Associazioni sportive: attenzione all'accertamento induttivo!

l’associazione sportiva dilettantistica può essere legittimamente soggetta ad accertamento induttivo se svolge anche attività commerciale

La Corte di Cassazione con un recente orientamento1 ha affermato che è legittimo l’accertamento induttivo nei confronti di una associazione sportiva che svolge attività commerciale; per i giudici della Cassazione è legittimo che se l’associazione sportiva, senza fine di lucro, svolge attività commerciale debba pagare le imposte, secondo i criteri previsti per i redditi di impresa.

Il contenzioso tributario vede soccombere davanti ai giudici di secondo grado la tesi dell’associazione sportiva; la Commissione Tributaria Regionale ha ritenuto legittimo l’avviso di accertamento, nei confronti di una associazione sportiva , con il quale per l’anno 1998, veniva ricostruito in via induttiva il reddito e determinata una maggiore IRPEG, una maggiore IRAP ed una maggiore IVA, con l’irrogazione di sanzioni, essendo stato riconosciuto lo svolgimento di attività commerciale, in difetto delle prescritte scritture contabili, e non quello di attività associativa senza fini di lucro per la gestione di impianti sportivi, in particolare palestre, con servizi annessi, compreso quello di bar.

L’associazione sportiva nel ricorso in Cassazione si lamenta, in particolare, del fatto di non essere stata convocata pur avendo richiesto, dopo la notificazione del verbale di constatazione e prima dell’emissione dell’avviso di accertamento, per l’instaurazione del contraddittorio ai fini dell’accertamento con adesione; censura, inoltre, il comportamento dell’amministrazione finanziaria che non ha emesso un provvedimento di diniego della “istanza di archiviazione” del processo verbale di constatazione presentata, prima dell’emissione dell’atto impositivo poi impugnato.

Le associazioni sportive e il regime fiscale agevolato: cenni

Gli enti di tipo associativo, di cui fanno parte anche le associazioni sportive dilettantistiche, sono assoggettate, in linea di principio, alla disciplina generale degli enti non commerciali. Gli enti non commerciali determinano il reddito in maniera forfetaria, applicando al totale dei ricavi conseguiti nell’esercizio delle attività commerciali un coefficiente di redditività variabile a seconda dell’attività svolta e dell’ammontare dei ricavi conseguiti. Per le associazioni che invece scelgono il regime fiscale agevolato, contenuto nella L. 16 dicembre 1991, n. 398, è stato individuato un coefficiente ancora più favorevole. Esse, infatti, determinano il reddito sempre in maniera forfetaria, ma applicando ai proventi di natura commerciale un coefficiente di redditività molto più basso (3%). Al reddito così determinato vanno aggiunte le plusvalenze patrimoniali.

Non si tiene conto, invece, delle indennità percepite per la formazione e l’addestramento nel caso del trasferimento di un atleta da una società sportiva dilettantistica ad una società professionistica.

I proventi commerciali conseguiti nello svolgimento di attività connesse agli scopi istituzionali e quelli derivanti dalla raccolta fondi non concorrono a formare il reddito imponibile fino ad un importo complessivo di 51.645,69 euro per periodo d’imposta e , per un massimo, di 2 eventi all’anno.

Le associazioni sportive dilettantistiche possono considerare “non commerciali”, con i conseguenti vantaggi fiscali, determinate attività rese nell’ambito della vita associativa, a condizione, però, che abbiano redatto l’atto costitutivo e lo statuto nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata e che in essi siano presenti ulteriori clausole (art. 148, c. 8, del DPR 917/86). Tra queste rientrano: il divieto di distribuire utili o avanzi di gestione; l’obbligo, in caso di scioglimento, di devoluzione del patrimonio a fini di pubblica utilità; l’obbligo di redazione di un rendiconto annuale economico e finanziario; l’intrasmissibilità della quota o contributo associativo ad eccezione dei trasferimenti a causa di morte.

Ad esempio, non si considera mai “commerciale” l’attività svolta nei confronti dei propri associati in conformità agli scopi istituzionali. A prescindere dal rispetto delle citate clausole, le quote o contributi associativi incassati non concorrono a formare il reddito dell’ente.

È prevista una deroga a tale principio in base alla quale non vengono considerate di natura commerciale (e quindi non sono tassabili) le operazioni svolte in conformità allo statuto e in attuazione del fine istituzionale dell’ente, anche se comportano prestazioni dietro corrispettivi specifici. Inoltre, con un’ulteriore deroga il legislatore ha previsto che la cessione di pubblicazioni anche a terzi non soci dietro corrispettivo non è considerata commerciale se le stesse vengono cedute, prevalentemente, agli associati.

Vi sono delle attività considerate comunque oggettivamente commerciali. Tra esse rientrano: le cessioni di beni nuovi prodotti per la vendita; le erogazioni di acqua, gas, energia elettrica e vapore; la gestione di fiere ed esposizioni a carattere commerciale; la gestione di spacci aziendali e di mense; la somministrazione di pasti; le prestazioni di trasporto e di deposito; l’organizzazioni di viaggi e di soggiorni turistici; le prestazioni alberghiere e di alloggio; le prestazione di servizi portuali ed aeroportuali; la telecomunicazioni e radiodiffusioni; la pubblicità commerciale.

In sostanza gli enti di tipo associativo possono godere del trattamento agevolato2 a condizione non solo dell’inserimento, negli loro atti costitutivi e negli statuti, di tutte le clausole dettagliatamente indicate nel citato articolo 5, “ma anche dell’accertamento che la loro attività si svolga, in concreto, nel pieno rispetto delle prescrizioni contenute nelle clausole stesse”; la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza che aveva riconosciuto il trattamento agevolato ad un associazione sportiva dilettantistica, sulla sola scorta dell’accertata appartenenza ad una delle categorie previste dalle citate disposizioni e della conformità dello statuto, alle norme stabilite per il riconoscimento della relativa qualifica3.

La Corte di Cassazione legittima l’accertamento induttivo

La Corte di Cassazione4 afferma che in tema di accertamento con adesione, la mancata convocazione del contribuente, a seguito della presentazione dell’istanza ex art. 6 del D.Lgs. 16 giugno 1997, n. 218, non comporta la nullità del procedimento di accertamento adottato dagli Uffici, non essendo tale sanzione prevista dalla legge. Per i giudici di legittimità nessuna norma impone in via generale l’obbligo di previa convocazione prima dell’accertamento, sia perché non subisce pregiudizi il diritto di difesa del contribuente, che può essere esercitato non solo nella fase contenziosa, ma anche subito dopo l’accertamento, mediante la procedura di definizione con adesione, durante la quale sono sospesi il termine per l’impugnazione dell’avviso di accertamento, il termine per eseguire il pagamento dell’imposta e la stessa iscrizione a ruolo delle somme liquidate, così da consentire al contribuente di fornire dati ed informazioni, al fine di sollecitare l’attivazione dei poteri di autotutela della P.A..

I giudici di legittimità ricordano che la Cassazione ha, in passato, ripetutamente affermato che con riguardo all’IRPEG (ora IRES), “gli enti di tipo associativo non godono di uno “status” di “extrafiscalità”, che li esenta, per definizione, da ogni prelievo fiscale, potendo anche le associazioni senza fini di lucro , come si evince dall’ex art. 111 (ora art. 148), comma secondo, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nel testo applicabile nella specie, ratione temporis), svolgere, di fatto, attività a carattere commerciale. Il disposto dell’ex art. 111, comma primo, in forza del quale le attività svolte dagli enti associativi a favore degli associati non sono considerate commerciali e le quote associative non concorrono a formare il reddito complessivo, costituisce d’altro canto una deroga alla disciplina generale, fissata dagli artt. 86 e 87 (ora articoli 72 e 73) del DPR 917/86, secondo la quale l’IRPEG si applica a tutti i redditi, in denaro o in natura, posseduti da soggetti diversi dalle persone fisiche: con la conseguenza che l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che giustificano l’esenzione è a carico del soggetto che la invoca, secondo gli ordinari criteri stabiliti dall’art. 2697 cod. civ….”.

Per la Corte di Cassazione è corretto quanto affermato dalla sentenza dei giudici del merito secondo la quale è lecito il recupero a tassazione, come redditi di impresa, dei proventi conseguiti da una associazione sportiva, rilevando come, di fronte all’affermazione secondo cui, alla stregua delle risultanze dell’accesso diretto dei verbalizzanti, i “soci” della palestra da essa gestita venivano di fatto trattati come semplici clienti di un imprenditore, sarebbe spettato all’associazione ricorrente fornire la prova contraria della natura non commerciale dell’attività svolta, prova che non poteva essere desunta dal solo statuto sociale, attestante l’assenza del fine di lucro.

Per la Corte di Cassazione sono corrette le affermazioni dei giudici del merito che hanno sottolineato, quanto alla prova offerta dalla contribuente, che “gli elementi richiamati dal ricorrente a sostegno della tesi della non assoggettabilità al tributo, non essendo lo stesso società commerciale, siano stati assolutamente insufficienti allo scopo, estrinsecandosi, in ultima analisi, al richiamo allo statuto, ignorando i principi chiaramente richiesti dalla Cassazione sull’onere della prova”.

La Cassazione respinge il ricorso e condanna l’associazione ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

15 febbraio 2014

Federico Gavioli

 

1 Cfr. sentenza n.24898, del 6 novembre 2013.

2 E’ quello previsto dagli art. 148 del D.P.R. n. 917 del 1986 e 4 del D.P.R. n. 633 del 1972 (in materia di IVA), come modificati, con evidente finalità antielusiva, dall’art. 5 del D.Lgs. n. 460 del 1997.

3 Cfr. Cass. n. 11456 del 2010.

4 Cfr. S.U. n.3676 del 17 febbraio 2010