego del proprio personale, una “prestazione di servizi dietro pagamento di un corrispettivo” avente ad oggetto lo svolgimento del predetto incarico per un periodo determinato.

Escluso, pertanto, che la mera violazione dell’art. 2389 c.c. possa dare luogo, ex se, ad un fenomeno di “abuso del diritto” in materia tributaria, osserva il Collegio che l’indeducibilità, nell’esercizio anno 2003, dei costi dal reddito imponibile ai fini IRPEG non può che rinvenirsi nella mancanza dei requisiti di certezza e determinabilità della spesa richiesti dall’art. 109 TUIR (all’epoca art. 75). Il requisito di “certezza” od esistenza della spesa, deve infatti ricondursi al momento della formazione del titolo giuridico in cui trova fonte l’obbligazione patrimoniale della società (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 17568 del 09/08/2007; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 18237 del 24/10/2012), e nella specie il titolo in questione, indipendentemente dalla questione se il rapporto fosse intercorso con le persone fisiche che avevano assunto gli incarichi sociali, ovvero, secondo la tesi accolta dai Giudici di appello, con le società del gruppo designanti che avevano esercitato i poteri di direzione e coordinamento del gruppo di imprese, era risultato affetto da vizio di invalidità insanabile, dato che, come detto, il contratto stipulato dall’amministratore della società in materia riservata per legge o dallo statuto alla competenza dell’organo assembleare, in difetto di preventiva e valida delibera dell’assemblea dei soci, è affetto “non da mera inefficacia, secondo la disciplina dell’atto posto in essere dal rappresentante senza poteri, ovvero da mera annullabilità, in base alle regole sul difetto di capacità a contrattare, ma da nullità assoluta e insanabile, deducibile da chiunque vi abbia interesse e rilevabile d’ufficio(cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 10869 del 01/10/1999; id. Sez. 1, Sentenza n. 9901 del 24/04/2007; id. Sez. L, Sentenza n. 14963 del 07/07/2011., Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 21933 del 29/08/2008; id. Sez. 5, Sentenza n. 17673 del 19/07/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 20265 del 04/09/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 5349 del 07/03/2014).

E’ noto del resto anche al Collegio, come gli stessi giudici evidenziano in sentenza, che la tesi della comunicabilità del vizio di nullità della delibera dell’organo sociale al contratto stipulato dalla società con i terzi non riceve unanime consenso in dottrina, sostenendo parte di questa che i vizi concernenti i limiti del potere di gestione degli amministratori, riverberano esclusivamente nell’ambito dei rapporti sociali interni, senza incidere sull’esercizio del potere rappresentativo e cioè della manifestazione di volontà della società esplicante effetti nei rapporti esterni con i terzi.

Ma, evidenziano ancora i giudici, anche a volere ritenere che le persone fisiche designate dalle società controllanti abbiano effettivamente svolto i compiti di amministratore, traendo origine tale incarico (ed il conferimento dei relativi poteri) nella delibera di nomina della assemblea dei soci, ovvero nella nomina disposta direttamente dalle stesse società controllanti, difetterebbe comunque, nel caso di specie, il requisito di “determinabilità in modo obiettivo dell’ammontare” della spesa.

Ed infatti, se anche l’invalidità della delibera assembleare, assunta in violazione dell’art. 2389 c.c., non esplicasse alcun riflesso sul requisito di “certezza” del titolo di spesa, essa inciderebbe tuttavia direttamente sull’altro requisito della deducibilità del costo nell’esercizio di competenza.

La norma tributaria definisce infatti il “momento” in cui vengono ad assumere rilevanza, ai fini della deducibilità, le spese relative all’acquisto di beni o servizi inerenti all’esercizio dell’attività d’impresa, specificando, quanto alle prestazioni di servizi, che “ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza le spese di acquisizione dei servizi si considerano sostenute alla data in cui le prestazioni sono ultimate”.

La norma evidentemente si riferisce alle spese, indicate nel primo comma, delle quali sia “certa la esistenza” e “determinabile in modo obiettivo l’ammontare”, con la conseguenza che, ove alla chiusura dell’esercizio di competenza non sia ancora possibile quantificare l’importo dovuto a fronte della prestazione ricevuta, la deduzione dal reddito potrà essere differita al successivo esercizio in cui l’ammontare del costo venga ad essere esattamente definito, dovendo precisarsi al riguardo che la “indeterminabilità” delle componenti negative del reddito d’impresa, non può dipendere da mere scelte rimesse alle parti e non può quindi ravvisarsi per il solo fatto che il creditore del contribuente non abbia quantificato la propria pretesa (ma questa sia comunque agevolmente determinabile secondo i criteri legali o contrattali), ovvero non abbia emesso la fattura per le prestazioni erogate, ma solo quando tale quantificazione risulti impedita da circostanze obiettive (Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 16819 del 30/07/2007).

Orbene, concludono in definitiva i giudici di legittimità, la determinazione del compenso/corrispettivo per lo svolgimento di incarichi di amministrazione nella società di capitali, nel caso in cui non sia prestabilita nell’atto costitutivo, ovvero in apposita delibera dell’assemblea, non può evidentemente essere compiuta unilateralmente dal creditore, ma richiede necessariamente il consenso manifestato dalla società mediante una formale deliberazione dell’assemblea dei soci, essendo irrilevante al riguardo il “fatto compiuto” della appostazione in bilancio degli importi fatturati, atteso il vizio di nullità insanabile del consenso sul quantum del compenso prestato con la delibera assembleare di approvazione del bilancio, non conforme alla prescrizione dell’art. 2389 c.c..

In sostanza, a chiusura dell’esercizio dell’anno 2003, la s.r.l. esponeva un “debito certo“, nei confronti delle persone fisiche/società del gruppo, in relazione alle prestazioni ricevute, ma di ammontare non liquidabile in modo obiettivo, in difetto di qualsiasi parametro di determinabilità “ex ante” dell’importo dei compensi, non risultando stabilito convenzionalmente dalle parti, nella delibera di nomina degli amministratori od in altro contratto di lavoro autonomo o di servizio stipulato inter partes, alcun criterio di calcolo, e non essendo stato determinato l’importo, anteriormente alla chiusura dell’esercizio di competenza, mediante integrazione giudiziale ai sensi dell’art. 2233 c.c. (non potendo, peraltro, neppure soccorrere il rinvio all’applicazione diretta delle tariffe professionali: Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 22046 del 17/10/2014, che sottrae il rapporto di immedesimazione organica tra l’amministratore e la società alla disciplina del contratto d’opera intellettuale o non intellettuale, escludendo quindi la “automatica” applicazione nella determinazione del compenso delle tariffe collegi professionali; conf. id. Sez. 2, Sentenza n. 22761 del 27/10/2014), con la conseguenza che il costo relativo ai compensi dovuti agli amministratori, per le prestazioni rese nell’anno 2003, rimaneva “indeterminabile” nel quantum, dovendo ritenersi, pertanto, legittima la contestazione dell’Ufficio in ordine alla indeducibilità dal reddito d’impresa delle somme liquidate nelle fatture emesse dalle società controllanti per difetto dei requisiti di cui all’art. 109 TUIR.

La Corte dava quindi risposta affermativa al quesito di diritto formulato dall’ Agenzia, essendo incorsa in errore di diritto la CTR laddove aveva ritenuto deducibile nell’esercizio di competenza (anno 2003) la spesa sostenuta per compensi agli amministratori, sebbene difettassero i requisiti di certezza e di oggettiva determinabilità dell’ammontare del costo, sia in considerazione della invalidità del titolo di spesa, sia in difetto di indicazione nell’atto costitutivo dei criteri di liquidazione, non essendo stato preventivamente stabilito l’importo dei compensi dalla delibera dell’assemblea dei soci, richiesta ai sensi degli artt. 2364 c. 1 n. 3 e 2389 c.c., nel testo vigente ratione temporis, e neppure essendo stata deliberata la misura dei compensi, in sede di approvazione del bilancio, a seguito di specifica discussione e con la partecipazione totalitaria dei soci.

Ad integrazione delle importanti considerazioni della Corte, giova inoltre anche aggiungere quanto segue.

Rientra sicuramente nei poteri del Fisco la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa, con possibile negazione della deducibilità di un costo ritenuto insussisten­te o sproporzionato, non essendo l’Ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indica­ti nelle delibere sociali o nei contratti.

E incombe comunque al contribuente l’onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza.

Di conseguenza, va riaffermato che la deducibilità dei compensi degli amministratori non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o contratti (cfr. in senso conforme, Cass. Sez. V, Sent. N. 13478 del 30/10/2001; Cass. Sent. n. 12813 del 27/09/2000), rientrando nei normali poteri dell’ufficio la verifica dell’attendibilità economica delle rappresentazioni esposte nel bilancio e nella dichiarazione.

20 gennaio 2016

Giovambattista Palumbo