La corretta deducibilità delle provvigioni agli agenti

Le provvigioni dell’agente sono qualificate come prestazioni di servizi, i cui corrispettivi si considerano conseguiti alla data in cui le prestazioni sono ultimate.

deduzione delle proviggioni all'agente di commercioSe il buon fine dell’affare è un fatto costitutivo del diritto alla provvigione, ciò che rileva ai fini della deduzione dei costi relativi è l’esecuzione, o l’obbligo di esecuzione del contratto, che costituisce il dies a quo per la esigibilità della provvigione e per la conseguente certezza del costo.

Questo il decisum della Corte di Cassazione, che, con la sentenza n. 1976 del 04.02.2015, ha anche affermato che non è possibile invocare il collegamento, o parallelismo, tra nascita del diritto alla provvigione in capo all’agente e diritto del preponente a dedurre il costo della provvigione. Tale collegamento va fatto, invece, tra esecuzione, o obbligo di esecuzione del contratto, da cui normativamente discende l’esigibilità della provvigione, e diritto del preponente di esporre il costo.

 

Nel caso all’attenzione della Corte, l’Amministrazione ricorrente denunciava, tra le altre, la violazione degli artt. 75 TUIR e 1748 c.c.. Le provvigioni dell’agente sono del resto qualificate come prestazioni di servizi, i cui corrispettivi si considerano conseguiti alla data in cui le prestazioni sono ultimate.

E dunque solo l’esecuzione del contratto tra il preponente e il terzo (o cliente) rileva ai fini dell’individuazione dell’esercizio di competenza delle provvigioni, non rilevando il momento in cui sorge il diritto alla provvigione.

Nel contratto di agenzia, a ben vedere, si verificano in sostanza le seguenti fasi: promozione del contratto: quando il contratto promosso dall’agente viene sottoscritto dal cliente; conclusione del contratto: quando il contratto sottoscritto dal cliente viene accettato dalla società venditrice (o preponente); regolare esecuzione del contratto: quando la società venditrice (o preponente) consegna, ad esempio, i beni al cliente; incasso del prezzo da parte della società venditrice (o preponente).

Il diritto alla provvigione da parte dell’agente è stabilito, come detto, dall’art. 1748, che distingue i seguenti momenti: momento di acquisizione della provvigione (o diritto alla provvigione) e momento di esigibilità (o incasso) della provvigione, già acquisita.

Il momento di acquisizione è la data in cui l’operazione promossa dall’agente è stata conclusa tra le parti, mentre il momento di esigibilità è la data in cui il preponente ha eseguito, o avrebbe dovuto eseguire, la prestazione.

Ai fini della deducibilità del costo, come dice la Corte, ciò che rileva è dunque l’esecuzione (e non la mera conclusione) del contratto. La provvigione è infatti esigibile nel momento e nella misura in cui il preponente ha eseguito o avrebbe dovuto eseguire la prestazione e non è pertanto comunque necessaria la prova del buon fine dell’affare e cioè, in sostanza, del pagamento del prezzo da parte del cliente.

Il recupero di costi per competenza è peraltro un recupero “tipico” dell’Amministrazione Finanziaria.

Tale recupero viene spesso tacciato di “ingiustizia”, dato che è fondato su una previsione meramente formalistica, quale appunto il concetto di competenza fiscale.

Come è noto, infatti, i ricavi, le spese e le altre componenti positive e negative concorrono a formare il reddito d’impresa nell’esercizio di competenza.

 

Ciò che risulta di solito oggetto di “diatriba” tra Fisco e contribuente è in particolare il presupposto della certezza e della obiettiva determinabilità che le componenti reddituali devono avere perché possano essere considerate di competenza di un determinato esercizio.

Come appunto nel caso delle provvigioni affrontato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento.

Si deve allora ricordare che la certezza e l’obiettiva determinabilità rilevano come principi integrativi dei momenti di competenza espressamente prescritti e non come criteri identificativi del momento di competenza.

Non potendo la certezza essere concepita come effettiva variazione numeraria, essa deve essere allora intesa in senso giuridico.

In ordine, poi, al requisito della obiettiva determinabilità dell’ammontare, e cioè del quantum della componente reddituale, sono state elaborate nel tempo varie tesi:

  • la formula normativa si risolverebbe nella possibilità di una ragionevole stima (Nanula, Il problema della deducibilità dei costi incerti nella tassazione del reddito d’impresa, in “Dir. prat. trib.”, 1987, I, pagg. 356 e seguenti);

  • l’imputazione a periodo sarebbe ammessa, anche se di ammontare incerto, purché questa incertezza sia relativa, ossia vi siano motivi tali da far ritenere che la quantificazione fatta sia di massima, quella giusta (CTC 5459/91);

  • l’obiettiva determinabilità andrebbe definita soltanto in senso negativo come criterio tendente ad escludere dal computo del reddito d’impresa componenti quantificabili in base a mere congetture soggettive, ovvero a calcoli probabilistici (Nuzzo, Bilancio di esercizio cit., pagg. 52-54; Fantozzi, Diritto tributario, Torino 1998, pag. 682).

 

Risultando arduo ridurre l’obiettiva determinabilità alle stime ed alle previsioni probabilistiche (cosa peraltro esclusa anche dalla Corte Suprema) è senza dubbio preferibile quest’ultima concezione funzionale.

Tuttavia l’obiettiva determinabilità non è riducibile a regole preconfezionate e dovrà quindi essere verificata di volta in volta (a maggior ragione, in sede giudiziaria, laddove vige il principio del libero convincimento del giudice), tenendo conto delle peculiarità tecnico-aziendali e delle circostanze di fatto.

In questo è vero che c’è una competenza astratta e una concreta.

Ed è proprio questa competenza concreta che l’Ufficio, quando le prestazioni sono quantificabili, deve adottare come presupposto di recupero a tassazione.

Il principio di competenza economica, così come delineato dal legislatore, a ben vedere, non è dunque un principio irrazionale o svincolato dalla realtà, dato che permette di rappresentare il risultato di esercizio in modo reale ed effettivo, considerato oltretutto che la correlazione tra ricavi e costi è un criterio unanimamente condiviso per individuare l’esercizio di competenza.

Tra componenti attive e componenti passive del reddito d’impresa deve sussistere infatti un collegamento funzionale, per cui le spese e le altre componenti negative sono deducibili solo se e nella misura in cui si riferiscano ad attività o beni da cui (in quell’esercizio) derivano ricavi od altri proventi che concorrono alla formazione del reddito imponibile.

Il profilo della correlazione tra costi e ricavi trova giustificazione quindi non soltanto in termini ragionieristici, ma anche giuridico tributari, considerato il fondamentale principio di capacità contributiva.

Il legislatore potrà dunque scegliere il criterio di imputazione temporale che riterrà più opportuno, cassa o competenza che sia.

Tuttavia, una volta scelto il criterio, dovrà esserne rispettata l’intrinseca razionalità, rinvenibile in particolare nella correlazione tra costi e ricavi, che rappresenta un criterio inderogabile per la tassazione del reddito effettivo e quindi per il rispetto del principio di capacità contributiva.

3 marzo 2015

Giovambattista Palumbo