Frodi carosello: la Cassazione sulle fatture oggettivamente e soggettivamente inesistenti

Il vasto contenzioso sulle frodi carosello genera una notevole mole di giurisprudenza: un aggiornamento delle ultime linee di pensiero della Cassazione sulle fatture oggettivamente e soggettivamente inesistenti.

frodi caroselloCon l’ordinanza n. 5128 del 13 marzo 2015 (ud. 22 gennaio 2015) la Corte di Cassazione ha affrontato, in maniera organica e completa, il tema relativo alle cd. frodi carosello, ed in particolare del coinvolgimento dell’acquirente nelle frodi “carosello” poste in essere dal fornitore, coinvolgimento non escluso dalla sussistenza degli elementi oggettivi della cessione, vale a dire la consegna della merce e il pagamento del prezzo.

Sul punto specifico viene richiamata la sentenza della Suprema Corte n. 867/10:

“In tema di IVA, nelle c.d. ‘frodi carosello’ – fondate sul mancato versamento dell’imposta incassata da società ‘cartiere’ a seguito di acquisti intracomunitari, o altrimenti esenti, e successive rivendite anche attraverso l’interposizione di una o più società filtro (‘buffers’) – il meccanismo dell’operazione e gli scopi che la stessa si propone (acquisizione di materiali a prezzi più contenuti al fine di praticare prezzi di vendita più bassi, con alterazione a proprio favore del libero mercato), fanno presumere la piena conoscenza della frode e la consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale, con la conseguenza che, in applicazione del relativo principio sancito dall’art. 17 della direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, l’IVA assolta dal medesimo beneficiario nelle operazioni commerciali con la società filtro non è detraibile ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19 anche se le predette operazioni siano state effettivamente compiute e le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, sembrino perfettamente regolari”.

Frodi carosello e onere probatorio

Inoltre, in ordine ai criteri di riparto dell’onere probatorio tra Fisco e contribuente, la Suprema Corte ha richiamato i principi già enunciati nella sentenza n. 10414/11:

“Nel caso di apparente regolarità contabile della fattura, dotata dei requisiti di legge, l’onere della prova grava sull’Ufficio, nel senso che questi deve provare

1) gli elementi di fatto della frode, attinenti il cedente, ovvero la sua natura di ‘cartiera’, la inesistenza di una struttura autonoma operativa, il mancato pagamento dell’IVA come modalità preordinata al conseguimento di un utile nel meccanismo fraudolento e simili;

2) la connivenza nella frode da parte del cessionario, non necessariamente però con prova ‘certa’ ed incontrovertibile, bensì con presunzioni semplici, purchè dotati del requisito di gravità precisione e concordanza, consistenti nella esposizione di elementi obiettivi – che possono coincidere con quelli sub) 1 – tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sulla inesistenza sostanziale del contraente, il quale non può non rilevarla e peraltro deve coglierla, per il dovere di accortezza e diligenza insito nell’esercizio di una attività imprenditoriale e commerciale qualificata. Qualora, con giudizio di fatto rimesso al giudice del merito, la Amministrazione abbia fornito una prova nei termini di cui sopra, l’onere a carico della medesima si intende assolto e grava sul contribuente l’onere della prova contraria”.

 

Alla stregua di tali principi di diritto, i massimi giudici rilevano che

“l’onere probatorio gravante sull’Ufficio in materia di frodi ‘carosello’ non comprende anche la dimostrazione del fatto che il venditore estero sia consapevole della circostanza che il proprio interlocutore contrattuale è un soggetto interposto; l’affermazione della sentenza gravata secondo cui, mancando tale consapevolezza nel venditore estero, gli effetti fiscali dell’operazione si produrrebbero esclusivamente in capo al compratore interposto risulta dunque giuridicamente errata”.

 

Per quanto concerne le censure mosse alla seconda ratio decidendi della sentenza gravata, la Suprema Corte rileva che l’affermazione della Commissione Tributaria Regionale secondo cui, ai fini della dimostrazione dell’accordo tra la contribuente e gli importatori italiani, non sarebbero sufficienti “le generiche supposizioni dell’ufficio sul fatto che gli operatori dovrebbero prendere informazioni sui loro fruitori” contrasta con il principio di diritto secondo il quale

“la connivenza nella frode da parte del cessionario può essere provata dall’Ufficio con presunzioni semplici e tali presunzioni possono fondarsi anche sul rilievo che la società venditrice difetta di un’autonoma struttura operativa; infatti questa circostanza (di per sè idonea a mettere sull’avviso in ordine alla inesistenza sostanziale del contraente) non può non essere rilevata da qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto, essendo peraltro il dovere di accortezza e diligenza insito nell’esercizio di una attività imprenditoriale e commerciale qualificata”.

 

 

Contenzioso sulle frodi carosello: breve nota

La questione oggi affrontata dalla Corte di Cassazione non è certamente nuova.

Per la Corte (sentenza n. 8132/2011)

“qualora, l’Amministrazione fornisca validi elementi di prova per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni inesistenti, è onere del contribuente dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni, tenendo presente, tuttavia, che l’Amministrazione non può limitarsi ad una generale ed apodittica non accettazione della documentazione del contribuente, essendo suo onere quello di indicare specificamente gli elementi, anche indiziali, sui quali si basa la contestazione ed il giudice di merito deve prendere in considerazione tali elementi, senza limitarsi a dichiarare che essi esistono e sono tali da dimostrare la falsità delle fatture (Cass. n. 21953/2007)”.

Più specificamente,

“qualora l’Amministrazione contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, e fornisca attendibili riscontri indiziari sulla inesistenza delle operazioni fatturate, è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indebiti; nell’ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti, il diritto alla detrazione dell’imposta versata in rivalsa al soggetto, diverso dal cedente-prestatore, che ha, tuttavia, emesso la fattura, non sorge immancabilmente, per il solo fatto dell’avvenuta corresponsione di imposta ivi formalmente indicata, ma richiede altresì, che il committente-cessionario, il quale invochi la detrazione, fornisca, sul proprio stato soggettivo in ordine all’altruità della fatturazione, riscontri precisi, non esaurientisi nella prova dell’avvenuta consegna della merce e del pagamento della stessa nonchè dell’IVA riportata sulla fattura emessa dal terzo, trattandosi di circostanze non decisive, rispetto al thema probandum, in rapporto alle peculiarità del meccanismo dell’IVA e dei relativi, possibili, abusi (Cass. n. 1950/2007)”.

Rileva, ancora, la Corte, che

“l’orientamento giurisprudenziale sopra riportato va peraltro letto in coordinazione con la giurisprudenza della Corte di Giustizia CE… Nello specifico la Corte di Giustizia (sent. C-439/04; conf. Sent. C-354/03) ha affermato che…:

– il diritto a deduzione previsto dal citato art. 17 della Sesta Direttiva costituisce parte integrante del meccanismo dell’iva e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni, essendo inteso a sgravare l’imprenditore dall’onere dell’iva dovuta o pagata nell’esercizio della sua attività economica, in applicazione del principio della c.d. neutralità dell’imposta;

– ai fini del diritto del soggetto passivo alla deduzione è irrilevante (sempre per il principio di neutralità dell’imposta) se l’iva dovuta per le operazioni precedenti o successive sia stata versata o meno all’Erario;

– il principio di neutralità dell’imposta non consente una distinzione generale tra le operazioni lecite e le operazioni illecite, nel senso che il diritto alla deduzione va in assoluto escluso per queste ultime, essendo necessario considerare la posizione assunta dall’operatore che richiede la deduzione; in particolare, l’imprenditore che abbia adottato tutte le misure che si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione posta in essere non faccia parte di una frode, deve poter fare affidamento sulla liceità dell’operazione senza rischiare di perdere il proprio diritto alla deduzione dell’iva pagata a monte; – ne consegue che, nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, il committente-cessionario conserva il diritto alla deduzione dell’imposta pagata qualora dalle circostanze del caso risulti che egli non sapeva e non poteva sapere di partecipare con il proprio acquisto ad una operazione che si iscriveva in una frode all’imposta”.

 

L’indirizzo giurisprudenziale comunitario trova evidente sostegno sia nei principi di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto che fanno parte dell’ordinamento CEE, sia nel già richiamato principio di neutralità dell’imposta.

I principi fissati sono i seguenti:

“1) l’iva pagata per l’operazione soggettivamente inesistente non è detraibile;

2) è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione qualora l’Amministrazione gli contesti l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti;

3) il contribuente committente-cessionario, al quale sia contestata la detrazione dell’iva relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti, ha il diritto di detrarre l’iva se, a prescindere dal pagamento dell’imposta, dimostra che non sapeva e non poteva sapere di partecipare ad una operazione che si iscriveva in una frode all’imposta; con una formula più rigorosa il medesimo principio può esser formulato così: il contribuente committente-cessionario, al quale sia contestata la detrazione dell’IVA, anche se pagata, relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti, ha l’onere di conoscere che il venditore-prestatore è autore di un’operazione in frode all’IVA e, se vuole vedersi riconosciuto il diritto di detrarre l’IVA, ha l’onere di dimostrare che è incolpevole la sua ignoranza di aver partecipato ad una operazione in frode dell’IVA”.

Frode carosello e convolgimento dell’acquirente

Ed anche di recente, con l’Ordinanza n. 10252 del 2 maggio 2013 (ud. 27 febbraio 2013) la Corte di Cassazione richiama e fa suo il precedente pronunciamento (sentenza n. 10414/2001) che si sofferma sul riparto dell’onere probatorio tra Fisco e contribuente in ordine al coinvolgimento dell’acquirente nelle frodi carosello poste in essere dal fornitore, enunciando, i seguenti principi:

“nel caso, come il presente, di apparente regolarità contabile della fattura, dotata dei requisiti di legge, l’onere della prova grava sull’Ufficio, nel senso che questi deve provare

1) gli elementi di fatto della frode, attinenti il cedente, ovvero la sua natura di cartiera, la inesistenza di una struttura autonoma operativa, il mancato pagamento dell’IVA come modalità preordinata al conseguimento di un utile nel meccanismo fraudolento e simili;

2) la connivenza nella frode da parte del cessionario, non necessariamente però con prova certa ed incontrovertibile, bensì con presunzioni semplici, purchè dotati del requisito di gravità precisione e concordanza, consistenti nella esposizione di elementi obiettivi – che possono coincidere con quelli sub) 1 – tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sulla inesistenza sostanziale del contraente, il quale non può non rilevarla e peraltro deve coglierla, per il dovere di accortezza e diligenza insito nell’esercizio di una attività imprenditoriale e commerciale qualificata”; qualora l’Amministrazione abbia fornito una prova nei termini di cui sopra, “l’onere a carico della medesima si intende assolto e grava sul contribuente l’onere della prova contraria.

L’onere di provare gli elementi di fatto della frode e la connivenza del cessionario con il cedente grava dunque sull’Amministrazione (che può fornire tale prova anche mediante presunzioni semplici, le quali possono derivare anche dalle medesime risultanze di fatto attinenti al cedente); nella specie la sentenza gravata si è attenuta a tale principio di diritto, perchè ha annullato gli avvisi di accertamento sulla base del giudizio di fatto che l’Ufficio non avesse provato la fittizietà delle operazioni di acquisto”.

Ed ancora con l’ordinanza n. 16456 del 1° luglio 2013 (ud. 12 giugno 2013) la Corte di Cassazione, in particolare in tema di IVA, nelle c.d. “frodi carosello” –

“fondate sul mancato versamento dell’imposta incassata da società ‘cartiere‘ a seguito di acquisti intracomunitari, o altrimenti esenti, e successive rivendite anche attraverso l’interposizione di una o più società o ditte filtro (‘buffers‘) – il meccanismo dell’operazione e gli scopi che la stessa si propone (acquisizione di materiali a prezzi più contenuti al fine di praticare prezzi di vendita più bassi, con alterazione a proprio favore del libero mercato), fanno presumere la piena conoscenza della frode e la consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale, con la conseguenza che, in applicazione del relativo principio sancito dall’art. 17 della direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, l’IVA assolta dal medesimo beneficiario nelle operazioni commerciali con la società filtro non è detraibile ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, anche se le predette operazioni siano state effettivamente compiute e le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, sembrino perfettamente regolari, come nella specie (V. pure Cass. Sentenza n. 867 del 20/01/2010, Sezioni Unite: n. 30055 del 2008).

Gli stessi rilievi valgono anche in ordine alle altre imposte evase, trattandosi di effetti consequenziali alla ‘frode carosello'”.

E da ultimo, con la sentenza n. 7650 del 2 aprile 2014 (ud. 27 gennaio 2014) la Corte di Cassazione ha ritenuto che l’assenza della dotazione minima per la fornitura della prestazione costituisce prova di mancata effettuazione della prestazione.

Fatture soggettivamente inesistenti

Viene, quindi, confermato l’operato dell’ufficio che, con due avvisi di accertamento, aveva recuperato a tassazione l’IVA dovuta per gli anni 1997 e 1998, in conseguenza di indebite detrazioni di imposta effettuate dalla società contribuente in relazione ad operazioni di acquisto di carni, ritenute dall’Ufficio soggettivamente inesistenti.

Per la Corte, se

“la fattura è documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa, … ed … essa può certamente costituire una prova a favore dell’imprenditore o del professionista, nei rapporti con il fisco…” è pur vero che “in ipotesi di fatture che l’Ufficio ritenga relative ad operazioni oggettivamente, o anche solo soggettivamente, inesistenti, o che – ancorchè effettivamente poste in essere – si iscrivono in combinazioni negoziali fraudolente ai danni del fisco, l’Amministrazione stessa ha l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere, o non lo è stata tra i soggetti che figurano nella fattura, o che tale documento sottende un’operazione fraudolenta cui il cessionario sia partecipe.

E non può revocarsi in dubbio che tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l’IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 39, comma 1, lett. d))

(cfr. Cass. 21953/07, che fa riferimento alla possibilità che l’amministrazione produca elementi anche indiziari, a sostegno della pretesa fiscale azionata; Cass. 9108/12; 15741/12, in motivazione; 23560/12; 27718/13; nello stesso senso C.Giust. 6.7.06, C-439/04, C.Giust., 21.2.06, C-255/02; C. Giust. 21.6.12, C-80/11; C.Giust. 6.12.12, C-285/11; C.Giust. 31.1.13, C-642/11)”.

Prosegue la Corte, affermando che è di tutta evidenza che –

“nel caso di operazioni oggettivamente inesistenti – è escluso in radice che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente, il quale sa bene se una determinata fornitura di beni o prestazione di servizi l’ha effettivamente ricevuta o meno)”.

 

Principi più articolati trovano applicazione, per la Corte, in relazione al caso in cui l’Amministrazione contesti al contribuente di avere adoperato, ai fini della detrazione dell’IVA, fatture solo soggettivamente inesistenti.

“A tal riguardo, la Corte Europea ha, da ultimo, ribadito che se – tenuto conto di evasioni o irregolarità commesse dall’emittente della fattura, o a monte dell’operazione dedotta a fondamento del diritto alla detrazione – tale operazione è considerata come non effettivamente realizzata, si deve dimostrare, alla luce di elementi oggettivi ed alla stregua dei principi sull’onere della prova vigenti nello Stato membro, senza, peraltro, esigere dal destinatario della fattura verifiche (circa la qualità di soggetto passivo IVA in capo al fatturante, o la disponibilità dei beni di cui trattasi) alle quali non è tenuto, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta operazione si inseriva nel quadro di un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto; circostanza, questa, che – secondo la Corte di Lussemburgo – spetta al giudice del rinvio verificare (C. Giust. 6.12.12, cit.; 31.1.13, cit.)”.

Della stessa opinione è la Corte di Cassazione che ha rilevato

“che la prova, fornita dall’Amministrazione, che la prestazione non è stata effettivamente resa dal fatturante, perchè sfornito della, sia pur minima, dotazione personale e strumentale adeguata alla sua esecuzione, costituisce, di per sè, per la sua pregnanza dimostrativa, idoneo elemento sintomatico dell’assenza di ‘buona fede’ del contribuente.

L’immediatezza dei rapporti (cedente o prestatore – fatturante – cessionario o committente) induce, invero, ragionevolmente ad escludere in via presuntiva – a fronte di una conclamata inidoneità allo svolgimento dell’attività economica – l’ignoranza incolpevole del cessionario o committente circa l’avvenuto versamento dell’IVA a soggetto non legittimato alla rivalsa, nè assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta. In tal caso, sarà – di conseguenza – il contribuente a dover provare, in applicazione di principi ordinari sull’onere della prova vigenti nel nostro ordinamento (art. 2697 c.c.), di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri, dovendosi altrimenti negare il diritto alla detrazione dell’IVA versata (Cass. 6229/13)”.

La Corte ribadisce il principio più volte affermato (cfr. cass. nn. 8132/2011 e 23074/2012) secondo cui

“qualora l’Amministrazione contesti al contribuente – come nel caso di specie – l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, e fornisca attendibili riscontri indiziari sull’inesistenza delle operazioni fatturate, ricade sul contribuente medesimo l’onere di dimostrare la fonte legittima della detrazione, altrimenti non operabile.

Il cessionario, in particolare, ha l’onere di dimostrare almeno, anche in via alternativa, di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto, oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta in occasione dell’operazione contestata, di non essere stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all’operazione”.

 

Per la Corte, pertanto,

“non è sufficiente dedurre, da parte del contribuente, che la mercè sia stata consegnata e la fattura, IVA compresa, sia stata effettivamente pagata, trattandosi di circostanze pienamente compatibili con il modello di frode fiscale, posto in essere mediante un’operazione soggettivamente inesistente (Cass. 17377/09; 230744/12).

E tanto meno può considerarsi sufficiente la dimostrazione della regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta – com’è del tutto evidente – di dati e circostanze facilmente falsificabili dal contribuente (cfr. Cass. 1950/07, 12802/11)”.

Nel caso di specie,

“non giova affatto alla contribuente – al contrario di quanto erroneamente ritenuto dal giudice di appello – dedurre e comprovare l’avvenuto pagamento delle fatture e l’effettivo ricevimento della merce, a fronte di elementi di forte spessore indiziario e presuntivo, forniti in giudizio dall’Amministrazione finanziaria, e consistenti nella totale assenza, presso le società ‘cartiere’, di strutture e mezzi idonei a consentire loro di effettuare le forniture oggetto delle fatture in contestazione.

Elementi di fatto, questi, della cui sussistenza effettiva, peraltro, neppure il giudice di appello ha mostrato di dubitare in alcun modo.

Ed invero, come dianzi detto, l’immediatezza dei rapporti tra la apparente cedente della merce acquistata dalla contribuente e quest’ultima – comprovata dai due processi verbali di constatazione – induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole della cessionaria circa l’avvenuto versamento dell’IVA a soggetto non legittimato alla rivalsa, né assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta.

Con la conseguenza che, in siffatta ipotesi – contrariamente a quanto affermato dalla CTR -, avrebbe dovuto la contribuente provare di non essere a conoscenza della circostanza che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri, dovendosi – in mancanza – negare il diritto alla detrazione dell’IVA versata.

Il che appare, poi, vieppiù evidente nelle ipotesi – come quella ricorrente nel caso di specie – in cui gli acquisti di merce vengano sistematicamente, e per ingenti quantitativi operati presso le società c.d. cartiere”.

 

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7 maggio 2015

Roberta De Marchi