Affitti dedotti e non pagati: attenzione all'elusione, in particolare nell'ambito familiare

la Corte di Cassazione ha ritenuto elusiva l’operazione di dedurre i canoni di affitto d’azienda non pagati, quando l’operazione coinvolge società appartenenti al medesimo ambito familiare

Con l’Ordinanza n. 15968 del 25 giugno 2013 (ud. 22 maggio 2013) la Corte di Cassazione ha ritenuto elusiva l’operazione di dedurre gli affitti non pagati, nell’ambito familiare.

 

Il fatto

Il rilievo dell’amministrazione finanziaria (quale sopravvenienza attiva) si poggiava, nei confronti della società conduttrice, sul recupero dei canoni di affitti non versati ma dedotti.

L’Agenzia delle Entrate contestava la sentenza di secondo grado, dove la CTR osservava che, “per le somme non pagate a titolo di canone per l’affitto di azienda al padre dei soci, e cioè G.L., ciò non costituiva una rinuncia ad esso da parte del locatore, ma al più una tolleranza, trattandosi dei figli, e quindi i relativi crediti della società locatrice, e cioè la GLC sas, non potevano essere considerati come proventi per l’affittuaria e soci”.

Le Entrate deducevano violazione di norme di legge, “in quanto la CTR non considerava che la ripresa a tassazione dei canoni di affitto non corrisposti per diversi anni scaturiva dalla evidente finalità dei contribuenti di ricavare solo dei vantaggi fiscali dall’affitto medesimo, tanto che nel relativo contratto del 1994 era espressamente previsto che il ritardo di un solo mese comportava il diritto alla risoluzione del negozio, salvo il risarcimento del danno. Inoltre i locali dell’azienda sono ufficialmente di proprietà della società GLC sas, della quale sono soci soltanto il padre e i due figli, tanto che solo parte dei canoni del 2001 era stata pagata nel 2005, e quindi si trattava di operazioni aventi come unica finalità quella di consentire le deduzioni dei pretesi costi, che in realtà non venivano sopportati, e che invece costituivano ricavi”.

 

I motivi della decisione

Per la Corte il motivo addotto dall’Agenzia delle Entrate è fondato. “E’ dato pacifico tra le parti che la proprietà dell’azienda in argomento appartiene alla società GLC sas, di cui è accomandatario L., e che i figli di questi, attuali controricorrenti, ne sono pure gli unici soci assieme a lui. Di fatto quindi sono essi che dispongono dell’azienda gestita formalmente dalla GA srl, e tale situazione comporta la presunzione di un’ipotesi, quanto meno, di elusione fiscale”.

La Corte rileva che “l’interpretazione dei contratto a tali fini (fiscali), volta a stabilire se i negozi o i redditi siano soggetti alla esatta imposizione, deve avvenire con criteri diversi da quelli utilizzabili ai fini civilistici, e deve attribuire rilievo preminente agli effetti dei negozi stessi ed alla necessità di prevenire frodi ed abusi (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 23584 del 20/12/2012, n. 12249 del 19/05/2010). Del resto, com’è noto, in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposta Iva), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione (V. pure Cass. Sez. U, Sentenza n. 30055 del 23/12/2008, Sent. n. 12237 del 2008)”.

 

Breve nota

L’indagine del giudice tributario può rivolgersi all’esistenza, validità ed opponibilità dell’attività negoziale del privato nei confronti dell’Erario.

I principi costituzionali della capacità contributiva e della progressività dell’imposizione che informano l’ordinamento tributario ostano al conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti attraverso strumenti giuridici, la cui adozione ovvero l’utilizzo sia unicamente rivolto, in assenza di ragioni economicamente apprezzabili, al risparmio d’imposta, anche laddove non ricorra alcuna violazione o contrasto puntuale ad alcuna specifica disposizione.

Sono questi, sostanzialmente, i principi che si ricavano dalla lettura della sentenza che si annota, peraltro già espressi dalla Corte di Cassazione a SS.UU. nella richiamata sentenza n.30055 del 23 dicembre 2008 (ud. del 2 dicembre 2008).

Le Sezioni Unite aderiscono all’indirizzo di recente affermatosi nella giurisprudenza della Sezione tributaria (si veda, Cass. nn. 10257/08, 25374/08), “fondato sul riconoscimento dell’esistenza di un generale principio antielusivo; con la precisazione che la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano”.

Per le SS.UU. “non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”.

Né contrasta con l’individuazione nell’ordinamento di un generale principio antielusione la constatazione del sopravvenire di specifiche norme antielusive, che appaiono anzi mero sintomo dell’esistenza di una regola generale (Cass. n. 8772/08).

Ricordiamo, ancora, che di recente con la sentenza n. 12622 del 20 luglio 2012 (ud. 21 dicembre 2011) la Corte di Cassazione ha ritenuto elusiva la rimessione di debiti, priva di motivi, effettuata nell’ambito di un gruppo societario. Ed infatti i Giudici di merito dopo aver considerato la molteplicità degli elementi indiziari emersi dalla istruttoria (in particolare ponendo in risalto la sequenza cronologica delle diverse operazioni di acquisto e rivendita realizzate in un breve arco di tempo, l’intervento nelle operazioni di società appartenenti allo stesso gruppo e comunque tutte riconducibili ad un unico soggetto, la sostanziale coincidenza degli importi relativi alla remissione del debito, del prezzo di acquisto delle partecipazioni e degli utili distribuiti dalla società beneficiarla della remissione) hanno poi argomentato dall’assenza di plausibili ragioni economiche della remissione di debito (causa originaria che aveva innescato la sequenza delle altre operazioni) che se le attività negoziali erano rimesse “al libero arbitrio delle parti“, pur tuttavia in un contesto societario, tali comportamenti debbono “rispondere a precise ragioni economiche“, pervenendo quindi, mediante argomento logico- presuntivo, ed in assenza di elementi contrari di prova forniti dalla società contribuente, alla conclusione che “le operazioni del gruppo erano funzionali ad un abbattimento dell’imponibile“.La “illegittimità” della remissione del debito viene, pertanto, ad essere identificata dai Giudici di merito con l’assenza di “razionali giustificazioni economiche” della operazione, in relazione dunque ad un parametro di tipo teleologico, ben distinto da quello fondato sul criterio lecito/illecito col quale deve essere valutata la difformità della condotta ad una norma giuridica di divieto, che è utilizzato come tipico elemento sintomatico per la verifica della natura fiscalmente elusiva di una operazione in sè lecita, integrante la fattispecie di “abuso del diritto” che rende inopponibile alla Amministrazione finanziaria il risultato elusivo ottenuto dalla impresa (cfr. Corte cass. 5′ sez. 21.4.2008 n. 10257; id. SU 23.12.2008 n. 30055; id. 5′ sez. 26.2.2010 n. 4737) e porta al “conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici (cfr. Corte cass. SU 2.1.12.2008 n. 30055)”, ed in ordine alla quale “la prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate” (cfr. Corte cass. 5′ sez. 22.9.2010 n. 20029). Inoltre, una volta che l’Amministrazione ha fornito la prova del ‘disegno elusivo’ (per tale intendendosi la prova degli atti negoziali e la ricostruzione della complessiva vicenda economica che non trova giustificazioni alternative al conseguimento del vantaggio fiscale), grava sul contribuente l’onere di allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (cfr. Corte Cass. 5′ sez. 4.4.2008 n. 8772; id. 5′ sez.21.4.2008 n. 10257; id. 5′ sez. 22.9.2010 n. 20029)”.

 

4 settembre 2013

Roberta De Marchi