Le operazioni infragruppo delle società: deducibilità dei costi

il gruppo societario rappresenta in sostanza una modalità per l’esercizio di una o più attività di impresa da parte di soggetti che tra loro intrattengono delle relazioni partecipative, e quindi hanno interesse allo sviluppo dell’attività imprenditoriale.
I motivi per cui viene adottata una struttura di gruppo, anziché uno schema societario unitario, sono molteplici e rispecchiano le numerose possibilità offerte dal Codice Civile e in generale dall’ordinamento giuridico per l’esercizio in comune dell’attività di impresa

Aspetti generali

Il gruppo societario rappresenta in sostanza una modalità per l’esercizio di una o più attività di impresa da parte di soggetti che tra loro intrattengono delle relazioni partecipative, e quindi hanno interesse allo sviluppo dell’attività imprenditoriale.

I motivi per cui viene adottata una struttura di gruppo, anziché uno schema societario unitario, sono molteplici e rispecchiano le numerose possibilità offerte dal codice civile e in generale dall’ordinamento giuridico per l’esercizio in comune dell’attività di impresa.

Nell’ambito dei gruppi la situazione può presentarsi in concreto alquanto complessa a causa della possibile partecipazione al capitale delle società di ulteriori soggetti societari, di fondi di investimento, di persone fisiche e di soggetti non residenti, in un reticolo di rapporti partecipativi che oltretutto può mutare in continuazione per effetto di fusioni, scissioni, conferimenti, scambi di partecipazioni, etc.

Il gruppo, così come l’esistenza di relazioni a vari livelli formalizzate tra soggetti societari, che possono anche essere anche di fatto riuniti sono un’unica direzione o «regia» (a prescindere dall’esistenza di un bilancio consolidato), pone numerose problematiche quanto alla possibilità di riconoscerne una specifica valenza nell’ambito della tassazione delle imprese.

I costi nel sistema del reddito di impresa

Ancora prima di esaminare gli istituti che nell’ambito dell’ordinamento tributario italiano consentono di attribuire una parziale valenza tributaria al gruppo societario (consolidato fiscale e liquidazione IVA di gruppo), sembra opportuno verificare due questioni che attengono:

  1. al riconoscimento dell’inerenza dei costi (e delle operazioni effettuate ai fini IVA) nell’ambito di una realtà imprenditoriale più grande rispetto al singolo «soggetto fiscale»;

  2. al riconoscimento di valide ragioni economiche a fini antielusivi in presenza di operazioni poste in essere non nell’interesse diretto del soggetto agente ma in una prospettiva intersoggettiva, a beneficio di altri soggetti del gruppo o della complessiva utilità di quest’ultimo.

Occorre quindi chiedersi cosa sia – cosa rappresenti – l’inerenza nel contesto del reddito di impresa.

Seguendo la testuale formulazione del quinto comma dell’attuale art. 109 del TUIR, tale principio comporta che «le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi».

Un’interpretazione ampliativa dell’inerenza, secondo la quale il principio deve intendersi riferito all’intera attività dell’impresa anziché ai singoli beni e attività, si è però affermata sia nella prassi interpretativa dell’amministrazione, sia nella giurisprudenza di legittimità, come si evince ad esempio dall’esame della sentenza della sezione Tributaria della Corte di Cassazione n. 10062 del 1° agosto 2000.

Tale pronuncia ha fatto richiamo alla prassi ministeriale – in particolare alla circolare 7.7.1983, n. 30/9/944 – la quale aveva affermato che la «spesa inerente» doveva intendersi come legata non ai ricavi dell’impresa, bensì all’«attività» della stessa; in tale prospettiva, era stata ammessa la deducibilità delle spese sostenute per le «attività di certificazione, anche se volontaria, dei bilanci della società madre, nonostante sia palese che detti costi non abbiano un diretto collegamento coi ricavi».

Sulla base di tali argomentazioni e interpretazioni, la Cassazione riteneva doversi riconoscere alla stabile organizzazione italiana la deduzione di una quota delle spese sostenute dalla società madre residente a Hong Kong: tale orientamento si supportava sia sul modello di Convenzione OCSE del 1977 (che, per l’appunto, riconosceva in capo alla stabile organizzazione le spese di direzione e di amministrazione), sia sulla stessa «logica della produzione del reddito d’impresa, a maggior ragione quando, come nella specie, la distribuzione dei costi avviene nell’ambito di un gruppo».

È infatti evidente, secondo la Corte, «che la strategia degli investimenti di un’impresa che si trova a capo di un gruppo non può essere confinata nei limiti di quella propria del cd. investitore singolo, per il quale il processo produttivo esige il conseguimento di una redditività in tempi brevi. L’impresa capo-gruppo può, infatti, per le esigenze più svariate, che possono anche consistere nella tutela dell’immagine mondiale del gruppo o nell’intento di assicurarsi una maggiore presenza sul mercato, mantenere proprie strutture indipendenti, siano esse società partecipate, siano, come nella specie, stabili organizzazioni senza personalità giuridica distinta, anche quando dalle stesse non conseguano ricavi in tempi brevi».

In definitiva, secondo la regola di diritto enucleata dalla Cassazione, occorreva riconoscere validità alla «scelta imprenditoriale», espressione di una «corretta strategia aziendale di gruppo», consistente nell’attribuire alla stabile organizzazione italiana «una quota di costi (siano essi generali o operativi)» sostenuti dalla casa madre (nel caso di specie non residente).

Si badi bene che la sede fissa italiana, in tale contesto, opera alla stregua di un soggetto IRES residente, e che la situazione evidenziata potrebbe pertanto «coprire» una delocalizzazione di costi posta in essere dalla «madre» in Hong Kong verso la giurisdizione fiscalmente più «pesante» (l’Italia), mentre i ricavi del business rimarrebbero in capo alla stessa «madre».

A ciò si aggiunga, ma tale verifica esula dallo scopo del presente intervento, che potrebbe trattarsi di una CFC controllata o partecipata da soggetti residenti, che realizzerebbe il duplice risultato (elusivo) di delocalizzare i ricavi mantenendo i costi in Italia.

Le problematiche sopra evidenziate non compromettono la valenza generale del principio di diritto espresso dalla Corte (l’inerenza dei costi va vista in una prospettiva economica di gruppo), anche se imporrebbero di coordinare detto principio con le necessità di contrastare le pratiche abusive delle imprese.

L’economicità e le valide ragioni economiche del comportamento

Nell’ambito delle operazioni che coinvolgono diversi soggetti, tra i quali possono trovarsi i partecipanti a un gruppo societario, spiccano le varie forme di ristrutturazione aziendale che garantiscono effetti di neutralità fiscale al passaggio di aziende o di altri cespiti, nonché la fruizione delle possibilità garantite dal sistema di impresa (ad esempio il riconoscimento delle perdite in diminuzione dal reddito nelle fusioni e nelle scissioni).

La possibile censurabilità di un comportamento che venga ritenuto non fondato sotto il profilo economico, con le derivanti conseguenze ai fini fiscali, incrocia l’analoga problematica delle valide ragioni economiche, utilizzate quale criterio guida nell’ambito della valutazione della possibile elusività dei comportamenti dell’impresa, sia in sede di accertamento e interpello ex art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 e art. 21, L. n. 413/1991, sia nell’ambito dell’interpello specifico incardinato nell’ottavo comma del medesimo articolo.

Le ragioni «economicamente valide» si traducono infatti nell’«apprezzabilità economico-gestionale» del comportamento, ossia nella sua fondatezza dal punto di vista del progetto imprenditoriale, o quanto meno nel suo non essere «antieconomico», vale a dire irragionevole (alla luce della massima di «senso comune» in base alla quale l’impresa è volta a produrre un utile, e non semplicemente alla sua autoconservazione).

Va però evidenziato che l’impresa moderna si presenta sempre più come un apparato complesso, con funzioni diversificate, il cui «bene» non è necessariamente univoco e riconoscibile, anche perché presuppone l’esistenza di un’azienda «manageriale», nell’ambito della quale i fini propri della dirigenza (o del top management) non coincidono necessariamente con quelli dell’«imprenditore».

All’interno di tale ultimo soggetto (l’imprenditore) convivono poi gli amministratori, i soci, etc., con condizionamenti da parte di soggetti interni ed esterni.

Pertanto:

  • in concreto l’impresa può non essere finalizzata esclusivamente alla produzione di utili, ma anche (ad esempio) al soddisfacimento di esigenze «emotive» (il figlio può desiderare di proseguire nell’impresa paterna accettando una scarsa redditività), o etico-politiche, ideologiche, «umanitarie»…;

  • l’«imprenditore» può non essere identificabile con un soggetto unitario, e per tale ragione il suo «interesse» (e quindi il suo comportamento) può essere la risultante di spinte divergenti (maggiori remunerazioni per i manager, un maggior utile per i soci, etc.;

  • l’interesse economico-gestionale dell’organizzazione-impresa può non essere confinato all’interno dei confini del soggetto giuridico (dell’impresa individuale o societaria), estendendosi invece nel contesto plurisoggettivo delle entità che con l’impresa si pongono in relazione, come soggetti partecipati, partecipanti, collegati, partner economico-commerciali, danti o aventi causa, etc.

Sulla nozione di valide ragioni economiche, ai fini dell’applicazione della normativa di contrasto all’elusione, si è così pronunciata l’Associazione Dottori Commercialisti di Milano (ADC) con la Norma di comportamento n. 147:

la nozione di valide ragioni economiche di cui all’art. 37–bis del D.P.R. n. 600 del 1973, deve essere coerente con le indicazioni espresse dalla Corte di Giustizia europea;

con riferimento a dette valide ragioni economiche, il criterio del vantaggio economico direttamente perseguito nella gestione delle società interessate all’operazione (c.d. «business purpose») non può essere usato come unico criterio predeterminato per escludere automaticamente ragioni economiche fondate su differenti presupposti.

La nozione di valide ragioni economiche può essere meglio individuata con il supporto del diritto comunitario e, in particolare, delle statuizioni della sentenza della Corte di Giustizia del 17.7.1997, relativa al procedimento C-28/95 (sentenza «Leur–Bloem»). Secondo i Giudici della Corte, la nozione comunitaria di valide ragioni economiche è direttamente applicabile all’interno di uno Stato membro se quest’ultimo ha conformato la propria normativa nazionale alle disposizioni proprie del diritto comunitario. L’adeguamento del diritto interno italiano alle norme comunitarie si è incontestabilmente verificato con il recepimento della Direttiva n. 90/434/CEE, attraverso il D. Lgs. 30.12.1992 n. 544 (i cui articoli da 1 a 4 sono ora trasfusi negli articoli da 178 a 181 del D.P.R. 22.12.1986, n. 917, come innovato a opera del D.Lgs. 12.12.2003, n. 344).

La Corte ha affermato, in particolare, quanto segue:

  • per accertare se l’operazione presa in considerazione abbia un obiettivo elusivo le autorità nazionali non possono limitarsi ad applicare criteri predeterminati;

  • l’emanazione di una norma e, a maggior ragione, di una prassi che escludesse automaticamente e sulla base di criteri predeterminati talune categorie di operazioni dai vantaggi tributari conseguibili, risulterebbe eccessiva rispetto alla finalità di evitare l’elusione dell’obbligo fiscale;

  • le misure adottabili devono infatti rispettare un criterio di proporzionalità rispetto alla potenzialità elusiva delle operazioni;

  • anche un’operazione mirante a configurare una determinata struttura (o ristrutturazione giuridica) per un periodo limitato, e quindi non in maniera duratura, è idonea a perseguire valide ragioni economiche;

  • invece, una finalità dell’operazione che sia esclusivamente fiscale (risparmio di imposta o rimborso) non può costituire valida ragione economica.

A parere di chi scrive le valide ragioni economicamente dovrebbero poter essere riscontrate e valutate all’interno di un contesto fatto di relazioni, accordi, etc., perché lo stesso funzionamento del sistema – impresa presuppone la valorizzazione di utilità che non possono essere ridotte alle evidenze reddituali e patrimoniali di un singolo soggetto.

Il consolidato fiscale e le valide ragioni economiche infragruppo

Il parziale riconoscimento del gruppo societario (avvenuto non mediante il recepimento delle regole sul bilancio consolidato, ma attraverso l’introduzione di un imponibile «aggregato») incide certamente sulle fattispecie interessate dalla norma antielusiva «a vocazione generale» di cui all’art. 37–bis del D.P.R. n. 600/1973.

La norma da ultima citata è stata recentemente integrata attraverso l’inserimento di nuove ipotesi potenzialmente elusive, collegate sia al regime di neutralità per i trasferimenti infragruppo, sia alla contabilizzazione dei beni potenzialmente suscettibili di generare plusvalenze.

In particolare, dovrà valutarsi se l’adozione del consolidato fiscale possa legittimare un’estensione del principio di inerenza, con i suoi addentellati tipici dell’accertamento antielusivo, come la nozione di valide ragioni economiche.

Va affermato, a tale proposito, che la chiara riferibilità di un comportamento a un vantaggio (o all’eliminazione o riduzione di uno svantaggio) per l’attività d’impresa dovrebbe prevalere sulla diversa soggettività giuridica delle società cui il vantaggio è riferito, se tali società partecipano a un gruppo che, unitariamente considerato, funziona come un’unica impresa.

A maggior ragione, tale assunto è valido se il gruppo partecipa a un istituto che, come il consolidato, conduce alla determinazione di un unico imponibile complessivo.

Con riferimento al settore impositivo dell’IVA, la sentenza della Corte di Giustizia del 29.4.2004, nel procedimento C-137/02, ha ritenuto che la nozione di inerenza à valida anche per le operazioni effettuate da soggetti «altri» rispetto a quello in capo al quale sorgerebbero gli effetti fiscali, affermando il principio secondo il quale il diritto alla detrazione del tributo per le operazioni passive effettuate può avvenire anche se le relative operazioni attive imponibili sono state effettuate da un altro soggetto .

Nel contesto del consolidato fiscale nazionale e mondiale, l’estensione dell’inerenza sembra poter derivare automaticamente dal riconoscimento di una determinazione «esogena» dell’imponibile. In sede di accertamento, l’Amministrazione dovrebbe quindi valutare le «inerenze incrociate» tra consolidante e consolidate, e tra singole consolidate.

Quello della tassazione di gruppo è, per così dire, l’alveo naturale delle valide ragioni economiche intese in senso estensivo, poiché non potrà facilmente negarsi la valenza fiscale delle operazioni poste in essere all’interno del gruppo, in vista di effetti tributari che sono ormai incardinati nelle norme del TUIR.

Estremamente irrazionale sarebbe, difatti, un sistema nel quale l’Amministrazione ammettesse la determinazione di un reddito imponibile complessivo a livello di gruppo, sul quale liquidare le imposte, contemporaneamente disconoscendo gli «atti, fatti e comportamenti» non giustificati dalla società di volta in volta sottoposta ad accertamento.

Le valide ragioni economiche – sia ai fini dell’inerenza che a quelli della norma antielusiva – dovrebbero pertanto potersi ritenere sussistenti sia all’interno che all’esterno dell’area del consolidato, dato che un’operazione effettuata da una qualsiasi società consolidata potrebbe essere motivata da ragioni economiche non proprie, ma riferibili a un’altra società partecipante alla tassazione di gruppo.

Beninteso, la stessa struttura dell’art. 37–bis del D.P.R. n. 600/1973, riferendosi ad operazioni coordinate poste in essere da più soggetti all’interno di un complessivo schema elusivo, contiene in sé le possibilità logico – giuridiche per avvalorare la liceità di motivazioni ulteriori rispetto alla singola società; infatti, se l’elusione tributaria può sorgere dal concorso di più soggetti che si organizzano per ottenere un vantaggio fiscale disapprovato dall’ordinamento, l’esimente costituita dalle valide ragioni economiche dovrebbe essere comunque ravvisata in un contesto plurisoggettivo e dinamico.

Società consociate e partecipanti a un gruppo

In sede di accertamento viene talvolta contestata la congruità di alcuni componenti reddituali negativi, con effetti diretti sul riconoscimento dell’inerenza degli stessi e quindi con il disconoscimento ai fini della determinazione dell’imponibile.

Ad esempio, il compenso riconosciuto agli amministratori viene ritenuto indeducibile in sede di controllo perché eccedente rispetto al canone del «buon senso» (o del mercato), e quindi antieconomico = non inerente.

In tale prospettiva può giocare un ruolo importante l’eventuale effettuazione dell’operazione in un contesto plurisoggettivo, ossia all’interno di un «gruppo» formale o informale, vale a dire tra soggetti che sono tra loro non estranei, perché legati da compartecipazioni, da una direzione unitaria, ovvero da particolari relazioni negoziali.

A questo riguardo, anche se l’eventuale esercizio dell’opzione per il consolidato (e/o per la liquidazione dell’IVA di gruppo) costituisce un’ulteriore elemento a favore rispetto al riconoscimento dell’inerenza (e delle valide ragioni economiche) intersoggettive, è chiaro che l’interesse economico-gestionale si estende comunque ai soggetti legati tra loro da relazioni partecipative o contrattuali.

Va affermato al riguardo che la chiara riferibilità di un comportamento a un vantaggio (o all’eliminazione o riduzione di uno svantaggio) per l’attività dell’impresa dovrebbe prevalere sulla diversa soggettività giuridica delle società cui il vantaggio è riferito, se tali società partecipano a un gruppo che, unitariamente considerato, funziona come un’unica impresa.

A maggior ragione tale assunto è valido se il gruppo partecipa a un istituto che, come il consolidato fiscale, conduce alla determinazione di un unico imponibile complessivo.

Può essere altresì opportuno richiamare la sentenza della Corte di Cassazione n. 8481 dell’8.4.2009 (in materia di abuso del diritto), le cui argomentazioni fanno comprendere chiaramente l’opinione dei giudici di legittimità intorno alla possibilità di valorizzare la situazione «di gruppo», o comunque plurisoggettiva, anche rispetto all’applicazione delle norme fiscali.

Secondo la pronuncia in esame, infatti, «in dottrina è da tempo affermata la concezione oggettiva del sistema del diritto commerciale, secondo la quale assume in esso una posizione centrale l’impresa, che è eretta a punto di riferimento sostanziale della normazione, a prescindere dalla persona del suo titolare. Ne deriva una rilevanza giuridica dell’impresa tale che essa emerge anche a livello giuridico formale attraverso il conferimento di una connessa rilevanza giuridica unitaria anche al gruppo di società che sia gestore dell’impresa, superando il limite che potrebbe derivare dallo schermo delle personalità giuridiche delle singole società del gruppo. L’orientamento dottrinale trae spunto, trovandovi conferma, nella legislazione anteriore al tempo dei fatti qui in controversia (1993) in tema di bilancio consolidato (D.Lgs. 9 aprile 1991, n. 127, artt. 25-42), in tema di tutela della concorrenza e del mercato (L. 10 ottobre 1990, n. 287, artt. 2, 5 e 7), in tema di marchi d’impresa (D.Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, art. 22), e in tema di amministrazione controllata (L. Fall., art. 187, nel testo modificato dalla L. 24 luglio 1978, n. 391, art. 1), che, con riguardo ai gruppi di società, fanno tutte riferimento all’impresa piuttosto che all’imprenditore».

Ci si limita qui a riportare l’art. 22 del richiamato decreto legislativo sui marchi d’impresa – modificativo del R.D. 21.6.1942, n. 929, a norma del quale la registrazione può essere ottenuta per il marchio d’impresa utilizzato (o da utilizzare) nell’impresa propria o per imprese delle quali si abbia il controllo o che facciano uso del marchio con il consenso del soggetto «registrante». Tale formulazione, si ritiene, consente di attribuire al marchio il carattere dell’inerenza al «business» anche se esso viene utilizzato al di là dello schermo giuridico dell’impresa detentrice del bene immateriale. È tuttavia evidente che al bene medesimo deve ricollegarsi una «redditività» per l’impresa che procedesse alla deduzione dei costi a esso collegati.

I costi sostenuti a vantaggio dei partner commerciali

La Corte di Cassazione ha fornito alcune importanti indicazioni in merito alla nozione di inerenza e alla sua eventuale estensione a un contesto plurisoggettivo, trattando in particolare dei rapporti tra società che sono tra loro partner contrattuali.

Nella sentenza n. 24065 del 16.11.2011, la Suprema Corte ha affermato che la norma fiscale sulla quale si fonda la deducibilità delle spese di pubblicità e propaganda nell’esercizio in cui sono state sostenute od in quote costanti nell’esercizio stesso e nei due successivi (art. 74, secondo comma, del TUIR ante – riforma IRES, applicabile ratione temporis nel caso esaminato e ora ripresa nell’art. 108, secondo comma, del Testo Unico, che ha ampliato la rateizzazione fino al quarto esercizio successivo), «non prescinde dalla prova del requisito della “inerenza” (…) che, pertanto, grava sul contribuente anche in relazione alla congruità della spesa sostenuta rispetto “ai ricavi od all’oggetto della impresa”».

Intendendo la sponsorizzazione come species del genus «pubblicità», la Corte ha altresì rilevato che la sentenza impugnata della CTR non aveva fornito adeguata giustificazione dell’inerenza delle spese per pubblicità sostenute dalla società, «omettendo di indicare le ragioni per le quali tale inerenza possa o debba ravvisarsi anche nel caso di pubblicità svolta a favore di un soggetto diverso dalla società contribuente».

(Emerge quindi l’implicita ammissione che, in linea generale, anche la pubblicità «acquistata» a favore di un’impresa terza può risultare inerente rispetto all’attività di impresa).

In particolare, la CTR avrebbe dovuto verificare, dovendo valutare il rispetto del criterio di inerenza, se il contratto di pubblicità era stato stipulato dalla società accertata (e ricorrente) per conto proprio, ovvero in adempimento di obbligazioni assunte con il soggetto terzo a favore del quale la pubblicità era (ad esempio nel caso di mandato o di intermediazione di servizi, ovvero di contratto di sponsorizzazione o di pubblicità a favore di terzi), «a tal fine essendo rilevante considerare anche l’oggetto sociale … della società contribuente (in ipotesi lo “sponsor”) come emerge dal contratto sociale o dallo statuto».

Alla CTR veniva quindi richiesto in sede di rinvio di risolvere il problema sopra esposto (la società contribuente aveva agito per conto terzi – rimanendo quindi indifferente all’utilità prodotta dai servizi pubblicitari -, oppure in proprio – per la diffusione e la promozione della propria immagine imprenditoriale -, nel qual caso dovrebbe essere verificata l’inerenza del costo?).

«In ordine alla questione indicata, fermo il principio secondo cui la prova della inerenza della spesa grava sul contribuente, dovrà fornire adeguata motivazione il giudice del rinvio, tenendo conto che la mera prestazione pubblicitaria richiesta dalla contribuente a favore di un terzo soggetto non configura elemento sufficiente a qualificare il contratto come stipulato per conto altrui con conseguente non inerenza ed indeducibilità della spesa), dovendo essere indagati eventuali rapporti tra la società contribuente ed il terzo tali che la prima possa comunque ottenere vantaggi ed utilità dalla pubblicità svolta in favore del terzo (ad es. nel caso in cui sussista un rapporto di subfornitura, il subfornitore sostiene le spese di pubblicità del prodotto finale fabbricato o commercializzato da un’altra impresa: da tale pubblicità il sub-fornitore si attende infatti un potenziale incremento degli ordini di fornitura: od ancora nel caso di clausola di esclusiva di rivendita, il rivenditore sostiene le spese di pubblicità del marchio della ditta produttrice: la pubblicità della immagine o dei prodotti della impresa produttrice ridonda, infatti, a favore del potenziale incremento delle vendite della concessionaria in esclusiva».

Condizioni e alternative

Se può essere contestato il sostenimento di un costo a favore di un terzo soggetto (e non a diretto beneficio dell’impresa che lo deduce), occorre appurare se, nel caso concreto, il rapporto tra i due soggetti (quello che trae il beneficio diretto e quello che sostiene il costo) sia tale da generare un beneficio indiretto in capo al «deducente», a sua volta in grado di soddisfare il canone dell’inerenza.

Certo i costi sono deducibili solamente se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi: la formulazione è talmente ampia da ricomprendere, almeno in potenza, varie ipotesi di tipo intersoggettivo (gruppo, accordi negoziali). È del tutto condivisibile, tuttavia, l’orientamento espresso dalla Cassazione (nella sentenza del 2011 sopra richiamata) quanto all’esigenza di verificare in concreto l’inerenza del costo, con onere della dimostrazione in capo al contribuente.

Il rapporto partecipativo tra due o più soggetti è più forte dal punto di vista civilistico delle obbligazioni assunte e dei diritti rispetto a un semplice accordo o vincolo di tipo commerciale.

Ciò nonostante, anche all’interno di un gruppo la deduzione di un costo che in realtà è inerente rispetto all’attività della partecipata, della partecipante o della società «consociata» (partecipata / controllata dalla medesima società) non può essere ammessa alla luce dei criteri che guidano la determinazione del reddito imponibile delle imprese.

Tali criteri – quello di inerenza soprattutto – sono posti a presidio del sistema, per impedire che si verifichino indesiderabili arbitraggi tra le imprese. Se infatti il costo fosse liberamente «allocabile» tra i vari soggetti del gruppo, chiaramente, le basi imponibili potrebbero essere rimodulate secondo convenienza (senza escludere potenziali fenomeni di doppia deduzione, che potrebbero essere difficili da riscontrare).

Ciò non esclude la possibilità, per il gruppo del quale le società fanno parte, di adottare il regime del consolidato fiscale nazionale per la determinazione unitaria dell’IRES dovuta. Si tratta però di una compensazione che avviene in un momento successivo (quello della determinazione dell’imposta, appunto), mentre il reddito – con la compensazione dei componenti positivi e negativi e le relative variazioni fiscali – è distintamente calcolato in capo alle singole società partecipanti alla fiscal unit (e quindi conglobato in capo alla consolidante).

Analoghe considerazioni possono farsi quanto alla possibilità di adottare il regime della liquidazione IVA di gruppo di cui all’art. 73, ultimo comma, del D.P.R. n. 633/1972, e al D.M. 13.12.1979).

Considerazioni di sintesi

Il gruppo societario emerge nel nostro ordinamento giuridico e tributario come una rete di relazioni complesse, non sempre formalizzate contrattualmente ma necessarie al funzionamento dell’organismo (o degli organismi) che esercitano l’attività di impresa.

In questo contesto il fisco necessariamente deve inquadrare solamente, di volta in volta, con perizia di anatomista, la «sezione» che interessa ai fini del riscontro del rispetto degli obblighi formali e sostanziali prescritti, nella consapevolezza che nessuna normativa può adattarsi in tempo reale alle dinamiche aziendali concrete1.

In questo contesto i concetti di inerenza (ai fini del riconoscimento dei costi nell’imposizione reddituale e della detrazione dell’IVA a credito) e di valide ragioni economiche (ai fini del riconoscimento del carattere non elusivo dell’operazione prospettata o posta in essere dai contribuenti) rappresentano due espressioni del medesimo principio: da un lato, infatti, è il «costo» o la «spesa» a doversi giustificare in ragione della sua utilità rispetto alla produzione di utili/redditi (o nella prospettiva dell’effettuazione di operazioni imponibili); dall’altro, è l’intero comportamento attuato a doversi giustificare secondo «apprezzabili» ragioni economico-gestionali (cioè nella prospettiva della conduzione razionale dell’attività d’impresa, secondo una logica orientata alla produzione di profitti, o per lo meno alla remunerazione dei fattori produttivi).

È evidente che l’attività di un’impresa funzionante presuppone un funzionamento «osmotico», nel quale vengono acquisiti e ceduti dei fattori che incrementano o decrementano la ricchezza della struttura e la sua suscettibilità a produrre un risultato economico.

È altresì chiaro che, alla luce dei principi costituzionali e di rango legislativo, i quali in materia costituiscono un presidio insormontabile di legittimità dell’azione amministrativa, la tassazione deve gravare su un utile netto (nelle imposte sui redditi), depurato dai costi, mentre nel sistema dell’IVA la neutralità dell’imposta richiede il corretto funzionamento del binomio detrazione/rivalsa (ossia l’emersione di IVA a credito contestualmente all’effettuazione delle varie operazioni attive).

Su tale base, e alle condizioni viste sopra con riferimento alla giurisprudenza di legittimità, sembra difficile precludere in linea generale (e fatta salva la possibilità di operazioni evidentemente elusive, ovvero censurate da norme specifiche di tenore antielusivo) il riconoscimento fiscale degli oneri sostenuti in quanto correlati all’attività svolta dall’«impresa», anche se si tratta di un’impresa esercitata da più soggetti coordinati in un gruppo formale o sostanziale.

16 febbraio 2014

Fabio Carrirolo

1 Naturalmente l’accertamento, che isola i singoli fotogrammi contabili e fiscali di questa vita aziendale, consente soprattutto attraverso lo strumento del contraddittorio di apprezzare ogni elemento utile ai fini della ricostruzione puntuale dei comportamenti delle imprese.