Operazioni antieconomiche, accertamento induttivo e onere della prova

in caso di contestazione di operazioni antieconomiche può scattare l’accertamento induttivo sul reddito: ecco come l’onere della prova trasla sul contribuente

Con l’ordinanza n. 22638 del 24 ottobre 2014 (ud 8 ottobre 2014) la Corte di Cassazione ha addossato sul contribuente l’onere di dimostrare l’economicità dell’operazione.

Nel caso in questione, l’accertamento si reggeva su diverse presunzioni, “costituite dai prezzi indicati nei rogiti di trasferimento in misura del tutto bassa, tenuto conto dei dati dell’OMI, e della Federazione nazionale degli agenti immobiliari; del fatto che di frequente il prezzo era addirittura inferiore al mutuo stipulato per l’acquisto, essendo inverosimile e indimostrato che l’importo potesse comprendere persino il costo della ristrutturazione; inoltre quelli di produzione erano addirittura superiori al prezzo indicato nelle cessioni”.

La sentenza

In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’esistenza dei presupposti per l’applicazione del metodo induttivo, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, lett. d), non esclude che l’Amministrazione finanziaria possa servirsi, nel corso del medesimo accertamento e per determinate operazioni, del metodo analitico D.P.R. n. 600 cit., ex art. 39, comma 1, oppure contemporaneamente di entrambe le metodologie, come nella specie (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 13350 del 10/06/2009, n. 12904 del 2008). Del resto il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), consente l’accertamento induttivo del reddito, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, qualora la contabilità possa essere considerata complessivamente ed essenzialmente inattendibile, in quanto confliggente con regole fondamentali di ragionevolezza, potendo il giudizio di non affidabilità della documentazione fiscale essere determinato dall’abnormità dell’espressione finale. Qualora l’ufficio abbia sufficientemente motivato l’accertamento sintetico sia specificando gli indici di ricchezza sia dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, il provvedimento di rettifica del reddito è di per sè legittimo, non essendo necessario che sia stato preceduto dal riscontro analitico della congruenza e della verosimiglianza dei singoli cespiti di reddito dichiarati dal contribuente… Invero in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora sia contestata una plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione a titolo oneroso di un’unità immobiliare, l’onere di fornire la prova che l’operazione è parzialmente (quanto al prezzo di vendita) simulata, spetta all’Amministrazione finanziaria, la quale adduca l’esistenza di maggiori ricavi, e può essere adempiuto, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti (non ostandovi il divieto della doppia presunzione, il quale attiene esclusivamente alla correlazione tra una presunzione semplice con altra presunzione semplice, e non può quindi ritenersi violato nel caso in cui da un fatto noto si risalga ad un fatto ignorato, che a sua volta costituisce la base di una presunzione legale), rimanendo a carico del contribuente l’onere di superare la presunzione di corrispondenza tra il valore di mercato ed il prezzo incassato (V. pure Cass. Sentenze n. 245 del 09/01/2014, n. 23608 del 2011)”.

Del resto, prosegue la Corte, “nel giudizio tributario, una volta contestata dall’Erario l’antieconomicità di una operazione posta in essere dal contribuente che sia imprenditore commerciale, perchè basata su contabilità complessivamente inattendibile, in quanto contrastante con i criteri di ragionevolezza, diviene onere del contribuente stesso dimostrare la liceità fiscale della suddetta operazione, ed il giudice tributario non può, al riguardo, limitarsi a constatare la regolarità della documentazione cartacea. Infatti è consentito al fisco dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere minori costi, utilizzando presunzioni semplici e obiettivi parametri di riferimento, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente, che deve dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate a fronte della contestata antieconomicità (V. pure Cass. Sentenze n. 14941 del 14/06/2013, n. 7871 del 2012)”.

Breve nota

L’esame critico documentale delle movimentazioni finanziarie può evidenziare quei punti di squilibrio tra l’aspetto numerario e l’aspetto economico dei fatti di gestione, atti a supportare una diversa determinazione del presupposto d’imposta.

L’indirizzare il controllo sugli aspetti gestionali, economici e finanziari più significativi e rilevanti ai fini fiscali comporta la valutazione della congruità delle scelte operate dall’impresa, in linea con le recenti pronunce della Corte di Cassazione, fermo restando che “ l fisco non può certo interferire nel merito delle scelte imprenditoriali, disconoscendo la deducibilità di costi sostenuti in operazioni che, a posteriori, si sono rilevate un cattivo affare, né sindacare sulla necessarietà o meno di un costo1”.

I dati della dichiarazione devono essere “corretti e consoni sotto il profilio della razionalità economica e della stessa ragionevolezza. In tale modo la Corte pare costruire un criterio superiore, dominante su gli altri e tale da condizionarne il risultato … tant’è che la sua applicabilità è dalla stessa espressamente condizionata. Affinchè infatti il dato dichiarato possa essere ritenuto infedele e quindi corretto secondo questo criterio, è necessario che la differenza sia particolarmente sensibile. Solo a questa condizione può essere fatto valere il criterio esterno della razionalità economica sul dato dichiarato dal contribuente, con la conseguenza che la sua funzione è essenzialmente quella di correggere le risultanze che risultino abnorme, come si è letteralmente affermato, e quindi assolutamente incredibili2”.

Resta ancora una volta fermo che “ è fuori discussione la configurabilità di una sfera decisionale dell’imprenditore, che può scegliere quelle che ritiene le più opportune forme di esercizio dell’impresa3”, in aderenza a quanto sancito dall’art.41 della Costituzione che riconosce all’imprenditore il diritto di esercitare l’impresa in assoluta libertà, con l’unico limite rappresentato dall’assenza di contrasto con l’utilità sociale o di danno alla sicurezza, libertà e dignità umana.

La dottrina che da anni si è occupata della problematica antieconomicità/abuso del diritto ha affermato che “ attraverso la normativa antielusiva il legislatore cerca dunque di fare emergere la sostanza (illecita) sulla forma (lecita). L’elusione rappresenta infatti un abuso del concetto di legittimo risparmio d’imposta. Tale abuso realizza inoltre una distorsione della causa tipica dello strumento negoziale adottato. Eludere una norma tributaria significa infatti aggirarla tramite la scelta di operazioni contrattuali, il cui principale scopo è quello di ridurre l’onere fiscale 4.

Il quadro normativo generale passa attraverso un’attenta lettura dell’art. 39, c. 1, lett. d, del D.P.R.n.600/73, secondo cui “… l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti“.

Nel corso di questi ultimi anni sono stati diversi i contributi giurisprudenziali (nell’ambito della cd. antieconomicità) che hanno riconosciuto all’Amministrazione finanziaria il potere di sindacare le scelte imprenditoriali palesemente antieconomiche, cioè le scelte prive di assoluto buon senso.

Di recente, con la sentenza n. 15250 del 12 settembre 2012 (ud. 12 luglio 2012) la Corte di Cassazione aveva già affermato che In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’onere della prova dei presupposti dei costi, degli oneri di ogni altra componente negativa del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina del D.P.R. n. 597 del 1973, e del D.P.R. n. 598 del 1973, che del D.P.R. n. 917 del 1986, incombe al contribuente”. Prosegue la sentenza rilevando che “poichè nei poteri dell’amministrazione finanziaria in sede di accertamento rientra la valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, gravante sul contribuente, ha ad oggetto anche la congruità dei costi medesimi (Cass. 16115/07, 4554/10)”. Di conseguenza è pienamente legittimo “l’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, pur in presenza di una contabilità tenuta dal contribuente in modo formalmente regolare, qualora la contabilità medesima possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità della gestione di impresa. In tali casi è, pertanto, consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici – purchè gravi, precise e concordanti – maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente (Cass. 6337/02, 1711/07)”. In particolare (nel caso di specie) la Corte ha ritenuto “legittimo il recupero a tassazione di maggiori ricavi, induttivamente ricostruiti tramite attribuzione al venduto di parte delle merci acquistate nell’anno in considerazione, in difetto di elementi di prova adeguati, il cui onere cede – come detto – a carico del contribuente, idonei a documentare l’effettiva sussistenza ed entità delle rimanenze di magazzino”. L’accertamento induttivo effettuato dall’amministrazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, è dovuto al riscontro, operato in sede di verifica della documentazione contabile fornita dal contribuente, “dell’esistenza di un magazzino assai rilevante ed in continuo aumento, con conseguente formazione di giacenze di merci per importi molto elevati, notevolmente superiori all’ammontare degli stessi ricavi dichiarati. Tali ricavi, peraltro, erano a loro volta molto inferiori ai costi di acquisto della merce, risultandone un’evidente, macroscopica, antieconomicità della gestione aziendale facente capo al contribuente. Il che, per le ragioni suesposte, ha determinato la piena legittimità dell’accertamento induttivo operato da parte dell’Ufficio finanziario”.

Ricordiamo che con la sentenza n. 16642 del 29 luglio 2011 (ud. del 9 marzo 2011) la Corte di Cassazione aveva già ritenuto che il comportamento manifestamente contrario agli ordinari canoni dell’economia e dell’attività dell’impresa legittimasse l’Amministrazione finanziaria all’accertamento analitico induttivo (anche attraverso gli elementi desunti dalle percentuali di ricarico) incombendo al giudice di merito, che disattende i rilievi dell’ufficio impositore, motivare adeguatamente in ordine all’assenza di violazioni di norme tributarie.

E con l’ordinanza n. 18244 del 2 ottobre 2012, la Corte di Cassazione ha ancora una volta legittimato l’accertamento analitico induttivo, ex art. 39, c. 1, lett. d, D.P.R. n.600/1973, pur in presenza di contabilità formalmente regolare, ma inattendibile complessivamente, per contrasto con i canoni della ragionevolezza.In questa ipotesi, l’accertamento “è assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili, perché proprio una tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni inesistenti o di valore di gran lunga eccedente quello effettivo” (cfr. Cassazione, sentenze 951/2009 e 24532/2007).

La sentenza che si annota conferma l’ulteriore principio secondo cui, acclarata la legittimità degli accertamenti fondati sull’antieconomicità, spetta al contribuente confutare l’assunto accertativo, ed è sostanzialmente conforme all’ordinanza della Corte di Cassazione (n. 14798 depositata il 4 settembre 2012) che aveva già ritenuto legittimo il potere dell’amministrazione finanziaria, in sede di accertamento, di valutare la congruità dei costi e dei ricavi, spostando l’onere della prova sul contribuente.

1 dicembre 2014

Gianfranco Antico

1 LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, 2001, pag.579.

2 AMATUCCI-AMATUCCI, Il binomio presunzioni-razionalità economica nella tematica dell’accertamento tributario, in “il fisco”, n.22/2003, fascicolo n. 1, pag. 3379.

3 LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, 2001, pag. 580.

4 Cfr. PALUMBO, L’elusione fiscale e il concetto di abuso del diritto, in Rivista della SSEF, 2007.