Operazioni giudicate dal Fisco antieconomiche: i rischi di accertamento sull'IVA

in caso di contestazione di operazioni antieconomiche quali sono le possibilità per l’Agenzia delle entrate per procedere ad un accertamento anche per l’IVA, stante la differenza fra questa imposta e le imposte dirette?

In quest’ultimo periodo vanno registrate una serie di sentenze della Corte di Cassazione che toccano il campo Iva, ai fini dell’antieconomicità.

Partiamo dall’ultimo pronuncia della Cassazione (sentenza n. 25999 del 10 dicembre 2014, ud. 25 marzo 2014) dove la Corte ha affermato che “ … la manifesta illogicità od anomalia della condotta tenuta dal soggetto economico nella realizzazione della operazione rappresentata in fattura – in quanto risulti in evidente contrasto con i normali criteri economici della gestione d’impresa – bene poteva e può essere eccepita dalla Amministrazione finanziaria come elemento indiziario, grave e preciso, a contestazione della mancanza di corrispondenza, in tutto od in parte, della rappresentazione cartolare fornita dalla fattura con l’effettiva realtà della operazione sottostante, e ciò tanto in riferimento alla ipotesi di condotta in frode al Fisco, attuata attraverso la simulazione assoluta del negozio giuridico e la inesistenza oggettiva della operazione, quanto in riferimento al diverso fenomeno della elusione fiscale (abuso del diritto)”.

Osserva la Corte che il diritto alla detrazione dell’Iva “può essere escluso soltanto se l’Amministrazione finanziaria dimostri l’antieconomicità manifesta e macroscopica dell’operazione – come tale esulante dal normale margine di errore di valutazione economica – che assume rilievo quale indizio di non verità della fattura, e, dunque, di non verità dell’operazione stessa ovvero di non inerenza della destinazione del bene o servizio all’utilizzo per operazioni assoggettate ad IVA: solo in tal caso spetterà allora all’imprenditore dimostrare che la prestazione del bene o servizio è ‘reale’ ed ‘inerente’ all’attività svolta (cfr., in termini Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 22130 del 27/09/2013)”.

Le precedenti pronunce

Con la sentenza 4 giugno 2014, n. 12502, la Corte di Cassazione, pur confermando la legittima applicazione del valore normale nelle operazioni infragruppo, ha ritenuto che la sola antieconomicità non sia sufficiente ai fini del rilievo Iva. Sintetizziamo i principi espressi dalla Corte Suprema.

  • Per la determinazione del reddito d’impresa, ai fini dell’apprezzamento a scopi fiscali delle varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito, va applicato il principio, avente portata generale, stabilito dall’art. 9 del d.P.R. n. 917 del 1986, che non ha soltanto natura e rilevanza contabile, e che impone quale criterio valutativo il riferimento al normale valore di mercato …. per i corrispettivi, proventi, spese ed oneri in natura presi in considerazione dal contribuente, conseguendone che il Fisco non può considerare legittimamente appostati costi ingiustificati, nella parte superiore al normale valore di mercato (sin da Cass. 10802/2002)”.

  • in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici (Cass. 1372/2011, 21390/2012)

  • rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa, con possibile negazione della deducibilità di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato, non essendo l’Ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o nei contratti”.

  • non automatica applicabilità dei medesimi principi in materia di detraibilità dell’IVA, che sarebbe da disconoscere in relazione ad operazioni connotate da una mera finalità di elusione o risparmio d’imposta, connessa alla descritta ingiustificata deduzione di costi superiori a quelli di mercato, dovendosi mantenere fermo il principio per cui, d’ordinario e per tale tributo, il diritto alla citata detrazione – in ragione di costi antieconomici sostenuti dal contribuente – resta ispirato al criterio della neutralità, in base al quale ogni fornitore o prestatore di servizio che abbia corrisposto l’IVA può dettarla dai costi sostenuti ed interrompendosi il meccanismo solo allorché il bene o il servizio siano resi al consumatore finale”.

  • in condizioni normali non è consentito all’Amministrazione rideterminare il valore delle prestazioni e dei servizi acquistati dall’imprenditore escludendo il diritto a detrazione se il valore sia ritenuto antieconomico e dunque diverso da quello da reputare normale o comunque tale da produrre un risultato economico, una diversa verifica apparendo invece eccezionalmente ammessa – secondo un’apertura di questa Corte – allorché ‘la riscontrata antieconomicità rilevi quale indizio di non verità della fattura, nel senso di non verità dell’operazione, oppure di non verità del prezzo o, ancora, di non esistenza dell’inerenza e cioè della destinatone del bene o del servizio acquistati ad essere utilizzati per operazioni assoggettate ad IVA’ e perciò se ‘l’amministrazione riesce a dimostrare l’antieconomicità manifesta e macroscopica, come tale esulante dal normale margine di errore di valutazione economica, spetterà all’imprenditore dimostrare che la prestazione del bene o del servizio presenta comunque le caratteristiche per ritenersi reale ed inerente rispetto all’attività svolta… Potrà ancora accadere che l’antieconomicità costituisca indizio di abuso del diritto che, com’è noto, presuppone un uso ‘artificioso’ di una forma giuridica e cioè l’uso concreto di essa non per l’affare per il quale essa è tipicamente prevista, ma per uno scopo diverso, univocamente ed esclusivamente rivolto a perseguire un indebito risparmio fiscale (così Cass. 22130 e 22132/2013)’”.

Già precedentemente, con l’Ordinanza n. 10041 dell’8 maggio 2014 (ud 3 aprile 2014) la Corte di Cassazione aveva avuto modo di affrontare la questione. Nel caso sottoposto alla Corte, l’ufficio aveva accertato un maggior reddito in ragione di vendite immobiliari sottocosto e, per altro verso, redditi non dichiarati in ragione della cessione di un credito di Euro 150.000,00 per il corrispettivo di soli Euro 30.000,00.La Corte da atto e conferma che, con precipuo riferimento alle imposte sui redditi, è stato “reiteratamente riconosciuto che rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e la rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio d’impresa, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa – cfr. Cass. n. 12813/2000 (con riferimento all’ILOR); Cass. n. 9497/2008 e Cass. n. 3243/2013, Cass. n. 1711/2007 (conriferimento all’IRPEG); Cass. n. 7487/2002; Cass. n. 10802/2002; Cass. n. 5463/2003; Cass. n. 398/2003; Cass. n. 19150/2003. V anche Cass. nn.1821/2001, 6337/2002, 793/2004“. Secondo i Giudici Supremi, “alla base di questo indirizzo vi è il convincimento che in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, rimasto inspiegato da parte del contribuente, è pienamente legittimo l’accertamento ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art.39, comma 1, lett. d). Ragion per cui il giudice di merito che giunga a ritenere illegittimo l’accertamento è tenuto a specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatica di possibili violazioni di disposizioni tributarie – Cass. n.1821/2001“.Tuttavia, osservano i giudici, che in precedenza, la stessa Corte Suprema, “chiamata a verificare la possibilità ed eventualmente i limiti entro i quali è possibile estendere i principi giurisprudenziali teste affermati al tributo IVA, ha affermato che in caso di contestazione di operazioni antieconomiche, l’amministrazione non può rettificare l’Iva detratta sugli acquisti, a meno che si tratti di operazioni inesistenti, di sovrafatturazioni o di un più ampio contesto di abuso del diritto. Ciò perchè la regola sull’antieconomicità è propria dell’imposizione diretta e può estendersi anche all’Iva solo nell’osservanza di tutti i principi enunciati in materia dalla Corte di Giustizia, a tenore dei quali, in via generale, non è consentita alcuna limitazione al diritto di detrazione – Cass. n.22130/2013“.

 

Detta sentenza appare significativa in ordine all’Iva, in quanto confermativa della pronuncia n. 22130 del 27 settembre 2013 (ud. 8 aprile 2013), ove era stato già affermato che non è possibile “applicare direttamente ed automaticamente i principi espressi in tema di imposizione diretta con riguardo al tema dell’antieconomicità all’interno dell’IVA, a ciò ostando la particolare natura del tributo da ultimo descritto, tutto correlato al principio di neutralità che si esprime attraverso il riconoscimento ad ogni fornitore o prestatore di servizio che ha corrisposto l’IVA per l’acquisto di beni o servizi di detrarre l’IVA relativa ai costi sostenuti secondo il noto meccanismo della detrazione. Infatti, il sistema delle detrazioni è inteso ad esonerare interamente l’imprenditore dall’IVA dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività economiche. Il sistema comune dell’IVA garantisce, in tal modo, la neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati delle dette attività, purchè queste siano, in linea di principio, di per sè soggette all’IVA (v., segnatamente, sentenze Gabalfrisa e a., cit., punto 44; 21 febbraio 2006, Halifax e a., C-255/02, Racc. pag. I 1609, punto 78, nonchè Mahagèben e David, cit., punto 39;Corte giust. 6 settembre 2012, C-324/1 l.Gabor Toth, p. 24“. La Corte di Giustizia ha sottolineato “la centralità del diritto di detrazione nel meccanismo dell’IVA, diritto che, in linea di principio, non può subire limitazioni, essendo inteso ad esonerare interamente l’imprenditore dall’IVA dovuta o pagata nell’ambito delle sue attività economiche. Ed è proprio questo meccanismo a consentire la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale che si interrompe allorchè il bene o servizio viene reso al consumatore finale”.

 

La Corte Europea ha altresì affermato che “la circostanza che un’operazione economica sia effettuata ad un prezzo superiore o inferiore al prezzo di costo, e dunque a un prezzo superiore o inferiore al prezzo normale di mercato, è irrilevante (v., Corte giust. 20 gennaio 2005, causa C-412/03, Hotel Scandio Gasaback, punto 22)”. E, “si è, nella medesima direzione, precisato che qualora beni e servizi siano forniti a un prezzo artificialmente basso o elevato fra parti che godono entrambe interamente del diritto a detrazione dell’IVA, non può sussistere, in tale fase, alcuna elusione o evasione fiscale. E’ solo a livello del consumatore finale che un prezzo artificialmente basso o elevato può comportare una perdita di gettito fiscale – cfr. Corte giust. 26 aprile 2012, cause riunite C-621/10 e C-129/11, Balkan p. 47“.Inoltre, il sistema di tassazione diretta, nel suo complesso, non ha alcun rapporto con quello dell’IVA, e pertanto “non può ritenersi che una soluzione a livello di normativa sull’IVA diversa da quella espressa per i tributi diretti crei un vulnus ai principio di non discriminazione – cfr. Corte giust. 17 marzo 2007, causa C- 35/05”. Per la Suprema Corte, quindi, non è consentito “all’amministrazione di rideterminare il valore delle prestazioni e dei servizi acquistati dall’imprenditore escludendo il diritto a detrazione per le ipotesi in cui il valore dei beni e servizi sia ritenuto antieconomico e dunque diverso da quello da considerare normale o comunque sia tale da produrre un risultato antieconomico. Tale verifica l’amministrazione potrà solamente fare allorchè la riscontrata antieconomicità rilevi quale indizio di non verità della fattura, nel senso di non verità dell’operazione, oppure di non verità del prezzo o, ancora, di non esistenza dell’inerenza e cioè della destinazione del bene o del servizio acquistati ad essere utilizzati per operazioni assoggettate ad IVA. Se dunque l’amministrazione riesce a dimostrare l’antieconomicità manifesta e macroscopica, come tale esulante dal normale margine di errore di valutazione economica, spetterà all’imprenditore dimostrare che la prestazione del bene o del servizio presenta comunque le caratteristiche per ritenersi reale ed inerente rispetto all’attività svolta”.

Conclusioni

Dalla lettura delle pronunce della Corte di Cassazione emerge che, in pratica, se in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, e rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, ai fini Iva, i medesimi principi possono essere traslati in maniera automatica nelle ipotesi in cui l’antieconomicità sia manifesta e macroscopica, ovvero celi la falsità dell’operazione o del prezzo o l’inesistenza dell’inerenza, o comunque rientri nel più ampio contesto di abuso del diritto.

16 febbraio 2015

Gianfranco Antico