Operazioni inesistenti: a fronte delle presunzioni del Fisco la palla passa al contribuente

Oramai la giurisprudenza è concorde: a fronte della contestazione dell’inesistenza di un’operazione da parte del Fisco basata su presunzioni semplici, è il contribuente a dover provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate.

Con la sentenza n. 8634 del 29 aprile 2015 (ud. 12 dicembre 2014, e in senso sostanzialmente conforme con le sentenze n.8635 e 8636 di pari data) la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi di fatture per operazioni inesistenti.

 

Il principio espresso

In apertura la Corte rileva che la fattura è,

“di regola (salva l’ipotesi di contabilità inattendibile), documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa, come si evince dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, purchè sia redatta in conformità ai requisiti di forma e contenuto ivi prescritti; normalmente, pertanto, una regolare fattura, lasciando presumere la verità di quanto in essa rappresentato, costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’IVA e della deduzione del costo indicato”.

In tali casi, osserva la Corte,

“a fronte della esibizione di una tale fattura spetta all’Ufficio dimostrare (anche attraverso presunzioni semplici) il difetto delle condizioni per la detta detrazione o deduzione e, in particolare, che la fattura concerna operazioni oggettivamente inesistenti, e cioè sia una mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno; in tal caso, pertanto, l’Ufficio ha l’onere di fornire elementi probatori del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata (ad esempio provando che la società emittente a fattura è una ‘cartiera’)”.

Dopo però, precisa la Corte, la palla passa al contribuente:

“a questo punto passa sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate ma siffatta prova non può consistere (per quanto su precisato) nella esibizione della fattura o nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono infatti normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (su tale punto, v. anche Cass. 12802/20111)”.

 

 

Operazioni inesistenti ed onere della prova – Breve nota

Più volte abbiamo avuto di evidenziare su queste pagine la posizione della Corte di Cassazione in materia di operazioni inesistenti, posizione che ha sostanzialmente preso avvio dalla sentenza n. 21953 del 21 settembre 2007 (dep. il 19 ottobre 2007), che ha negato l’esistenza di un presunto contrasto interno in ordine al soggetto che deve assolvere la prova:

“le sentenze che vengono abitualmente citate a sostegno della teoria secondo cui l’onere della prova graverebbe sull’Amministrazione, in realtà non contengono affatto simile asserzione.

Ed invero poiché le operazioni passive denunciate dal contribuente sono fonte di credito a suo vantaggio (nell’ambito dell’Iva) di detrazione dall’imponibile (nell’ambito delle imposte sui redditi), appare logico concludere che spetta al contribuente fornire la prova dell’esistenza di fatti da cui scaturisce un suo diritto”.

 

La tesi, affermata dalla Corte nella sentenza n. 21953/2007, è ribadita nella pronuncia n. 17799 del 21 agosto 2007,

“secondo cui l’onere per il contribuente di provare la veridicità delle fatture scatta soltanto quando gli organi di controllo fiscale adducono elementi che fanno almeno sospettare della non veridicità delle fatture; ed è assurda la tesi secondo cui tutte le fatture si presumerebbero false fino a prova contraria offerta dal contribuente”.

Prosegue la Corte che

“viene abitualmente citata come in contrasto con l’indirizzo finora esposto la sentenza n. 7144 del 23 marzo 2007 secondo cui in tema di Iva, ove l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture perché relative a prestazioni inesistenti, spetta al contribuente l’onere di provare la legittimità e la correttezza dell’operazione mediante l’esibizione dei relativi documenti contabili.

Pertanto, quando costui non è in grado di dimostrare la fonte che giustifica la detrazione, questa deve ritenersi indebita, sicché legittimamente l’ufficio provvede a recuperare a tassazione l’imposta irritualmente detratta (a questa sentenza può accostarsi la pronuncia n. 16896 del 31 luglio 2007)”.

Pertanto, qualora l’amministrazione finanziaria fornisca validi elementi, anche presuntivi, per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni fittizie, si sposta sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate.

 

Come puntualmente rilevato dalla Suprema Corte nell’ordinanza n. 27547 del 19 dicembre 2011 (ud. 13 ottobre 2011)1, l’orientamento giurisprudenziale che assegnava all’ufficio l’onere della prova è ormai superato, ad opera della stessa Cassazione che ha ormai da tempo2 affermato che qualora l’Amministrazione contesti al contribuente che alcune fatture sono state emesse per operazioni inesistenti, incombe sul contribuente stesso dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni.

 

Principio ribadito con la sentenza n. 17959 del 24 luglio 2013 (ud. 17 ottobre 2012), secondo cui

“una volta che l’amministrazione abbia fornito oggettivi elementi di prova, anche indiziari, in ordine all’inesistenza dell’operazione o all’inattendibilità della scrittura addotta dal contribuente a base della richiesta di detrazione, sarà il contribuente a dovere offrire la prova circa la verità ed inerenza dell’operazione medesima – v. Cass. n. 12802/2011; Cass. n. 5282/2011”.

 

E con la sentenza n. 7650 del 2 aprile 2014 (ud. 27 gennaio 2014) la Corte di Cassazione ha ritenuto che l’assenza della dotazione minima per la fornitura della prestazione costituisce prova di mancata effettuazione della prestazione.

Per la Corte, se

“la fattura è documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa, …. ed … essa può certamente costituire una prova a favore dell’imprenditore o del professionista, nei rapporti con il fisco…”

è pur vero che

“in ipotesi di fatture che l’Ufficio ritenga relative ad operazioni oggettivamente, o anche solo soggettivamente, inesistenti, o che – ancorchè effettivamente poste in essere – si iscrivono in combinazioni negoziali fraudolente ai danni del fisco, l’Amministrazione stessa ha l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere, o non lo è stata tra i soggetti che figurano nella fattura, o che tale documento sottende un’operazione fraudolenta cui il cessionario sia partecipe.

E non può revocarsi in dubbio che tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l’IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 39, comma 1, lett. d)) (cfr. Cass. 21953/07, che fa riferimento alla possibilità che l’amministrazione produca elementi anche indiziari, a sostegno della pretesa fiscale azionata; Cass. 9108/12; 15741/12, in motivazione; 23560/12; 27718/13; nello stesso senso C.Giust. 6.7.06, C-439/04, C.Giust., 21.2.06, C-255/02; C.Giust. 21.6.12, C-80/11; C.Giust. 6.12.12, C-285/11; C. Giust. 31.1.13, C-642/11)”.

Prosegue la Corte, affermando che è di tutta evidenza che –

“ nel caso di operazioni oggettivamente inesistenti – è escluso in radice che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente, il quale sa bene se una determinata fornitura di beni o prestazione di servizi l’ha effettivamente ricevuta o meno)”.

La Corte, quindi, ribadisce il principio più volte affermato (cfr. Cass. nn. 8132/2011 e 23074/2012) secondo cui

“qualora l’Amministrazione contesti al contribuente – come nel caso di specie – l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, e fornisca attendibili riscontri indiziari sull’inesistenza delle operazioni fatturate, ricade sul contribuente medesimo l’onere di dimostrare la fonte legittima della detrazione, altrimenti non operabile.

Il cessionario, in particolare, ha l’onere di dimostrare almeno, anche in via alternativa, di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto, oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta in occasione dell’operazione contestata, di non essere stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all’operazione”.

Per la Corte, pertanto,

“non è sufficiente dedurre, da parte del contribuente, che la merce sia stata consegnata e la fattura, IVA compresa, sia stata effettivamente pagata, trattandosi di circostanze pienamente compatibili con il modello di frode fiscale, posto in essere mediante un’operazione soggettivamente inesistente (Cass. 17377/09; 230744/12).

E tanto meno può considerarsi sufficiente la dimostrazione della regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta – com’è del tutto evidente – di dati e circostanze facilmente falsificabili dal contribuente (cfr. Cass. 1950/07, 12802/11)”.

Nel caso di specie,

frode carosello tramite cartiera“non giova affatto alla contribuente – al contrario di quanto erroneamente ritenuto dal giudice di appello – dedurre e comprovare l’avvenuto pagamento delle fatture e l’effettivo ricevimento della merce, a fronte di elementi di forte spessore indiziario e presuntivo, forniti in giudizio dall’Amministrazione finanziaria, e consistenti nella totale assenza, presso le società ‘cartiere’, di strutture e mezzi idonei a consentire loro di effettuare le forniture oggetto delle fatture in contestazione.

Elementi di fatto, questi, della cui sussistenza effettiva, peraltro, neppure il giudice di appello ha mostrato di dubitare in alcun modo.

Ed invero, come dianzi detto, l’immediatezza dei rapporti tra la apparente cedente della merce acquistata dalla contribuente e quest’ultima – comprovata dai due processi verbali di constatazione – induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole della cessionaria circa l’avvenuto versamento dell’IVA a soggetto non legittimato alla rivalsa, né assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta.

Con la conseguenza che, in siffatta ipotesi – contrariamente a quanto affermato dalla CTR -, avrebbe dovuto la contribuente provare di non essere a conoscenza della circostanza che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri, dovendosi – in mancanza – negare il diritto alla detrazione dell’IVA versata.

Il che appare, poi, vieppiù evidente nelle ipotesi – come quella ricorrente nel caso di specie – in cui gli acquisti di merce vengano sistematicamente, e per ingenti quantitativi operati presso le società c.d. cartiere”.

 

E con la sentenza n. 18767 del 5 settembre 2014 (ud. 23 giugno 2014) la Corte di Cassazione osserva che,

“in ipotesi di fatture che l’Ufficio ritenga relative ad operazioni oggettivamente, o anche solo soggettivamente, inesistenti, o che – ancorchè effettivamente poste in essere – si iscrivono in combinazioni negoziali fraudolente ai danni del fisco, l’Amministrazione stessa ha l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere, o non lo è stata tra i soggetti che figurano nella fattura, o che tale documento sottende un’operazione fraudolenta cui il cessionario sia partecipe.

E non può revocarsi in dubbio che – al contrario di quanto ritenuto, nella specie, dal giudice di appello – tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l’IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d)) (cfr. Cass. nn. 21953/2007, che fa riferimento alla possibilità che l’amministrazione produca elementi anche indiziari, a sostegno della pretesa fiscale azionata; 9108/2012; 15741/2012, in motivazione; 23560/2012; 27718/2013; nello stesso senso C. Giust. 6.7.2006, C-439/04; 21.2.2006, C-255/02; 21.6.2012, C-80/11; 6.12.2012, C-285/11; 31.1.2013, C-642/11)”.

Prosegue la sentenza ricordando che

“questa Corte ha rilevato, al riguardo, che la prova, fornita dall’Amministrazione, che la prestazione non è stata effettivamente resa dal fatturante, perchè sfornito della, sia pur minima, dotazione personale e strumentale adeguata alla sua esecuzione, costituisce di per sè, per la sua pregnanza dimostrativa, idoneo elemento sintomatico dell’assenza di ‘buona fede’ del contribuente.

L’immediatezza dei rapporti (cedente o prestatore-fatturante-cessionario o committente) induce, invero, ragionevolmente ad escludere in via presuntiva – a fronte di una conclamata inidoneità allo svolgimento dell’attività economica – l’ignoranza incolpevole del cessionario o committente circa l’avvenuto versamento dell’IVA a soggetto non legittimato alla rivalsa, nè assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta.

In tal caso, sarà – di conseguenza – il contribuente a dover provare, in applicazione di principi ordinari sull’onere della prova vigenti nel nostro ordinamento (art. 2697 c.c.), di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri, dovendosi altrimenti negare il diritto alla detrazione dell’IVA versata (Cass. n. 6229/2013)”.

E quindi, la Corte, richiama il principio più volte espresso, secondo cui

“qualora l’Amministrazione contesti al contribuente – come nel caso di specie – l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, e fornisca attendibili riscontri indiziari sull’inesistenza delle operazioni fatturate, ricade sul contribuente medesimo l’onere di dimostrare la fonte legittima della detrazione, altrimenti non operabile.

Il cessionario, in particolare, ha l’onere di dimostrare almeno, anche in via alternativa, di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto, oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta in occasione dell’operazione contestata, di non essere stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti coinvolti nell’evasione (Cass. nn. 8132/2011; 23074/2012).

A tal fine, per le ragioni suesposte, non è – tuttavia – sufficiente dedurre, da parte del contribuente, che la merce sia stata consegnata e la fattura, IVA compresa, sia stata effettivamente pagata, trattandosi di circostanze pienamente compatibili con il modello di frode fiscale, posto in essere mediante un’operazione soggettivamente inesistente (Cass. nn. 17377/2009; 230744/2012).

E tanto meno può considerarsi sufficiente la dimostrazione della regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta – com’è del tutto evidente – di dati e circostanze facilmente falsificabili dal contribuente (cfr. Cass. nn. 1950/2007; 12802/2011)”.

 

E da ultimo, la Corte di Cassazione, con la sentenza 13 febbraio 2015, n. 2935, torna ad occuparsi di operazioni inesistenti, affermando che all’ufficio bastano delle presunzioni semplici per dimostrare la falsità delle fatture.

Infatti, la prova dell’indeducibilità dei costi deve esser sopportata dal contribuente e nel caso in cui ciò avvenga attraverso la produzione di fatture, non è preclusa all’Amministrazione la prova della falsità del documento anche a mezzo di presunzione semplice.

“La giurisprudenza di questa Corte è costante nel senso che la prova del diritto alla deduzione di costi è a carico del contribuente e ciò sia con riferimento al criterio che chi afferma un fatto costitutivo di un diritto lo deve provare e sia con riferimento al criterio di vicinanza della prova (Cass. sez. trib. n. 13943 del 2011; Cass. sez. trib. n. 4554 del 2010).

E’ peraltro possibile che il contribuente sia in grado di assolvere l’onere dimostrativo di che trattasi mediante la produzione di fatture, ma per contro è altrettanto possibile che l’Amministrazione possa fornire prova dell’inattendibilità delle stesse anche mediante praesumptio hominis.

Ed, in questa direzione, il giudice di merito deve prendere in considerazione il complessivo quadro probatorio al fine di verificare l’esistenza o meno di operazioni fatturate e dedotte (Cass. sez. trib. n. 9958 del 2008; Cass. sez. trib. n. 21953 del 2007). La Commissione Tributaria Regionale del Lazio ha quindi violato la legge, quando ha ritenuto di non poter considerare i fatti secondari indicati dalla Agenzia delle Entrate al fine di ricavare per presunzione semplice l’inesistenza delle operazioni in discorso”.

 

9 luglio 2015

Gianfranco Antico

 

1”In tema di IVA, nel caso di contestazione di indebita detrazione di fatture, perchè relative ad operazioni inesistenti, la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni IVA deve essere fornita dal contribuente con l’esibizione dei documenti contabili legittimanti, in mancanza della quale la detrazione va ritenuta indebita e, conseguentemente, l’ufficio può recuperare a tassazione l’imposta irritualmente detratta (Cass. n. 27341/2005; n. 18710/2005; n. 11109/2003, n. 5717/2007, n. 6378/2006)”.

Nel caso specifico, peraltro, l’impugnata sentenza ha fatto applicazione di tale principio, avendo esaminato le risultanze processuali, e verificato che il contribuente aveva “beneficiato di fatture per operazioni inesistenti”, stante che era emerso, sia che i pagamenti non trovavano “conferma e coincidenza tra le due contabilità”, sia “pure che la portata utile del mezzo di trasporto indicato non era tale da giustificare le quantità di merce che si assumeva essere state vendute e trasportate”.

2 Per un approfondimento della sentenza si rinvia ad ANTICO, Operazioni inesistenti: la prova dell’esistenza spetta al contribuente, in www.https://www.commercialistatelematico.com.