Cessione d'azienda: l'elusione dell'imposta di registro

l’operazione di cessione d’azienda, un’operazione complessa, nella sua complessità può nascondere profili di elusività dell’imposta di registro dovuta

Con l’Ordinanza n. 15743 del 21 giugno 2013 (ud. 23 maggio 2013) la Corte di Cassazione ha ritenuto elusiva l’operazione effettuata ai fini dell’imposta di registro, con il solo fine del risparmio d’imposta.

 

IL PROCESSO

La società CD Spa. propone ricorso principale per cassazione, affidato a due motivi, avverso la sentenza della CTR Lombardia n. 61/44/09, depositata l’8 giugno 2010, con la quale essa accoglieva in parte l’appello dell’Agenzia delle entrate contro la decisione di quella provinciale, sicchè l’opposizione della medesima, inerente all’avviso di liquidazione dell’imposta complementare di registro, dovuta con riferimento alla cessione di azienda industriale per la produzione di mobili da parte della cedente società PM Spa. in liquidazione, nonchè in concordato preventivo veniva ritenuta fondata parzialmente. In particolare la CTR osservava che l’atto finale di cessione di azienda del mese di dicembre 2004 doveva essere valutato nella sua dimensione “dinamica“, e quindi non poteva essere interpretato in funzione “statica” coi negozi precedenti di cessione condizionata dell’opificio, e vendita delle merci e prodotti di magazzino, sicchè tutte le varie operazioni andavano valutate come contratto a formazione progressiva, a fronte delle quali si configurava un’ipotesi di elusione fiscale, mentre invece l’avviamento come stabilito nel prezzo dalle parti non poteva essere rideterminato in misura maggiore, secondo l’esatta formula enunciata dall’agenzia, giacchè si trattava di vendita effettuata nel corso della procedura di concordato preventivo, e quindi con la prevista omologazione del giudice delegato, potendosene semmai stabilire un valore maggiore, purchè solo nell’ambito del prezzo definitivo, già stabilito dalle parti.

 

I MOTIVI DELL’IMPUGNAZIONE

La ricorrente denunzia, fra l’altro, la violazione di norma di legge, giacchè il giudice di appello non considerava che tutti i negozi non dovevano essere valutati come una complessa operazione unitaria, essendo stati stipulati ciascuno con finalità diverse, dettate dalla circostanza che la società PM aveva chiesto l’ammissione al concordato preventivo, e bisognava garantire il ciclo produttivo e commerciale, per il quale essa ritenne opportuno addivenire alla cessione separata delle scorte di magazzino, onde assicurarne la produttività e la commercializzazione, posto che anche tale operazione consentiva un risparmio d’imposta con la detrazione dell’Iva.

 

LA SENTENZA

In tema di imposta di registro, per la Corte, la scelta, compiuta dal legislatore con il D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 20, di privilegiare, nella contrapposizione fra “la intrinseca natura e gli effetti giuridici” ed “il titolo o la forma apparente” di essi, “il primo termine, unitariamente considerato, implica, assumendo un rilievo di fondo, che gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscano a semplici elementi della fattispecie tributaria. Ciò comporta che, ancorchè non possa prescindersi dall’interpretazione della volontà negoziale secondo i canoni generali, nell’individuazione della materia imponibile dovrà darsi la preminenza assoluta alla causa reale sull’assetto cartolare, con conseguente tangibilità, sul piano fiscale, delle forme negoziali, in considerazione della funzione antielusiva sottesa alla disposizione in parola, sicchè l’autonomia contrattuale e la rilevanza degli effetti giuridici dei singoli negozi (e non anche di quelli economici, riferiti alla fattispecie globale) restano necessariamente circoscritti alla regolamentazione formale degli interessi delle parti, perchè altrimenti finirebbero per sovvertire i detti criteri impositivi (cfr. anche Cass. Sentenze n. 13580 del 11/06/2007, n. 10273 del 04/05/2007). Invero in materia tributaria, costituisce condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo elusivo del fisco, sicchè il divieto di siffatte operazioni non opera ove esse possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta (V. pure Cass. Sentenze n. 19234 del 2012, n. 21782 del 2011). Peraltro il principio secondo cui, in forza del diritto comunitario, non sono opponibili alla Amministrazione finanziaria quegli atti posti in essere dal contribuente che costituiscano ‘abuso del diritto’, cioè che si traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale, deve estendersi a tutti i settori dell’ordinamento tributario, e dunque anche all’ambito delle imposte indirette, prescindendosi dalla natura fittizia o fraudolenta della operazione stessa, essendo all’uopo sufficiente anche la mera prova presuntiva, come nella specie. Pertanto incombe sul contribuente la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti con carattere non meramente marginale o teorico (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 8772 del 04/04/2008, n. 25537 del 30/11/2011)”.

 

Brevi considerazioni

Come è noto, la Corte di Cassazione, a SS.UU. (sentenza n.30055 del 2008) ha sancito che “il contribuente non possa trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con una specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa del risparmio fiscale, deve ritenersi, nella fattispecie, corretto l’operato dell’Ufficio che ha ritenuto che i due atti (costituzione della società con conferimento e cessione di quote) pur essendo distinti fra foro, avessero il solo scopo di far apparire come costituzione di società con conferimento di azienda agricola e successiva cessione di quota sociale, una vera e propria compravendita di beni immobili, aggirando tale operazione mediante lo sfruttamento del conferimento”.

E di recente, con la sentenza n. 14150 del 5 giugno 2013 (ud. 3 aprile 2013) la Corte di Cassazione ha ribadito che, in base al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, l’imposta di registro “è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente“. E sul punto la corte richiama dei significativi precedenti (v. in particolare Sez. 5′ n. 14900/01; n. 2713/02) con cui ha chiarito che “la prevalenza della natura intrinseca degli atti registrati e dei loro effetti giuridici sul loro titolo e sulla loro forma apparente vincola l’interprete a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma; id est, il dato giuridico reale conseguente alla natura intrinseca degli atti e ai loro effetti giuridici, rispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche frazionatamente, in uno o più atti. Con la conseguenza di doversi riferire l’imposizione al risultato di un comportamento sostanzialmente unitario, rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali”. E conclude affermando il seguente principio: “In tema di imposta di registro, il D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 20, attribuisce prevalenza, ai fini dell’interpretazione degli atti registrati, alla natura intrinseca e agli effetti giuridici degli stessi sul loro titolo e sulla loro forma apparente; e in tal senso vincola l’interprete a privilegiare il dato giuridico reale rispetto ai dati formalmente enunciati – anche frazionatamente – in uno o più atti. Pertanto una pluralità di operazioni societarie e/o di negozi, strutturalmente e funzionalmente collegati al fine di produrre un unico effetto giuridico finale costituito dal trasferimento della proprietà di beni immobili, vanno considerati, ai fini dell’imposta di registro, come un fenomeno unitario, anche in conformità al principio costituzionale di capacità contributiva“.

 

3 ottobre 2013

Francesco Buetto