Prelevamenti bancari non giustificati e possessori di reddito di lavoro autonomo

presentiamo un quadro aggiornato delle norme e della giurisprudenza in tema di indagini finanziarie dopo l’intervento della Corte Costituzionale: ecco come i giudici si stanno adeguando ai dettami della Consulta

 

Aspetti generali

I controlli bancari e finanziari rappresentano una delle più incisive modalità di indagine a disposizione degli uffici dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza, e possono combinarsi con le modalità sintetiche di determinazione del reddito soprattutto laddove risulta difficile procedere a una ricostruzione fondata sui dati economici di un’attività ufficiale.

Mentre i tradizionali metodi di accertamento (analitico, induttivo, analitico-induttivo) poggiano su basi consolidate (tendono tutti alla ricostruzione dei redditi e del volume d’affari o dei corrispettivi sulla base delle condizioni di esercizio dell’attività svolta dall’impresa o dal professionista), la modalità istruttoria (eventualmente integrativa rispetto a tali metodologie) fondata sui controlli bancari/finanziari tende al reperimento diretto delle manifestazioni di reddito, cioè della disponibilità di denaro, in capo al contribuente.

A incisività (e invasività) naturalmente dovrebbe corrispondere la massima attenzione e cautela ricostruttiva, oltre alla disponibilità a tener conto delle ragioni dei contribuenti manifestate nel contraddittorio con gli organismi verificatori e accertatori.

La situazione dei professionisti in particolare risulta poi interessata da una problematica relativa alla possibilità stessa di applicare le presunzioni alla base dei controlli di tipo finanziario: come verrà infatti di seguito illustrato, la Corte Costituzionale ha dichiarato per tali soggetti l’illegittimità del principio in base al quale i prelevamenti ingiustificati si assumono costituire acquisti «in nero». Questa tematica viene qui esaminata con riferimento alla successiva giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Le disposizioni di riferimento

Le norme che legittimano l’amministrazione fiscale (allo stato, l’Agenzia delle Entrate, oltre che la G.U.F. nell’ambito delle proprie funzioni di polizia tributaria) a controllare i conti e i rapporti intrattenuti dai contribuenti con istituti di credito, o con la società Poste Italiane S.p.a., sono riconducibili:

  • per l’IVA, all’art. 51, c. 2 n. 7, del D.P.R. 26.10.1972, n. 633;

  • per le imposte sui redditi, agli artt. 32, c. 1, n. 7, e 33, cc. 2, 3 e 6, del D.P.R. 29.9.1973, n. 600.

Le indagini finanziarie si inseriscono, secondo lo schema di funzionamento dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 51 del D.P.R. n. 633/1972, in un contesto di presunzioni legali relative, suscettibili di prova contraria da parte del contribuente in sede di controllo e accertamento (prova che può essere prodotta e valorizzata sia in sede di contraddittorio nell’ambito della verifica, sia successivamente, avanti l’ufficio accertatore).

Secondo la circolare n. 1/2008 della G.d.F., la concreta operatività delle presunzioni risulta subordinata alla sussistenza dei seguenti presupposti:

  • attivazione ed esecuzione delle indagini secondo la procedura «codificata» nelle norme e nella prassi;

  • dimostrazione che, sia ai fini delle imposte sui redditi sia dell’IVA, si è tenuto conto dei dati risultanti dalla documentazione finanziaria e bancaria o dell’irrilevanza degli stessi, ovvero (soltanto per i prelevamenti non risultanti dalle scritture contabili), indicazione espressa del beneficiario della movimentazione.

Il contribuente può essere invitato dagli organismi verificatori affinché, di persona o a mezzo di rappresentante, possa far valere le proprie ragioni (contraddittorio); le richieste fatte e le risposte ricevute devono risultare da un verbale sottoscritto o che riporti il motivo della mancata sottoscrizione, del quale il contribuente ha diritto di ricevere una copia. La mancanza di tale passaggio non degrada la presunzione legale prevista dalla norma a presunzione semplice; il contribuente non è tuttavia leso in un proprio diritto, giacché le spiegazioni utili a consentire la definizione della sua posizione potranno essere fornite più avanti, nel corso del procedimento amministrativo di accertamento o avanti il giudice tributario.

L’archivio dei rapporti in breve

Mediante l’art. 2, cc. 14, 14-bis e 14-ter, D.L. 30.9.2005, n. 203, convertito dalla L. 2.12.2005, n. 248, l’art. 7, c. 6, del predetto decreto è stato integrato con la previsione di specifici obblighi in relazione alla clientela delle banche e degli operatori finanziari.

Con l’intervento del D.L. 4.7.2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla L. 4.8.2006, n. 248, è stato previsto per le banche, la società Poste italiane S.p.a., gli intermediari finanziari, le imprese di investimento, etc., l’obbligo di comunicare all’anagrafe tributaria gli estremi dei rapporti (e non solamente dei conti) intrattenuti con i propri clienti, destinati all’archiviazione in un’apposita sezione dell’anagrafe tributaria (c.d. «archivio dei rapporti»).

Attualmente gli intermediari inviano ogni mese, attraverso il servizio Entratel o Fisconline, i dati anagrafici di coloro che hanno instaurato rapporti di natura finanziaria all’archivio dei rapporti. Non è prevista l’indicazione del numero di rapporto, ma soltanto quella della sua esistenza e natura; pertanto, gli operatori segnalano i clienti collegandoli a una chiave informatica biunivoca tra l’Agenzia delle Entrate e l’intermediario segnalante.

In relazione agli stessi rapporti, gli intermediari devono poi inviare anche una comunicazione annuale attraverso l’infrastruttura SID (sistema di interscambio dati), con i dati contabili dei rapporti, il numero del rapporto e le suddette chiavi univoche assegnate nell’invio mensile a ciascuno dei soggetti partecipanti al rapporto.

Con decorrenza dal primo gennaio 2016, gli operatori finanziari dovranno utilizzare un nuovo tracciato unificato secondo le indicazioni del provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate 10.2.2015, che modifica i precedenti del 25.3.2013 e del 20.12.2010, individuando inoltre le nuove scadenze per l’invio delle informazioni 2013 e 2014 e fissando quella ordinaria al 15 febbraio dell’anno successivo1.

La prassi anteriore alla pronuncia della Consulta

Nelle precisazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate (circolare n. 32/E del 19.10.2006, par. 5.4) era seguita un’interpretazione rigorosa delle norme che estendevano ai professionisti le presunzioni in base alle quali le movimentazioni finanziarie in uscita dal conto venivano assunte, salvo prova contraria, come «compensi» (perché sintomo di acquisti «in nero»).

In tale contesto, dovevano quindi essere considerate «alla stessa stregua dei prelevamenti» anche le operazioni fuori conto del cambio di assegni o di valute, nonché altre operazioni « che non si realizzano – attraverso l’intermediario – in versamenti a favore di se stesso o di altri beneficiari».

Era altresì sottolineato dall’Agenzia che anche relativamente ai prelevamenti dei professionisti dovevano valere gli stessi principi assunti relativamente all’efficacia probatoria dei versamenti e dei prelevamenti consentita per le imprese.

In considerazione degli effetti particolarmente pesanti associati alle presunzioni in esame, l’Agenzia raccomandava agli uffici fiscali di astenersi «da una valutazione degli elementi acquisiti (…) particolarmente rigida e formale, tale da trascurare le eventuali dimostrazioni, anche di natura presuntiva, che trattasi di spese non aventi rilevanza fiscale sia per la loro esiguità, sia per la loro occasionalità e, comunque, per la loro coerenza con il tenore di vita rapportabile al volume di affari dichiarato».

A tale proposito, la circolare n. 32/E richiamava e confermava i principi espressi nella precedente circolare 4.8.2006, n. 28/E, secondo la quale «i contribuenti interessati possono ritenersi sollevati dall’onere di fornire la predetta dimostrazione in relazione a prelievi che, avuto riguardo all’entità del relativo importo ed alle normali esigenze personali o familiari, possono essere ragionevolmente ricondotte nella gestione extra-professionale».

La dichiarazione di incostituzionalità

L’art. 32, D.P.R. n. 600/1973, nella versione modificata dalla L. 30.12.2004, n. 311, ha esteso ai professionisti il trattamento precedentemente riservato alle sole imprese, stabilendo l’inversione dell’onere della prova in sede di accertamento se il professionista non riesce a giustificare gli accreditamenti/addebitamenti sul conto corrente «verificato».

Sulla questione è di recente intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza 6.10.2014, n. 228, di seguito brevemente ripresa e commentata.

Si rammenta che la vertenza in seno alla quale veniva sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, n. 2), secondo periodo, del D.P.R. 29.9.1973, n. 600, aveva a oggetto tre avvisi di accertamento emessi in relazione al periodo di imposta 2004.

Il giudice rimettente rilevava che:

  • la disposizione introdotta dalla L. n. 311/2004, introducendo anche per i lavoratori autonomi la presunzione in base alla quale i prelevamenti sono considerati compensi, ha comportato un onere probatorio retroattivo impossibile da assolvere, in contrasto con l’art. 24 della Costituzione e con il principio di tutela dell’affidamento richiamato dall’art. 3, secondo comma, dello Statuto del contribuente, oltre che con gli artt.. 3 e 111 della Carta fondamentale;

  • la presunzione in base alla quale le somme prelevate dal conto corrente costituiscono compensi assoggettabili a tassazione violava altresì il principio di capacità contributiva [artt. 3 e 53 Cost.], in quanto per il reddito da lavoro autonomo non valgono le correlazioni logico-presuntive tra costi e ricavi tipiche del reddito d’impresa.

La Corte Costituzionale ha affermato al riguardo che la questione era fondata con riferimento alle censure di cui agli artt. 3 e 53 Cost. [capacità contributiva], con il conseguente assorbimento di quelle relative agli artt. 24 e 111 Cost. [retroattività e diritto di difesa].

Secondo le argomentazioni espresse, «anche se le figure dell’imprenditore e del lavoratore autonomo sono per molti versi affini nel diritto interno come nel diritto comunitario, esistono specificità di quest’ultima categoria che inducono a ritenere arbitraria l’omogeneità di trattamento prevista dalla disposizione censurata, alla cui stregua anche per essa il prelevamento dal conto bancario corrisponderebbe ad un costo a sua volta produttivo di un ricavo».

Insomma: per l’impresa è ragionevole ritenere che la somma prelevata sia stata utilizzata per l’acquisizione, non contabilizzata o non fatturata, di fattori produttivi e che tali fattori abbiano prodotto beni o servizi venduti a loro volta senza essere contabilizzati o fatturati.

Ma l’attività svolta dai lavoratori autonomi – al contrario – si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e per la marginalità dell’apparato organizzativo, che diviene «quasi assenza nei casi in cui è più accentuata la natura intellettuale dell’attività svolta, come per le professioni liberali».

«Si aggiunga che la non ragionevolezza della presunzione è avvalorata dal fatto che gli eventuali prelevamenti (che peraltro dovrebbero essere anomali rispetto al tenore di vita secondo gli indirizzi dell’Agenzia delle entrate) vengono ad inserirsi in un sistema di contabilità semplificata di cui generalmente e legittimamente si avvale la categoria; assetto contabile da cui deriva la fisiologica promiscuità delle entrate e delle spese professionali e personali».

Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, n. 2), secondo periodo, del D.P.R. n. 600/1973, la Corte ha puntualizzato che la presunzione in rassegna [prelevamenti = compensi] «è lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito».

La sentenza della Cassazione

Successivamente alla pronuncia di incostituzionalità si registra una posizione della Corte di Cassazione – sentenza Cass. 10.6.2015, n. 12021 – che ponendo in luce alcuni aspetti della problematica ha disposto l’annullamento della parte di accertamento fondata sulle risultanze di indagini bancarie fondate sulla «presunzione prelevamenti = compensi» nei confronti di un amministratore di condominio.

La vicenda trae origine da un contenzioso nel quale era stata utilizzata la normativa sopra richiamata, con la presunzione legale relativa in base alla quale, per i lavoratori autonomi, i prelevamenti con destinazione indimostrata erano assunti come compensi non contabilizzati.

In particolare il terzo motivo di ricorso per cassazione proposto dal contribuente si imperniava sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 32, primo comma, n. 2), del D.P.R. n. 600/1973, dell’art. 51, n. 2), del D.P.R. n. 633/1972 e dell’art. 2697 c.c., con l’affermazione che la CTR avrebbe dovuto disapplicare tale normativa nel testo applicabile catione tempario, perché i verificatori non avevano mai «prodotto una qualche presunzione che potesse ricondurre uno solo dei prelievi o versamenti all’attività di amministratori di beni immobili e/o d’impresa».

Faceva altresì presente il contribuente che i percettori di quanto prelevato erano stati tutti individuati, e ciò dimostrava che le somme in discussione non costituivano reddito non dichiarato.

Il motivo di ricorso è stato ritenuto fondato dalla Cassazione, la quale ha puntualizzato che il contribuente, svolgente la professione di amministratore di immobili per conto terzi, era un lavoratore autonomo, nei confronti del quale la presunzione legale doveva ritenersi inesistente, essendo stata dichiarata illegittima da Corte cost. n. 228 del 2014.

Considerazioni di sintesi

La sentenza della Corte Costituzionale, recepita dalla Cassazione, rappresenta una presa d’atto della natura difforme del lavoratore autonomo rispetto all’impresa, sicché mentre quest’ultima si qualifica generalmente per l’organizzazione profusa dall’imprenditore (allo scopo della produzione e/o dello scambio di beni e servizi), il lavoro autonomo, specialmente professionale, si qualifica per l’elemento personale / soggettivo che entra in gioco e che giustifica la produzione del reddito.

Ancorché in una prospettiva comunitaria / IVA non possa negarsi che impresa e professioni convergono nel produrre (beni) e servizi, il nostro legislatore deve quindi avere ben presente l’elemento distintivo di tipo organizzatorio.

Questa è anche la questione che sta alla base delle problematiche IRAP sollevate, sempre sulla base della lettura della Carta fondamentale compiuta dalla Consulta, in ordine all’autonoma organizzazione di artisti e professionisti.

In definitiva: è chiarissimo che gli esercenti attività libero professionali sono essenzialmente dei lavoratori dotati di competenze personali, e solo marginalmente possono disporre di un’organizzazione di mezzi strumentali; l’impresa è invece in primo luogo una struttura, dotata di una qualche organizzazione (di mezzi, persone, rapporti), attraverso la quale produce ed eroga beni e/o servizi.

8 settembre 2015

Fabio Carrirolo

1 Cfr. Sonia Angeli, «Archivio dei rapporti finanziari: comunicazioni con tracciato unico», FiscoOggi – 10.2.2015.