Indagini finanziarie e dichiarazioni di persone terze rispetto al contribuente

quando un accertamento si basa e si scontra con dichiarazioni di terzi, si deve fare attenzione al valore processuale delle prove e degli indizi forniti

Aspetti generali

I controlli fiscali fondati sulla ricostruzione della movimentazioni sui conti correnti bancari (versamenti e prelevamenti), nonché delle altre operazioni che facciano emergere disponibilità finanziarie, e quindi una maggior capacità contributiva, in capo ai contribuenti, rappresentano una delle metodologie investigative più efficaci a disposizione del fisco.

Mentre gli accertamenti di tipo tradizionale presuppongono che il soggetto controllato eserciti formalmente un’attività economica, i controlli bancari / finanziari – come è più dell’accertamento sintetico – si orientano direttamente alle disponibilità possedute dal contribuente, a prescindere dalla fonte delle stesse.

Sotto il profilo della difesa di fronte alle attività dell’amministrazione finanziaria, occorre evidenziare che questi controlli, trasfusi dagli uffici in atti di accertamento, funzionano in base a un impianto presuntivo previsto dalla stessa normativa di riferimento.

Ciò ha legittimato taluni interpreti a ritenere che il meccanismo potesse essere disapplicato, o – meglio – reso non funzionante, mediante la produzione, da parte del controllato, di riscontri di tipo pure presuntivo e non analitico.

Sulla questione sono intervenute di recente le due sentenze della Corte di Cassazione – nn. 21302 e 21305 del 18.9.2013 -, che vengono più avanti esaminate.

Qualche parola sui controlli fiscali finanziari

I controlli di tipo bancario e finanziario, finalizzati alla ricostruzione di basi imponibili presuntivamente sottratte a tassazione, possono essere adottati sia nelle operazioni propriamente definibili di polizia tributaria, sia in quelle di polizia giudiziaria, eseguite nell’ambito di istruttorie penali riguardanti varie ipotesi criminose.

Il vantaggio dei controlli di tipo bancario/finanziario risiede, per il fisco, nella possibilità di individuare direttamente i flussi e le disponibilità di mezzi finanziari, da questi risalendo al presupposto impositivo (cioè al possesso di redditi).

Le norme che legittimano l’amministrazione fiscale – allo stato, l’Agenzia delle Entrate, oltre che la G.d.F. nell’ambito delle proprie funzioni di polizia tributaria – a controllare i conti e i rapporti intrattenuti dai contribuenti con istituti di credito, o con la società Poste Italiane S.p.a., sono riconducibili:

  • per l’IVA, all’art. 51, secondo comma, n. 7), del D.P.R. 26.10.1972, n. 633;

  • per le imposte sui redditi, agli artt. 32, primo comma, n. 7), e 33, commi secondo, terzo e sesto, del D.P.R. 29.9.1973, n. 600.

Tali articoli sono stati riformulati in senso ampliativo dalla L. 30.12.1991, n. 413.

Alcuni interventi normativi successivi hanno inciso sulle disposizioni in materia di anagrafe tributaria, permettendo la raccolta dei dati bancari e delle altre movimentazioni in quella che è stata definita «anagrafe dei rapporti».

Le indagini finanziarie si inseriscono, secondo lo schema di funzionamento dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 51 del D.P.R. n. 633/1972, in un contesto di presunzioni legali relative, suscettibili di prova contraria da parte del contribuente in sede di controllo e accertamento (prova che può essere prodotta e valorizzata sia in sede di contraddittorio nell’ambito della verifica, sia successivamente, avanti l’ufficio accertatore).

Secondo la circolare n. 1/2008 della G.d.F., la concreta operatività delle presunzioni risulta subordinata alla sussistenza dei seguenti presupposti:

  • attivazione ed esecuzione delle indagini secondo la procedura «codificata» nelle norme e nella prassi;

  • dimostrazione che, sia ai fini delle imposte sui redditi sia dell’IVA, si è tenuto conto dei dati risultanti dalla documentazione finanziaria e bancaria o dell’irrilevanza degli stessi, ovvero (soltanto per i prelevamenti non risultanti dalle scritture contabili), indicazione espressa del beneficiario della movimentazione.

Il contribuente può essere invitato dagli organismi verificatori affinché, di persona o a mezzo di rappresentante, possa far valere le proprie ragioni (contraddittorio); le richieste fatte e le risposte ricevute devono risultare da un verbale sottoscritto o che riporti il motivo della mancata sottoscrizione, del quale il contribuente ha diritto di ricevere una copia. La mancanza di tale passaggio non degrada tuttavia la presunzione legale prevista dalla norma a presunzione semplice; il contribuente non è tuttavia leso in un proprio diritto, giacché le spiegazioni utili a consentire la definizione della sua posizione potranno essere fornite più avanti, nel corso del procedimento amministrativo di accertamento o avanti il giudice tributario.

Il contribuente deve fornire una prova analitica

La prima delle due pronunce qui esaminate – Cass. 18.9.2013, n. 21302 – sortisce dal ricorso per cassazione proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso una sentenza della CTR della Toscana, la quale aveva ammesso per il contribuente la possibilità di contrastare l’accertamento mediante «prove» non rigorose a analitiche.

I giudici di merito avevano affermato in particolare che la normativa non richiede prove particolarmente circostanziate, dovendo invece essere intesa alla luce di un criterio di ragionevolezza tale da consentire ogni più ampia potestà di prova, ivi compresa quella desunta da dichiarazioni di terzi prodotte a mezzo di atti notori.

Secondo le precisazioni fornite dalla Corte, la CTR aveva applicato falsamente le norme in materia di controlli bancari, le quali non consentono al contribuente (che intenda opporsi all’accertamento finanziario) di apprestare una prova generica.

La Cassazione ha quindi riaffermato, facendo riferimento anche alla propria giurisprudenza pregressa1, che è onere del contribuente dimostrare che i proventi desumibili dalla movimentazione bancaria non devono essere recuperati a tassazione.

Questo può essere fatto (alternativamente) in due modi:

  1. dimostrando che il contribuente ha già tenuto conto di tali proventi nelle dichiarazioni;

  2. dimostrando che si è trattato di movimenti in entrata e in uscita non fiscalmente rilevanti, in quanto non riferiti a operazioni imponibili.

Di fronte quindi a una presunzione legale relativa, particolarmente penalizzante in quanto conduce a ritenere ricavi (o compensi) sia i versamenti che i prelevamenti, il contribuente può liberarsi solamente individuando analiticamente ogni movimentazione e provando che le movimentazioni concorrono alla formazione di imponibili già dichiarati, ovvero che non concorrono a operazioni imponibili (ad esempio perché soggette a ritenuta alla fonte a titolo di imposta).

La sentenza di merito è stata quindi cassata con rinvio a una diversa sezione della medesima CTR, tenuta a rinnoverà la propria valutazione attenendosi al seguente principio di diritto: «in tema di Iva, e al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dall’art. 51, 2° comma, n. 2, del DPR 26 ottobre 1972 n. 633, in virtù della quale le movimentazioni di denaro risultanti dai dati acquisiti dall’ufficio si presumono costituire conseguenza di operazioni imponibili, non è sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell’affluire di somme sui conti correnti, ma è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione del conto a operazioni già evidenziate nella dichiarazione annuale ovvero estranee alla sua attività professionale».

Le dichiarazioni extraprocessuali sono presunzioni semplici

La seconda delle due sentenze qui esaminate – Cass. 18.9.2013, n. 21305 – è assai più articolata della prima, giacché decide su cinque motivi di ricorso: solamente uno tra questi motivi è tuttavia interessante ai fini del presente contributo, che intende mettere a fuoco la questione della valenza delle dichiarazioni extraprocessuali di terzi rispetto all’accertamento «da indagini bancarie».

Si tratta, nel caso esaminato dalla Corte, di attività di accertamento compiute dall’amministrazione finanziaria nei confronti di due contribuenti (peraltro soci di due società personali)

Il relazione a tale caso, la CTR aveva osservato che l’accertamento era stato contraddetto nel merito da contrari elementi di prova.

In particolare, relativamente a uno dei due contribuenti (esercente la professione di dottore commercialista), la ripresa a tassazione aveva avuto a oggetto maggiori redditi d’impresa imputatigli in dipendenza di una abusiva attività di intermediazione finanziaria.

Sul punto il contribuente aveva prodotto in giudizio alcune dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà redatte da soggetti terzi, dalle quali emergeva la non fondatezza di tale ipotesi.

Secondo quanto affermato dalla Corte, in caso di accertamento bancario è sempre onere del contribuente dimostrare che i proventi desumibili dai movimenti sui conti non sono riferibili a operazioni imponibili.

In tal senso è necessario fornire una prova analitica2 su ogni versamento confluito nei conti e su ogni prelevamento effettuato.

Non rileva invece l’ascrivibilità del provento a una specifica attività d’impresa.

Infatti, i dati e gli elementi risultanti dai conti correnti bancari assumono rilevanza ai fini della ricostruzione dell’imponibile «se il titolare del conto non fornisca adeguata giustificazione a prescindere dalla prova preventiva che il contribuente eserciti una determinata attività e dalla natura lecita o illecita dell’attività stessa»3.

Nella normativa di riferimento – per le imposte sui redditi rappresentata dall’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 – è contenuta la previsione in base alla quale divengono «ricavi» (ovvero compensi, per i produttori di redditi di lavoro autonomo) sia i prelevamenti che i versamenti operati sui conti correnti bancari, se il contribuente non dimostra di averne tenuto conto nella base imponibile, oppure se non fornisce la prova che le operazioni analizzate sono estranee alla produzione del reddito.

L’articolo citato prevede secondo la Corte una presunzione legale a fronte della quale il contribuente, in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di libertà dei mezzi di prova, può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici.

Inoltre, «nel contesto degli elementi di prova contraria il giudice può anche considerare le risultanze di scritti proveniente da terzi, ove ritualmente prodotti in giudizio, in quanto (…) la disposizione contenuta nell’art. 7, quarto comma, del D.Lgs. 31.12.1992 n. 546, secondo cui nel processo tributario “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”, è norma limitativa dei poteri delle commissioni tributarie, e quindi vale soltanto per la diretta assunzione, da parte del giudice tributario, nel contraddittorio delle parti, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo; ovverosia per quella narrazione che acquista un particolare valore probatorio in quanto richiedente la formulazione di specifici capitoli e la prestazione di un giuramento o di un impegno da parte del terzo assunto quale teste».

Deve pertanto affermarsi il principio che, in sede di contenzioso tributario, anche al contribuente oltre che all’amministrazione finanziaria deve essere riconosciuta – in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui all’art. 111 Cost. – la possibilità di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale (come appunto le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà), le quali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e come tali devono essere valutate dal giudice nel contesto probatorio emergente dagli atti4.

Su quanto affermato dai giudici relativamente alle dichiarazioni extraprocessuali fatte valere dall’amministrazione, si osserva che è stata spesso esaminata dalla Corte la questione della valenza, appunto, delle dichiarazioni rese da terzi nel processo verbale di constatazione.

A tale riguardo è stato precisato che, ancorché il verbale faccia fede fino a querela di falso, questa sua funzione deve intendersi limitata alla provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, alle dichiarazioni rese al pubblico ufficiale stesso e agli altri fatti dal compiuti dal medesimo o che questi attesti essere avvenuti in sua presenza.

Tale valenza non si estende invece alla veridicità delle dichiarazioni rese al pubblico ufficiale da terzi, le quali continuano a costituire elementi probatori liberamente valutabili e apprezzabili dal giudice, unitamente agli altri elementi istruttorii5.

Anche le dichiarazioni extraprocessuali dei terzi, fatte valere dalle parti private nel processo, devono essere ritenute delle presunzioni semplici, da verificare attentamente a cura del giudice, il quale è tenuto a individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purché grave, preciso e concordante) alle movimentazioni bancarie contestate.

«La disposizione richiamata, cioè, non consente affatto al contribuente di apprestare una prova generica purchessia, onde adempiere all’onere dimostrativo su di lui gravante».

La sentenza di merito, secondo la Corte, aveva ignorato questi principi, «atteso che la decisione è stata sorretta, infine, da considerazioni giustappunto apodittiche, incentrate su non meglio precisate “dichiarazioni rilasciate dai soggetti interessati” compendiate in un’inesplicata (e irrilevante) affermazione di chiusura circa la loro inettitudine “a ritenere legittimo un accertamento del reddito d’impresa per l’attività di intermediazione finanziaria”».

Per tali ragioni, la sentenza è stata cassata con rinvio ad altra sezione della CTR.

Considerazioni di sintesi

Le indagini di tipo bancario e finanziario consentono la ricostruzione del reddito e del volume di affari / corrispettivi dei contribuenti in modo particolarmente puntuale e incisivo, in quanto consentono la ricostruzione di una serie di segni «più» e «meno» che automaticamente possono essere trasformati in ricavi o corrispettivi, in forza di un meccanismo di tipo presuntivo legale.

Il carattere relativo delle presunzioni permette la prova contraria: però questa deve concentrarsi sulla dimostrazione della non imponibilità delle cifre rilevate dai verificatori (e trasposte nell’accertamento), ovvero della loro inclusione nell’imponibile tassato.

La normativa cui si fa riferimento è in realtà alquanto punitiva e penalizzante in questo: che compie una pura e semplice sommatoria dei versamenti e dei prelevamenti, perché – come è noto – i primi vengono ritenuti proventi di operazioni attive «in nero», mentre i secondo sono visti come segnali di acquisti pure «in nero».

Esiste giurisprudenza che ha attenuato questo effetto della normativa (potenzialmente «duplicativo» degli imponibili), argomentando che, in forza del principio analitico sul quale si fonda la determinazione del reddito di impresa – e in certa misura anche quello autonomo-professionale), dal reddito ricostruito dell’attività economica devono sempre dedursi i relativi costi. Ciò nonostante, il rischio rimane: quando è attivato un controllo bancario – finanziario, le norme consentono di considerare reddito sia i segni «più» che i segni «meno» dei quali si diceva sopra.

Ecco allora che assume particolare importanza la possibilità del contribuente di fornire una prova contraria.

Atteso infatti che ogni attività di accertamento ha le sue peculiarità e si rivolge a una situazione concreta (ad esempio, un accertamento bancario supportato da metodologie di tipo sintetico – redditometrico potrebbe essere valutata diversamente), il titolare del conto, ma – allo stato – anche il soggetto che effettua una movimentazione extra-conto deve poter dimostrare che le somme riscontrate sono già state considerate nelle dichiarazioni dei redditi, ovvero che non dovevano esserlo a causa della loro non imponibilità6.

Per poter validamente contrastare la ricostruzione compiuta dagli uffici accertatori, questa dimostrazione deve essere analitica (deve cioè spiegare e motivare ogni versamento e ogni prelevamento).

 

10 febbraio 2014

Fabio Carrirolo

1 La sentenza richiama Cass. n. 1739/2007; Cass. n. 9573/2007; Cass. n. 21125/2010; Cass. n. 21132/2011.

2Cass. n. 7296/2012; Cass. n. 25502/2011.

3Cass. 10578/2011.

4Cass. n. 20028/2011; Cass. n. 11785/2010.

5 Cass. 9.11.2011, n. 23397.

6 Un’ipotesi concreta nella prassi potrebbe essere la seguente: il padre dispone di una certa somma (100 mila euro?), tratta da un reddito già tassato, e la regala o la presta al figlio, soggetto a controllo fiscale – finanziario, allo scopo di consentirgli di acquistare un immobile. In tale ipotesi l’imposizione non è avvenuta in capo al contribuente (figlio), bensì a una persona terza (padre): ciò nondimeno, se si pretendesse di recuperare la somma a tassazione (peraltro «duplicandola» se essa fosse già stata impiegata per l’acquisto dell’immobile), avrebbe luogo una doppia tassazione economica.