Reverse charge e grande distribuzione: una sconfitta annunciata

nelle intenzioni del Governo l’estensione del reverse charge alla grande distribuzione prevista dalla Legge di Stabilità 2015 avrebbe dovuto aumentare il gettito, in quanto l’inversione contabile serve a scongiurare le frodi IVA, tuttavia era atteso un parere negativo dell’Unione Europea, dato che l’IVA è un’imposta europea

reverse charge IVA e grande distribuzioneTra le tante disposizioni contenute nella legge di stabilità 2015, era stata prevista anche l’estensione del reverse charge a diversi comparti economici.

Tale soluzione rientrava tra quelle già proposte in un rapporto del NENS, il centro studi tributari che fa capo all’ex ministro delle finanze Vincenzo Visco.

Il Governo si aspettava da tali misure un notevole incremento del gettito per l’Erario e una minore facilità di attuazione di comportamenti fraudolenti da parte degli operatori della filiera.

Tra i comparti economici coinvolti nel reverse charge c’era appunto anche la grande distribuzione organizzata, settore però, come fin da subito evidenziato da molti, a basso pericolo di frodi.

 

L’estensione del reverse charge alle cessioni di beni effettuate dei confronti di ipermercati e supermercati era prevista dalla legge n. 190/2014 con l’introduzione della lettera d-quinquies) all’art. 17, comma 6, D.P.R. n. 633/1972.

In un tale contesto però il sistema del reverse charge correva il rischio di danneggiare le imprese fornitrici della grande distribuzione, costrette a chiedere l’Iva a rimborso, con lunghe attese e difficoltà di liquidità.

L’estensione del reverse charge alla grande distribuzione si sarebbe del resto potuto applicare solo in caso di rilascio di una apposita deroga da parte dell’Unione Europea, che, come noto, ha poi bocciato la misura, costringendo ora il Governo a studiare misure idonee da un punto di vista compensativo per la copertura dal gettito atteso da quella norma, come, ad esempio, le possibili entrate derivanti dalla Voluntary disclosure, che ora non sono state messe a bilancio.

 

Ma in che cosa consisteva esattamente tale “soluzione”?

Con il reverse charge l’acquirente autofattura l’Iva dovuta e la versa direttamente allo Stato invece di girarla al fornitore, come avviene oggi.

Tale misura doveva servire, nelle intenzioni del legislatore, ad impedire fatture per operazioni inesistenti per intascare l’Iva, come oggi avviene con le cosiddette frodi carosello e le omesse dichiarazioni. 

Ma tali fattispecie non sono certo frequenti nel mondo della grande distribuzione.

E anche per tale motivo Confindustria aveva presentato alla Commissione Europea una denuncia contro l’applicazione di tale meccanismo per il versamento dell’Iva relativa alle forniture nei confronti di supermercati, ipermercati etc., segnalando le forti preoccupazioni per gli effetti devastanti sulla liquidità delle imprese e sui loro piani di investimento.

 

I soggetti danneggiati da tale misura sarebbero stati infatti esclusivamente i fornitori della Grande Distribuzione Organizzata, essendo peraltro noti i tempi lunghi con cui l’Amministrazione Finanziaria effettua i rimborsi dei crediti Iva, tanto da essere oggetto, anche su tale fronte, di una apposita procedura di infrazione e rischiando peraltro un tale meccanismo di incidere sulla effettiva neutralità del funzionamento dell’imposta sul valore aggiunto. 

Per tali motivi, del resto, l’introduzione di fattispecie di reverse charge ulteriori rispetto alle ipotesi elencate dalla direttiva Iva viene sempre valutata con estrema cautela, potendo essere consentita, come prevede la normativa comunitaria, solo in presenza di rischi di frode ampiamente documentati.

Ed onestamente non era questo il caso delle forniture alla Grande Distribuzione Organizzata.

E dunque l’applicazione del reverse charge nella grande distribuzione, consentendo, da una parte, di non far pagare l’Iva ai supermercati, caricandola invece direttamente sui fornitori, che restavano con tempi lunghi di rimborso dell’Iva versata sugli acquisti senza poterla compensare con Iva a credito (in un settore, peraltro, già caratterizzato dalla commercializzazione di prodotti ad aliquota IVA agevolata, con un’elevata incidenza delle posizioni di credito IVA strutturale), consentiva (rectius: avrebbe consentito) comunque un’immediata liquidità a favore dell’Erario e un onere in meno per la grande distribuzione.

In altri termini, finanziariamente, la fattura ricevuta dal supermercato per euro 10.000 avrebbe comportato soltanto il pagamento di tale cifra al fornitore, laddove invece, se l’acquisto fosse stato fatto da una struttura commerciale diversa, compreso il piccolo dettagliante, il pagamento al fornitore avrebbe comportato un pagamento per euro 12.200 (con IVA applicata al 22%), con il rischio magari di superare il plafond di fido concesso.

E con il rischio, sempre per il solo fornitore della grande distribuzione, di accumulare un credito da chiedere a rimborso, soggiacendo così non solo a maggiori oneri amministrativi, ma anche a controlli etc.

Come detto, tutto questo è stato fermato dalla Commissione Europea, la quale non ha condiviso la misura, in quanto certo non finalizzata (o comunque non efficace) al contrasto delle frodi.

 

La decisione impatta ora sui conti pubblici per una cifra complessiva pari a 728 milioni di euro.

La Commissione Europea, si legge in una dichiarazione della portavoce della Commissione UE per i servizi finanziari, Vanessa Mock, ha adottato infatti una comunicazione indirizzata al Consiglio europeo, che rigetta la richiesta italiana di una deroga alle norme UE sull’IVA per introdurre il reverse charge per le forniture alla grande distribuzione, “in quanto non ci sono prove sufficienti che la misura richiesta contribuirebbe a contrastare le frodi”. Bruxelles ritiene anzi che questa misura implicherebbe seri rischi di frode a scapito del settore delle vendite al dettaglio e a scapito di altri Stati membri.

E dunque: nessun vantaggio effettivo per l’Erario, nessun contrasto alle frodi, solo svantaggi per i fornitori.

I soli ad avere qualche vantaggio sarebbero state le imprese della grande distribuzione organizzata.

E dunque misura inefficace e giuridicamente non ammissibile.

Come ricorda la stessa Commissione nella nota con cui “boccia” la misura del reverse charge nella grande distribuzione, infatti, “ogni deroga al sistema del pagamento frazionato non può quindi essere che una misura d’emergenza e ‘ultima ratio’ in casi provati di frodi, e deve offrire le garanzie sulla necessità ed eccezionalità della deroga, la durata della misura e la natura dei prodotti. La procedura di ‘reverse charge’ non deve essere usata sistematicamente per mascherare la sorveglianza inadeguata delle autorità fiscali di uno Stato”.

 

Per contrastare le frodi non bastano quindi “trucchetti normativi”. Servono forse, ma non bastano.

Ciò che serve è un’Amministrazione che, usando le parole della Commissione, effettui una “sorveglianza adeguata”.

E nel caso di specie la Commissione “ha motivo per dubitare che un’applicazione indistinta e globale della ‘reverse charge’ a un alto numero di prodotti, in questo caso destinati essenzialmente al consumo finale, potrebbe essere considerata una misura speciale prevista dall’articolo 395 della direttiva sull’Iva”.

Inoltre, la Commissione “ha seri dubbi che la misura avrebbe l’impatto positivo che si aspettano le autorità italiane”, perché è adatta alla prevenzione delle frodi carosello, ma non di tutte le altre che portano all’evasione dell’Iva.

Infine, “le autorità italiane non hanno dimostrato” che per il tipo di merci in questione è impossibile fare un controllo attraverso i mezzi convenzionali (come, per esempio, attraverso il controllo delle differenze inventariali), circostanza che avrebbe eventualmente giustificato la necessità di attuazione del reverse charge.

E del resto, anzi, a ben vedere, una tale misura poteva essere facilmente sfruttata proprio per effettuare frodi, laddove, come noto, il meccanismo delle frodi IVA nasce proprio dall’alternarsi di fasi senza addebito di IVA (reverse charge) e di fasi con addebito di IVA, per cui il meccanismo proposto (per fini di contrasto alle frodi Iva) pareva effettivamente paradossale.

 

E’ infine anomalo che il reverse charge, meccanismo a forte rischio di evasione, sia utilizzato come strumento di lotta alla frode.

E infatti, nell’ambito degli scambi intracomunitari, dove l’adempimento dell’imposta nel Paese di destinazione dei beni è operata, sistematicamente, attraverso il ricorso alla “inversione contabile”, emerge che proprio questo meccanismo è quello generativo delle frodi carosello (vedi relazione della Commissione COM (2004) 260 del 16 aprile 2004).

Analoghe preoccupazioni sono state poi evidenziate dalla Commissione UE anche nel “Libro verde sul futuro dell’Iva” (COM (2010) 695 del 1° dicembre 2010).

Come poi rilevato dalla stessa Commissione:

“L’applicazione di un meccanismo di inversione contabile alle operazioni nazionali da impresa a impresa … richiederebbe peraltro controlli e obblighi di dichiarazione supplementari per le operazioni nazionali al fine di limitare lo spostamento della frode alla vendita al dettaglio, in quanto comporterebbe l’abbandono del principio del «pagamento frazionato», che è considerato uno dei vantaggi principali dell’Iva” (Punto 4.2.2 Libro verde citato).

La Commissione UE (Comunicazione COM (2014) 229) aveva del resto già espresso parere contrario ad una richiesta dell’Ungheria, diretta ad ottenere l’autorizzazione per assoggettare all’inversione contabile le cessioni di zucchero, ritenendo in quel caso che l’applicazione del reverse charge a beni destinati al consumo finale avrebbe comportato il rischio che la frode si spostasse a valle nella catena di approvvigionamento, diventando ancora più difficile da controllare.

E peraltro la motivazione posta alla base del diniego era da ricercarsi anche nel dato di fatto che il meccanismo di reazione rapida alle frodi Iva è attivabile soltanto in caso di fenomeni fraudolenti improvvisi e non quando gli stessi sono perpetrati da tempo.

Infine, altro caso interessante di diniego dell’applicazione del reverse charge era stato adottato nel 2006 dalla Commissione UE (Comunicazione COM (2006) 404), nei confronti di Austria e Germania, che avevano chiesto di essere autorizzati ad applicare il meccanismo in parola per le forniture tra imprese, con riferimento a fatture di importo significativo.

La Commissione UE esprimeva, anche in quel caso, una serie di perplessità sull’appesantimento delle procedure contabili che sarebbero state imposte alle imprese.

Tutte queste perplessità erano evidentemente presenti anche nella richiesta dell’Italia di applicare il reverse charge nel settore della grande distribuzione. E bastava poco per rilevarle.

Forse dunque la politica fiscale, al di là dei massimi sistemi, dovrebbe essere oggetto di maggior attenzione operativa e giuridica.

Come stanno dimostrando molte misure, fiscali, previdenziali etc, elaborate da valenti economisti, poi le stesse devono però superare anche il vaglio di legittimità giuridica (costituzionale, comunitaria etc) e dunque, prima ed al di là della “filosofia” e della politica, devono essere elaborate rispettando determinati vincoli.

Solo così potremo avere efficaci misure di riforma di un sistema che, evidentemente, le richiede.

 

 

27 maggio 2015

Giovambattista Palumbo