Il giudice penale non è vincolato dall’adesione

attenzione! La Cassazione ha ritenuto che il giudice penale non è vincolato alle risultanze dell’atto di adesione, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4906 del 2 febbraio 2015, ha ritenuto che il giudice penale non è vincolato alle risultanze dell’atto di adesione, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele.

La sentenza

Afferma la Corte che “occorre tenere distinta la nozione di pretesa tributaria da quella di profitto illecito nei reati tributari e si è ribadito il principio di autonomia del procedimento penale rispetto a quello amministrativo. Sulla base di tali principi, nell’ordinanza impugnata si è valutato l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione tenendo conto del maggior reddito accertato inizialmente dall’Agenzia delle Entrate (pari ad euro 1.634.865,00 dunque superiore al 10% degli elementi attivi), piuttosto che alla quantificazione risultante dal successivo atto di accertamento con adesione n. 167690, indicando (pag. 16) le ragioni per le quali il giudice della cautela ha ritenuto di attribuire maggiore attendibilità alle quantificazioni inizialmente operate dalla Guardia di Finanza rispetto alla minore quantificazione successivamente operata dall’Agenzia territoriale con mero intento ‘negoziale’”.

Il principio

Ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice non è vincolato, nella determinazione dell’imposta evasa, all’imposta risultante a seguito dell’accertamento con adesione o del concordato fiscale tra l’Amministrazione finanziaria ed il contribuente (Sez. 3, n. 1256 del 19/09/2012 – dep. 10/01/2013, P.G. in proc. Unicredit s.p.a., Rv. 254796; Sez. 3, n. 5640 del 02/12/2011 – dep. 14/02/2012, P.M. in proc. Manco, Rv. 251892), purché indichi concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta”.

I precedenti giurisprudenziali

L’argomento affrontato non è nuovo per la Corte di Cassazione Penale che già con la sentenza n. 5640 del 14 febbraio 2012 (ud. 2 dicembre 2011), Sez. III, ha agganciato l’adesione redatta al penale. La Corte Suprema è intervenuta sul ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Napoli, nel procedimento penale nei confronti di un contribuente al quale era stato contestato il reato di dichiarazione infedele, ex art. 4, del D.Lgs.n.74/2000, per l’anno 2008, per il superamento delle soglie di punibilità ivi previste. Per effetto di ciò, il GIP del Tribunale di Napoli disponeva il sequestro preventivo dei beni mobili ed immobili nel possesso dell’indagato per un ammontare di valore complessivo equivalente all’imposta evasa. Avverso tale decreto la difesa ha proposto istanza di riesame, depositando una memoria con allegata documentazione tributaria per dimostrare come l’ammontare dell’imposta evasa era stato diversamente e concretamente determinato dall’Agenzia delle entrate, in sede di accertamento con adesione, scendendo così ben al di sotto della soglia di punibilità allora prevista (attraverso apposito piano d’ammortamento era stata già versata la prima rata). Il tribunale del riesame accoglieva l’istanza dell’indagato e per l’effetto annullava il decreto di sequestro preventivo e disponeva l’immediata restituzione all’avente diritto dei beni sottoposti a sequestro in esecuzione del decreto impugnato. Per il Tribunale “la difesa aveva dimostrato che l’ammontare della somma evasa, ad un più corretto ed approfondito accertamento svolto in contraddittorio, era ampiamente inferiore alla soglia di punibilità prevista dalla legge per il delitto contestato”.

Avverso questa pronuncia il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Napoli ha proposto ricorso per cassazione, invocando l’applicazione dell’art. 20, del D.Lgs. n. 74/2000, “secondo cui il procedimento amministrativo tributario e il giudizio tributario, in caso di contenzioso, non possono condizionare l’indagine penale in corso. Ciò implica che le evidenze raccolte in sede di indagine preliminare vanno sottoposte al vaglio tipico della procedura penale; il che può comportare la sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti di frode al fisco o di dichiarazione infedele, nonostante ogni diversa valutazione fatta l’Ufficio finanziario”. Nel caso concreto il Tribunale (sostiene il Procuratore della Repubblica ricorrente) ha omesso di verificare se le risultanze fornite dalla Guardia di Finanza costituissero comunque indizi gravi precisi e concordanti sulla sussistenza del reato e dunque sull’ammontare dell’imposta evasa per come calcolata dalla Guardia di Finanza, sulla base delle prove documentali raccolte e della ricostruzione svolta; e la negoziazione (atto di adesione redatto) tra il contribuente e il Fisco sarebbe, invece, valutabile penalmente soltanto all’atto dell’irrogazione delle pena, come circostanza attenuante, non incidendo sulla verifica della prova del fatto. La motivazione della sentenza della Corte di Cassazione prende le mosse dal reato contestato (art. 4, D.Lgs. n. 74/2000, dichiarazione infedele) il quale prevede che, fuori dei casi di dichiarazione fraudolenta di cui agli artt. 2 e 3, è punito chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi. Tale condotta è però penalmente rilevante solo quando, congiuntamente:

a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a Euro 103.291,38 (ante D.L. n.138/2011);

b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a € 2.065.827,60 (ante D.L. n. 138/2011).

 

Il superamento di tale soglia rappresentata dall’ammontare dell’imposta evasa costituisce (come già riconosciuto dalla Cassazione, sez. 3′, n. 25213/2011) una condizione oggettiva di punibilità, come tale sottratta alla rappresentazione del fatto da parte del soggetto agente. Rileva quindi, in linea di massima, l’accertamento del quantum dell’obbligo tributario (cfr. Cass., sez. 3′, n. 24811/2011, che ha confermato che non è ipotizzabile il reato laddove la pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria si collochi al di sotto della soglia suddetta). Tuttavia, osserva la Corte (richiamando una precedente pronuncia (Cass., sez. 3′, 26 febbraio 2008 – 28 maggio 2008, n. 21213) “che ai fini dell’individuazione del superamento o meno della soglia di punibilità, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche ad entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario. Quindi è ben possibile che la pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria venga ridimensionata o addirittura invalidata nel giudizio innanzi al giudice tributario. Ciò però non vincola il giudice penale e quindi non può escludersi che quest’ultimo possa eventualmente pervenire – sulla base di elementi di fatto in ipotesi non considerati dal giudice tributario – ad un convincimento diverso e ritenere nondimeno superata la soglia di punibilità per essere l’ammontare dell’imposta evasa superiore a quella accertata nel giudizio tributario. Ma i possibili esiti del giudizio tributario, che può definirsi anche con una pronuncia meramente in rito, costituiscono un dato ben distinto dalla pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria che fissa il limite della soglia di punibilità: il giudice penale non è vincolato all’accertamento del giudice tributario, ma non può prescindere dalla pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria”.

 

In pratica, la Corte fa sempre salvo il principio del doppio binario penale/tributario: tuttavia, se il giudice penale non è vincolato dall’accertamento fiscale, non può comunque prescindere dalla pretesa tributaria.

L’iniziale pretesa tributaria, ridimensionata da un atto negoziale concordato tra le parti, non vincola il giudice penale all’imposta così “accertata“; “ma per discostarsi dal dato quantitativo risultante dall’accertamento con adesione o dal concordato fiscale per tener conto invece dell’iniziale pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria al fine della verifica della soglia di punibilità prevista dagli artt. 4 e 5 citati occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta”.

E sicuramente appare difficile riscontrare per il giudice penale concreti elementi che rendano maggiormente attendibile l’imposta accertata o accertabile rispetto a quella concordata. Come rilevato dalla migliore dottrina1se la segnalazione in Procura è stata eseguita dallo stesso ufficio che poi procede anche all’adesione/conciliazione/parziale autotutela, non vi è dubbio che gli elementi siano i medesimi. Se, invece, la segnalazione è pervenuta dalla GdF, sarebbe singolare che i verificatori, salvo casi particolari, non abbiano comunicato all’Agenzia delle Entrate tutte le informazioni utilizzate per quantificare compiutamente l’evasione in sede di notizia di reato all’autorità giudiziaria”. Nel caso di specie, “il tribunale ha verificato che l’imposta risultante dall’accertamento con adesione era (sensibilmente) inferiore alla soglia di punibilità e correttamente ha ritenuto venir meno, al fine della cognizione dei fatti in sede cautelare, il fumus commissi delicti”. Mentre, il Procuratore della Repubblica ricorrente, “pur esattamente deducendo l’autonomia di valutazione del giudice penale, non ha allegato alcuna circostanza di fatto, risultante dagli atti di indagine e non considerata dal tribunale, per poter ritenere che l’imposta evasa fosse di importo maggiore e raggiungesse la soglia di punibilità”.

 

Richiamando proprio detta sentenza (n. 5640/2012), la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n.17706 del 18.4.2013, ha ritenuto che “il giudice penale non è vincolato dalle risultanze dell’atto negoziale concordato dal contribuente evasore con l’ente impositore, ma sola dalla considerazione metodologica dell’esistenza di un tale diverso contenuto dell’obbligazione tributaria, rispetto a quella originariamente contestata con l’avviso di accertamento. Il Giudice, Infatti, deve solo considerare le due diverse motivazioni e aderire a quella delle due che le risultanze processuali indicano come provata. Ciò che nella specie è stato, avendo i giudici di merito motivato, in maniera esaustiva e priva di vizi logici e giuridici, In ordine alla veridicità del primo accertamento, alla stregua dei dati e degli elementi univocamente indiziari come sopra richiamati”.

 

Con la sentenza n.7615 del 18 febbraio 2014, n. 7615 la Corte di Cassazione fa giocare l’atto di adesione redatto sul calcolo delle soglie di punibilità. Osserva la Corte che, “ai fini dell’individuazione del superamento o meno della soglia di punibilità, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche ad entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria (Sez. 3, n. 36396 del 18/05/2011, Mariutti, Rv. 251280; Sez. 3, n. 21213 del 26/02/2008, De Cicco, Rv. 239984). È quindi ben possibile che la pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria venga ridimensionata o addirittura invalidata nel giudizio innanzi al giudice tributario, senza che ciò possa vincolare il giudice penale e senza che possa quindi escludersi che quest’ultimo pervenga – sulla base di elementi di fatto in ipotesi non considerati dal giudice tributario – ad un convincimento diverso e ritenere nondimeno superata la soglia di punibilità per essere l’ammontare dell’imposta evasa superiore a quella accertata nel giudizio tributario. E ovvio però che di tale diverso convincimento occorre dare specifica e congrua motivazione”.

La Corte precisa, altresì, “ che i possibili esiti del giudizio tributario, che può definirsi anche con una pronuncia meramente in rito, costituiscono un dato ben distinto dalla pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria che fissa il limite della soglia di punibilità: il giudice penale non è vincolato all’accertamento del giudice tributario, ma non può prescindere dalla pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria (così Sez. 3, n. 5640 del 2/12/2011 – dep. 14/02/2012, Manco, Rv. 251892). L’accertamento con adesione e ogni forma di concordato fiscale si collocano sul crinale della distinzione appena tracciata: c’è un’iniziale pretesa tributaria che poi viene ridimensionata non già dal giudice tributario, ma da un atto negoziale concordato tra le parti del rapporto. Anche in tal caso, dunque, il giudice penale non è vincolato all’imposta così ‘accertata’; ma per discostarsi dal dato quantitativo risultante dall’accertamento con adesione o dal concordato fiscale per tener conto invece dell’iniziale pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria al fine della verifica della soglia di punibilità prevista dall’art. 4 citato, occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta”. Nel caso di specie, “ a fronte della documentata esistenza, per gli anni di imposta 2006, 2008 e 2009 di avvisi di accertamento notificati dall’Agenzia delle entrate chiaramente indicanti una rideterminazione della imposta evasa in misura nettamente inferiore non solo a quella indicata in imputazione ma anche alla soglia di punibilità predetta, il Tribunale ha omesso ogni valutazione degli elementi da essa emergenti”.

 

Con la sentenza n. 19138 del 9 maggio 2014 della III Sezione penale la Corte di Cassazione ha confermato che, “sia pure con riferimento al reato di dichiarazione infedele, che, pur non essendo il giudice vincolato, nella determinazione dell’imposta evasa da ritenersi rilevante onde reputare accertato o meno il superamento della soglia di punibilità, all’imposta risultante a seguito dell’accertamento con adesione o del concordato fiscale tra Amministrazione finanziaria e contribuente, è tuttavia necessario che, onde potersi discostare dal dato quantitativo convenzionalmente accertato e tenere, invece, conto dell’iniziale pretesa tributaria dell’Erario, risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta” (Sez. 3, n. 5640 del 02/12/2011, dep. 14/02/2012 e Sez. 3, sentenza n. 37954 del 2012). Nel caso di specie, la stessa ordinanza impugnata da atto dell’intervenuto accertamento con adesione o, comunque, di un concordato in forza del quale l’importo, inizialmente ammontante ad € 689.400,00, è stato poi ridotto – nella prospettazione difensiva – sino ad € 351.155,01, per di più comprensivo, a quel risulta, anche delle sanzioni. È quindi ben possibile che la pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria venga ridimensionata o addirittura invalidata nel giudizio innanzi al giudice tributario, senza che ciò possa vincolare il giudice penale e senza che possa quindi escludersi che quest’ultimo pervenga – sulla base di elementi di fatto in ipotesi non considerati dal giudice tributario – ad un convincimento diverso: è ovvio però che di tale diverso convincimento occorre dare specifica e congrua motivazione”.

Precisano i giudici che “i possibili esiti del giudizio tributario, che può definirsi anche con una pronuncia meramente in rito, costituiscono un dato ben distinto dalla pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria. L’accertamento con adesione e ogni forma di concordato fiscale si collocano sul crinale della distinzione appena tracciata: c’è un’iniziale pretesa tributaria che poi viene ridimensionata non già dal giudice tributario, ma da un atto negoziale concordato tra le parti del rapporto. Anche in tal caso, dunque, il giudice penale non è vincolato all’imposta così “accertata”; ma per discostarsi dal dato quantitativo risultante dall’accertamento con adesione o dal concordato fiscale per tener conto invece dell’iniziale pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria, occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta”. A fronte della documentata esistenza, per gli anni di imposta 2007, 2008 e 2009 (nonché, per l’anno 2006 e l’anno 2010, di un debito tributario pari a zero) di una conciliazione giudiziale con l’Agenzia delle entrate chiaramente indicante una rideterminazione della imposta evasa in misura nettamente inferiore a quella indicata in imputazione, “il Tribunale ha omesso ogni valutazione degli elementi da essa emergenti, giustificando il proprio convincimento della sussistenza, anche sotto tale preliminare profilo, del fumus commissidelicti, con l’affermazione secondo la quale la conciliazione giudiziale non rileverebbe sotto il profilo penale e non apparirebbe decisiva al fine di rideterminare l’ammontare del profitto del reato tributario: affermazione evidentemente apodittica, che non tiene conto del ben diverso criterio di calcolo seguito dall’amministrazione finanziaria e della relativa determinazione finale (che pure, come detto, costituisce invece dato dal quale il giudice penale non può prescindere)”.

18 febbraio 2015

Gianfranco Antico

 

1 IORIO, Gli strumenti deflativi eliminano il reato, in “Il Sole24ore”, edizione del 18 febbraio 2012.