Imposta di registro: valore dell'azienda e la caparra per il mancato rispetto del patto di opzione, profili di abuso del diritto

il caso in questione riguarda l’applicazione dell’imposta di registro agli atti di cessione di azienda, con particolare riferimento alla possibilità di sottrarre le passività aziendali dal valore dell’azienda ceduta: tale prassi può nascondere tentativi di elusione fiscale

 

Aspetti generali

L’abuso del diritto è questione per sua natura controversa, in quanto sostituendosi ai soggetti agenti, ai contratti e alle legittime (secondo il diritto positivo) manifestazioni di volontà, da’ luogo a una ricostruzione presuntiva delle intenzioni, che si assumono difformi rispetto all’apparenza e finalizzate al vantaggio fiscale.

In quest’ottica, in materia di imposta di registro, la Cassazione, con sentenza n. 6718 del 2 aprile 2015, ha ravvisato l’abuso nell’operazione con la quale, al momento della cessione d’azienda, dal valore dell’azienda ceduta era stata decurtata la caparra confirmatoria.

 

Il caso in questione riguarda l’applicazione dell’imposta di registro agli atti di cessione di azienda, con particolare riferimento alla possibilità di sottrarre le passività aziendali dal valore dell’azienda ceduta (artt. 23 quarto comma, 43 e 51 secondo comma del D.P.R. n. 131/1986).

In sostanza, la società Alfa originariamente affittava l’azienda alla società Gamma, a favore della quale era prevista l’opzione per l’acquisto dopo cinque anni dalla stipula del contratto; le obbligazioni assunte dalle parti erano garantite da una caparra confirmatoria, che veniva pagata dalla Gamma mediante l’accollo di debiti.

La successiva decisione di vendere l’azienda anziché alla Gamma alla diversa società Beta ha fatto sorgere un’ipotesi di inadempimento, e quindi l’obbligo per l’ex affittante Alfa di corrispondere alla Gamma il doppio della caparra a suo tempo ricevuta.

Tale «doppia caparra» era stata dedotta dalla base imponibile della cessione dell’azienda ai fini dell’imposta di registro.

Secondo la ricostruzione effettuata dall’Agenzia delle Entrate nell’ipotizzare l’abuso del diritto:

  • al momento della cessione d’azienda, la Gamma (affittuaria) non aveva ancora agito per ottenere la caparra, sicché la passività risultava solo ipotetica;

  • la società affittuaria Gamma aveva nel frattempo acquistato tutte le quote della Beta (acquirente dell’azienda), che, a sua volta, controllava integralmente la Alfa, con la conseguenza che in fondo, la stessa società affittuaria risultava «in possesso» dell’azienda.

     

L’elusione nel campo dell’imposta di registro

L’inesistenza nell’ordinamento tributario italiano di disposizioni antielusive espresse «ad ampio spettro», in grado di incidere sulla generalità dei tributi, è stata surrettiziamente colmata come è noto dalla giurisprudenza di legittimità in materia di abuso del diritto tributario.

Occorre dire che in verità, in materia di imposta di registro, esisteva una base normativa fornita dall’art. 20 del T.U. n. 131/1986, il quale stabilisce che l’imposta è applicata «secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente».

Tale formulazione supera lo schermo dell’apparenza orientandosi all’«intrinseca natura» degli atti, in coerenza con il principio interpretativo fissato, per i contratti, dall’art. 1362, c.c.

Nel sistema del codice civile, occorre guardare all’art. 1362 del codice, il cui primo comma stabilisce che «nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole».

Il secondo comma del medesimo articolo aggiunge che «per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto».

Secondo una posizione affermata in dottrina, l’art. 20 in esame, in quanto espressione del principio civilistico, possiederebbe una forza espansiva nei confronti degli altri settori impositivi .

Rispetto a tale disposizione normativa, le successive elaborazioni giurisprudenziali imperniate sul divieto di abuso del diritto posseggono natura più spiccatamente antielusiva.

In ipotesi quale quella esaminata dalla sentenza delle Cassazione, qui ripresa e commentata, non si tratta infatti di verificare la prevalenza della natura intrinseca degli atti e dei loro effetti giuridici sul titolo e sulla forma apparente, bensì di disconoscere la fittizietà di un elemento passivo fatto emergere per scopi meramente tributari attraverso una combinazione di atti ad hoc.

L’abuso del diritto in generale

Oltre il campo dell’elusione «codificata», i cui confini sono circoscritti dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, la definizione dell’abuso del diritto in campo tributario ha incontrato avuto fortuna a partire dalle sentenze della Corte di Cassazione n. 30055 e 30057/2008 e successive.

In tale pronunce, richiamando anche le sentenze Cass. n. 10257/2008 e n. 25374/2008, è stato ravvisata ravvisato nell’ordinamento tributario italiano la presenza di «un generale principio antielusivo», precisando altresì che «la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano».

Insomma, benché manchi nell’ordinamento l’espressa formulazione di un principio generale in materia (mentre la Corte di Giustizia Europea ha ricavato un principio analogo in materia di IVA) le SS.UU. della Cassazione hanno ritenuto che esso promani direttamente dalla Carta costituzionale, in quanto esplicitazione dei principi (capacità contributiva, progressività dell’imposizione) in essa contenuti.

In dettaglio, il principio è quello che impedisce al contribuente di trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, ancorché con alcuna specifica disposizione normativa, «di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale».

In tale prospettiva, la sopravvenuta introduzione di norme antielusive espresse (specifiche) si pone, secondo la Corte, quale «mero sintomo dell’esistenza di una regola generale» (tale affermazione era coerente con Cass. n. 8772/2008).

Il principio antielusivo generale è stato ritenuto non contrastante con la riserva di legge in materia tributaria – incardinato nell’art. 23 della Costituzione -, giacché «il riconoscimento di un generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario non si traduce nella imposizione di ulteriori obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali».

Una parziale limitazione dei poteri del Fisco – discendente dalla necessità di dimostrare l’esistenza del disegno elusivo a sostegno delle rettifiche operate, oltre alle supposte modalità di manipolazione o di alterazione di schemi classici rinvenute, evidenziando per quali motivi se ne determini l’«aggiramento», e tenendo conto dell’evoluzione degli strumenti giuridici – è stata individuata dalla sentenza della sezione tributaria n. 1465 del 17.11.2008, depositata il 21.1.2009.

Secondo la pronuncia, anche se il carattere «abusivo» dell’operazione può essere riconosciuto e contestato dal Fisco in modo ampio, nell’esercizio di un potere che è espressione dell’art. 53 della Costituzione, la contestazione è legittima solamente se il fine elusivo si pone come predominante e assorbente rispetto al complessivo comportamento del contribuente.

Sotto il profilo della difesa della parte, è stato osservato che i contribuenti devono dimostrare il motivo per cui è stato posto in essere il comportamento, con una facoltà di dimostrazione assai ampia, la quale può estendersi a diversi obiettivi di natura commerciale, finanziaria, contabile (e non solo alle valide ragioni economiche).

Con la sentenza 21.1.2011. n. 1372, la Cassazione ha fatto presente che l’applicazione del principio dell’abuso del diritto deve essere guidata da una particolare cautela. È infatti necessario individuare con precisione cosa sia «elusione», e in tale prospettiva la semplice sussistenza di valide ragioni extra-fiscali è sufficiente a escludere il carattere strumentale (elusivo) dell’operazione posta in essere.

L’abuso nella legge delega del 2014

La vigente legge delega per la riforma fiscale, ancora in attesa di attuazione (art. 5, L. 11.3.2014 n. 23) ha previsto in uno dei suoi punti più qualificanti il coordinamento e la revisione delle disposizioni interne in materia di antielusione, al fine di unificarle al principio generale di divieto dell’abuso di diritto.

La nuova definizione di abuso dovrà essere coerente con le indicazioni della Raccomandazione UE 6.12.2012 n. 772 sulla pianificazione fiscale aggressiva, garantendo altresì la libera scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti un diverso carico fiscale.

Le disposizioni normative di riferimento introducono i seguenti principi e criteri direttivi:

  1. definizione della condotta abusiva come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, anche se tale condotta non è in contrasto con alcuna specifica disposizione;

  2. garanzia della libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni (equivalenti sotto il profilo economico sostanziale?): in tale prospettiva:

    1. occorrerà considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva; 

    2. occorrerà altresì escludere la configurabilità di una condotta abusiva se le operazioni sono giustificate da ragioni extrafiscali non marginali (costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente);

    3. bisognerà prevedere l’inopponibilità degli strumenti giuridici adottati in attuazione del comportamento elusivo all’amministrazione finanziaria e il conseguente potere della stessa di disconoscere il risparmio di imposta da essi derivante; 

    4. bisognerà disciplinare il regime della prova ponendo a carico dell’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare il disegno abusivo e le eventuali modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché la loro mancata conformità a una normale logica di mercato, prevedendo invece che gravi sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concorrenti che giustifichino il ricorso a tali strumenti; 

    5. occorrerà prevedere una formale e puntuale individuazione della condotta abusiva nella motivazione dell’accertamento, a pena di nullità dello stesso; 

    6. occorrerà infine prevedere specifiche regole procedimentali che garantiscano un efficace contraddittorio con l’amministrazione finanziaria e salvaguardino il diritto di difesa in ogni fase del procedimento di accertamento tributario.

  1. Sulla base di un testo di decreto inizialmente reso noto ma non ancora attuato (che potrebbe quindi essere sottoposto a notevoli cambiamenti), il legislatore interverrebbe inserendo nello Statuto dei diritti del contribuente (L. 27.7.2000, n. 212) un nuovo art. 10-bis rubricato «Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale».

  2. Secondo tale schema costituiscono del diritto «una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali e indipendentemente dalle intenzioni del contribuente, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti».

  3. Queste operazioni «non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente».

  4. Il contribuente può proporre interpello preventivo per conoscere se le operazioni che intende realizzare costituiscano fattispecie di abuso del diritto.

  5. Fino all’emanazione del decreto ministeriale disciplinante le modalità attuative della norma questo interpello dovrà seguire la procedura di cui al D.M. 19.6.1998, n. 259. Ossia la procedura che attualmente trova applicazione con esclusivo riferimento alle istanze di disapplicazione di disposizioni antielusive specifiche.

 

La questione sottoposta all’esame della Corte

La questione decisa dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 6718/2015, qui esaminata, trae origine dalla seguente sequenza di atti:

  1. l’azienda era stata inizialmente data in affitto dalla Alfa a una società terza (Gamma), cui era stato riconosciuto il diritto di opzione, previo accollo dei debiti, da imputarsi a caparra confirmatoria (tale diritto non era esercitabile non prima della fine del quinto anno di affitto);

  2. con l’atto sottoposto a rettifica, la Alfa aveva invece venduto l’azienda alla società Beta, ed esposto tra le passività un importo pari al doppio della caparra pattuita;

  3. facendo valere l’inadempimento del diritto di opzione concesso all’affittuaria, la venditrice ha conseguito un indebito abbattimento del valore dei beni compravenduti e, proporzionalmente, dell’imposta, tanto più che: a) al momento della compravendita la passività era solo ipotetica, non avendo l’affittuaria ancora agito a tutela dei suoi diritti;

  4. la medesima affittuaria Gamma era in possesso della totalità delle quote della Beta, che a sua volta deteneva tutte quelle della venditrice – concedente Alfa, così che il soggetto titolare del diritto di opzione frustrato era in realtà divenuto lui stesso proprietario del bene, in quanto controllante la totalità del capitale della società acquirente.

Secondo la ricorrente Agenzia delle Entrate, nel computare nelle passività l’importo della caparra la CTR non aveva tenuto conto del principio generale del divieto di abuso del diritto.

Le indicazioni fornite

Secondo la sentenza della Suprema Corte, «il divieto di abuso del diritto preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici».

Questo principio deve ritenersi applicabile a tutti i tributi, in quanto immanente all’ordinamento tributario italiano, trovando la sua fonte nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività della imposizione, di cui all’art. 53 della Costituzione.

Il principio generale di divieto di abuso comporta che i negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali sono inopponibili all’amministrazione finanziaria; il divieto non opera però se esse possono spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, fermo restando che incombe sul fisco l’onere di provare:

  • il disegno elusivo;

  • le modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale.

Secondo la più recente giurisprudenza della medesima Corte (Cass. 14.2.2014, n. 3481), l’art. 20 del DPR n. 131 del 1986 (secondo cui, come si evidenziava sopra, «l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente») non integra un’ipotesi tipicizzata di elusione fiscale, ma costituisce piuttosto una disposizione, che, nel privilegiare la sostanza sulla forma, è finalizzata ad assoggettare a imposta la manifestazione di capacità contributiva correlabile alla natura intrinseca degli atti e ai loro effetti giuridici, rispetto a ciò che viene formalmente enunciato in uno o più di essi.

Non è quindi l’art. 20 la disposizione normativa di riferimento, utile a contrastare il comportamento sopra descritto, orientato solamente a ottenere un minor onere fiscale: il presidio giuridico è qui assicurato proprio dal principio generale del divieto di abuso, a fronte di un importo che si è ritenuto artificiosamente appostato (in ragione di un atto pregresso della venditrice) allo scopo di abbattere il valore dell’azienda ceduta.

Su questa base, in accoglimento del motivo di ricorso riguardante il carattere abusivo dei comportamenti sopra ricostruiti, la sentenza della CTR è stata cassata e rinviata alla stessa corte di merito per una nuova decisione.

16 luglio 2015

Fabio Carrirolo