il contribuente che non risponde al questionario inviato dal Fisco si espone al rischio di un accertamento induttivo considerato legittimo dalla giurisprudenza
Con l’ordinanza n.26150 del 21 novembre 2013 la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità dell’accertamento induttivo, nelle ipotesi in cui il contribuente non risponda al questionario.
La sentenza
E’ giurisprudenza pacifica della Suprema Corte che: ”in tema di accertamento delle imposte sui redditi, il comportamento del contribuente che ometta di rispondere ai questionari previsti dall’art. 32, n. 4, del d.P.R. n. 600 del 1973 e non ottemperi alla richiesta di esibizione di documenti e libri contabili relativi all’impresa esercitata, impedendo in tal modo, o comunque ostacolando, la verifica dei redditi prodotti da parte dell’Ufficio, vale di per sé solo ad ingenerare un sospetto sull’attendibilità di dette scritture, rendendo “grave” la presunzione di attività non dichiarate desumibile dal raffronto tra le percentuali di ricarico applicate e quelle medie del settore, e, conseguentemente, legittimo l’accertamento induttivo emesso su quella base dall’Ufficio ex art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973″ (per tutte, Sez. 5, Sentenza n. 19014 del 28/09/2005).
Riflessioni giurisprudenziali
In nostro precedente intervento1 avevamo già avuto modo di commentare la sentenza n. 38 del 13 aprile 2006, con cui la Sezione n. 27 della Commissione tributaria regionale del Lazio aveva confermato l’accertamento induttivo effettuato dall’ufficio, sul presupposto della mancata risposta al questionario, debitamente notificato.
L’indirizzo teso a contrastare il comportamento non fattivo del contribuente era stato già, inoltre, stigmatizzato dalla Corte di Cassazione, con sentenza n. 16049 del 28 aprile 2005, depositata il 29 luglio 2005, che aveva affermato che la mancata risposta al questionario inviato dall’Amministrazione finanziaria, di per sé, non giustifica il ricorso ad accertamento induttivo nei confronti del contribuente (laddove tale omissione si sia verificata prima dell’entrata in vigore dell’art. 25 della L. 18 febbraio 1999, n. 28 che, al comma 3, espressamente, ha consentito il ricorso ad accertamento induttivo quando il contribuente non abbia dato seguito agli inviti disposti dagli uffici). In pratica, a contraris, la Corte legittima l’utilizzo dell’induttivo successivamente alla modifica legislativa apportata. Secondo i Giudici Supremi, l’ufficio finanziario ha illegittimamente fatto ricorso all’accertamento induttivo, “non potendo tale metodo giustificarsi con le ragioni prospettate dall’ufficio e condivise dalla sentenza impugnata, e cioè la mancata risposta al questionario”. La Corte richiama la sentenza 5 giugno 2001, n. 8128, secondo cui la mancata risposta al questionario “non può giustificare una rettifica del reddito d’impresa in via induttiva, ai sensi dell’art. 39, comma 2, lettera d), del D.P.R. n. 600/1973, ove tale omissione – come nella specie è avvenuto – si sia verificata prima dell’entrata in vigore dell’art. 25 della L. 18 febbraio 1999, n. 28. Si deve ribadire che le ipotesi previste dalle lettere a), b), c), d) del citato comma 2, nel testo all’epoca vigente, sono da considerarsi tassative”.
I pronunciamenti sopra indicati hanno trovato ulteriore conferma da parte della Cassazione con la sentenza n. 13511 del 28 marzo 2008, dep. il 26 maggio 2008, che ha ritenuto rilevabile d’ufficio, a prescindere da una formale eccezione di parte, l’inutilizzabilità anche in sede giudiziaria della documentazione non esibita dal contribuente all’amministrazione fiscale che ne abbia fatto richiesta. La Corte ha affermato che “l’esame del motivo non può, d’altro canto, prescindere dal rilievo che – essendo stata prodotta in giudizio, benché, incontrovertitamente, in precedenza non esibita all’Ufficio, come da sua legittima richiesta – la (comunque incompleta) documentazione tesa ad asseverare la data di avvenuta cessione dei beni strumentali è del tutto inutilizzabile in questa sede, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 5, (nella formulazione ratione temporis applicabile); e ciò, anche in assenza di corrispondente tempestiva eccezione da parte dell’Ufficio, giacché la perentorietà della formulazione della norma … induce ad escludere che la sancita preclusione sia rilevabile solo ad iniziativa di parte”. Nella specie, ricorreva, invero, il duplice presupposto, per l’accertamento induttivo, ex art. 55 del D.P.R. n. 633 del 1972: mancata risposta alla richiesta di chiarimenti e omessa dichiarazione. Per la Cassazione, inoltre, “l’Ufficio non è, d’altro canto, incorso in illecita praesuptio de praesumpto, posto che il compimento di attività imponibile (vendita beni strumentali) non è stata desunta in via di presunzione ma direttamente comprovata dalle acquisizioni processuali. Ciò, senza, peraltro, considerare che il divieto di doppia presunzione (c.d. praesumptio de praesumpto) attiene esclusivamente alla correlazione di una presunzione semplice con altra presunzione semplice e non può ritenersi, invece, violato nel caso in cui da un fatto noto si risale a un fatto ignorato, che a sua volta costituisce la base di una presunzione legale (v. Cass. 2612/01, 2639/87)”.
Successivamente, con la sentenza n. 17968 del 24 luglio 2013 (ud 6 novembre 2012) la Corte di Cassazione ha confermato il precedente orientamento, secondo cui il contribuente che omette di rispondere ai questionari previsti dall’art. 32,n. 4, del D.P.R. n. 600/73 “e non ottemperi alla richiesta di esibizione di documenti e libri contabili relativi all’impresa esercitata, impedendo in tal modo, o comunque ostacolando, la verifica dei redditi prodotti da parte dell’Ufficio, vale di per sè solo ad ingenerare un sospetto sull’attendibilità di dette scritture, rendendo ‘grave’ la presunzione di attività non dichiarate desumibile dal raffronto tra le percentuali di ricarico applicate e quelle medie del settore, e, conseguentemente, legittimo l’accertamento induttivo emesso su quella base dall’Ufficio del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d)” (Cass. n. 19014 del 2005, n. 12262 del 2007).
E da ultimo, con la sentenza n. 19697 del 28 agosto 2013 (ud 9 gennaio 2013) la Corte di Cassazione ha confermato che “nell’accertamento delle imposte sui redditi, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, nei commi aggiunti dalla L. 18 febbraio 1999, n. 28, art. 25, nel prevedere che la mancata risposta agli inviti dell’ufficio da parte del contribuente preclude, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa, la considerazione a suo favore degli elementi non addotti, ‘non richiede che l’omissione sia frutto di un comportamento doloso e fraudolento, intenzionalmente diretto ad intralciare l’attività di accertamento, essendo sufficiente il fatto obbiettivo della mancata risposta, a prescindere dalle motivazioni della parte privata, ossia dall’elemento psicologico del contribuente che omette di rispondere’ (Cass. n. 28049 del 2009)”. Inoltre, “la dichiarazione del contribuente di non aver potuto rispondere all’invito dell’Ufficio per causa a lui non imputabile, che egli può formulare al fine di impedire la produzione di detti effetti (impossibilità che le notizie non fornite siano prese in considerazione a suo favore), deve essere fatta in modo chiaro ed esplicito nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, non richiedendosi la prova contestuale della non imputabilità della causa dell’inadempimento (Cass. n. 28049 del 2009, cit.)”.
Principi di diritto
Come è noto, l’art. 32 del D.P.R. n. 600/73 è stato integrato, a opera dell’articolo 25, comma 1 della legge 18 febbraio 1999, n. 28, che ha aggiunto al testo originario i commi terzo (“Le notizie e i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Di ciò l’ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta“) e quarto.
Di converso, è stata aggiunta la lett. d-bis, all’art. 39, c. 2, del D.P.R. n. 600/73, consentendo l’utilizzo dell’accertamento induttivo quando il contribuente non ha dato seguito agli inviti disposti dagli uffici ai sensi dell’art. 32, c. 1, nn. 3 e 4, del D.P.R. n. 600/73 o dell’art. 51, c. 2, nn. 3 e 4, del D.P.R. n. 633/72.
Parallelamente, ai fini Iva, l’art. 52, comma 4, del D.P.R. n. 633/72 dispone che l’inottemperanza agli inviti comporta l’applicazione delle regole II.DD.
Pertanto, a far data dal 9 marzo 1999, giorno di entrata in vigore delle modifiche normative, la mancata ottemperanza all’invito dell’ufficio è sanzionabile e ciò anche quando l’attività di accertamento riguardi annualità di imposta anteriori all’entrata in vigore della nuova norma, in ossequio al principio secondo il quale siamo in presenza di una norma procedurale, destinata a disciplinare le modalità e i limiti dell’esercizio dei poteri degli uffici, e pertanto pur se si applica solo a partire dalla data di entrata in vigore, investe anche gli accertamenti riguardanti annualità anteriori.
Le cause di inutilizzabilità non operano nei confronti del contribuente che depositi in allegato all’atto introduttivo del giudizio di primo grado in sede contenziosa le notizie, i dati, i documenti, i libri e i registri, dichiarando comunque contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile.
Inoltre, l’art. 52, c. 5, del D.P.R. n. 633/72 dispone che “i libri, registri, scritture e documenti di cui è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa. Per rifiuto di esibizione si intendono anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti e scritture e la sottrazione di essi all’ispezione”.
Tale norma è applicabile anche ai fini delle imposte sui redditi per l’esplicito richiamo operato dall’art. 33 del D.P.R. n. 600/73.
L’assetto normativo tracciato, “per quanto opportunamente opinabile, non sembra possa tacciarsi di illegittimità costituzionale ove innanzi tutto inteso a limitare la possibilità di far valere la predetta documentazione nel prosieguo del procedimento amministrativo di accertamento: può dirsi, infatti, espressione del rapporto fondato su canoni di lealtà e collaborazione, in forza dei quali non sembra neppure irragionevole prevedere una decadenza dalla utilizzabilità (a proprio favore) di quella documentazione che, in precedenza, era stata surrettiziamente tenuta celata. Tanto è vero che l’interpretazione e l’applicazione che di tale disposizione si sono avute in giurisprudenza hanno costantemente confermato l’esigenza di verificare tale elemento di intenzionale sottrazione di elementi utili ai fini della corretta ricostruzione del quadro impositivo del contribuente come il dato qualificante la fattispecie2”.
Infatti, la stessa Corte di Cassazione (sentenza n. 9127 del 1° febbraio 2006, dep. il 19 aprile 2006) ha affermato che l’art. 52, c. 5, del D.P.R. n. 633/1972 (richiamato dall’art. 33 del D.P.R. n. 600/1973) va letto ed interpretato “in coerenza ed alla luce del diritto alla difesa, scolpito nell’art. 24 della Costituzione, e del principio della capacità contributiva (art. 53 della Costituzione). Le norme costituzionali non impediscono certo di porre ragionevoli limiti al diritto alla prova, con conseguente tassazione di cespiti che il contribuente potrebbe dimostrare inesistenti; ma impongono di procedere ad un’interpretazione rigorosa di disposizioni quale il citato art. 52, comma 5, del D.P.R. n. 633/1972. Appare, in proposito, di particolare rilievo l’esigenza che vi sia stata un’attività di ricerca della documentazione da parte dell’Amministrazione ed un rifiuto da parte del contribuente (rifiuto cui è equiparata la dichiarazione di non possedere i documenti, o la sottrazione dolosa di essi al controllo). Ed è ovvio come simile procedura di richiesta o ricerca da parte dell’Amministrazione e di rifiuto (o occultamento) da parte del contribuente sia in concreto concepibile quasi esclusivamente in riferimento ai documenti di cui è obbligatoria la tenuta. In altre parole, la limitazione alla possibilità della prova è collegata ad uno specifico comportamento del contribuente, che si sottrae alla prova stessa, e dunque fornisce validi elementi per dubitare della genuinità di documenti che abbiano a riaffiorare nel corso del giudizio. Ciò costituisce una giustificazione ragionevole della loro inutilizzabilità; del resto temperata dalla possibilità riconosciuta al contribuente di dimostrare la non volontarietà della sottrazione originaria della documentazione (così come affermato da Cass. 28 gennaio 2002, n. 1030)”.
16 gennaio 2014
Francesco Buetto
1 Cfr. BUETTO, Se il Fisco chiama conviene rispondere, in www.https://www.commercialistatelematico.com. febbraio, 2008. I giudici laziali, preso atto che “i questionari Mod. 55 sono stati notificati il 28/06/2001, successivamente quindi alla modifica dell’art. 39 del DPR n. 600/1973, introdotta con l’art.25 della Legge n. 28/1999”, e, attesa la mancata risposta ai questionari stessi da parte del contribuente,ritengono “pienamente legittimo il ricorso dell’ufficio all’accertamento induttivo, non avendo potuto svolgere concretamente e nel merito l’azione di accertamento in conseguenza della mancata esibizione da parte del contribuente di tutti i dati e documenti contabili richiesta… il contribuente si limita a dedurre che la mancata risposta ai questionari non determina la inattendibilità delle scritture contabili, che, sostiene, deve risultare dalle ispezioni delle scritture stesse, ma non assolve neppure in questa sede all’onere di fornire concreti elementi per contrastare gli accertamenti dell’ufficio, che non ritiene verosimili i dati reddituali dichiarati, in relazione alla potenzialità produttiva dell’impresa e alla percentuale di redditività del settore di attività. Per tutti codesti motivi gli accertamenti impugnati si devono ritenere fondati, senza che rilevi, in contrario, la formale correttezza delle scritture contabili della società, essendo noto in proposito che la tenuta di una contabilità formalmente regolare non preclude all’Amministrazione finanziaria la rettifica dell’imponibile dichiarato, ove, come nella specie, si ritenga attendibilmente che quest’ultimo sia inferiore a quello effettivo“.
2 CAPUTI, L.n. 28/1999: maggiori poteri di accertamento per l’Amministrazione finanziaria e diritto di difesa, in “il fisco”, n. 10/1999, pag. 3377.