Studi di settore non applicabili in caso di riorganizzazione aziendale

non sono applicabili gli studi di settore in un’annualità in cui l’azienda è in fase di riorganizzazione, come si evince dalle liti fra i soci e dai licenziamenti effettuati

Con la sentenza n. 8706 del 10 aprile 2013 (ud. 8 febbraio 2013) la Corte di Cassazione ha ritenuto non applicabili gli studi di settore, nel momento in cui l’azienda ha effettuato dei licenziamenti.

 

LA SENTENZA

La Corte, in apertura, richiama il principio espresso dalle SS.UU. nel corso del 2009: “la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisca un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ‘ex lege’ determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli ‘standards’ in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo, in esito al contraddittorio, da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli ‘standards’ o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello ‘standard’ prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli ‘standards’ al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli ‘standards’, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito (cfr. Cass. S.U. 26635/2009, Cass. 12558/2010, Cass. 12428/2012, Cass. 23070/2012).

La Corte ricorda che, in termini di onere della prova, nella citata sentenza delle Sezioni unite, si è affermato, schematicamente, che “l’onere della prova … è così ripartito: a) all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto dell’accertamento; b) al contribuente … fa carico la prova della sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possano essere applicati gli standard o della specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo cui l’accertamento si riferisce“.

Nella sentenza che si annota viene ulteriormente richiamata una recente pronuncia (Cass. 3312/2011), ove è stato affermato che “il fine e l’effetto della pronunzia delle Sezioni Unite è stato quello di porre in luce l’importanza del contraddittorio, non solo nel processo ma anche nella realtà, quale strumento principale di verificazione o falsificazione della corrispondenza tra realtà e sua rappresentazione, in quanto proprio “in sede di contraddittorio – il quale può avvenire già in fase amministrativa, ma anche e soprattutto nel giudizio – il contribuente potrà in primo luogo dedurre e dimostrare che i parametri utilizzati sono in sè erronei perchè sono basati su elementi fattuali non corrispondenti alla realtà o su criteri di elaborazione e di inferenza illogici e potrà quindi chiedere l’annullamento del provvedimento che li ha approvati ovvero dedurre e dimostrare che l’Ufficio impositore è incorso in errore operativo nell’applicare i parametri alla sua realtà ovvero ancora dedurre o l’estraneità della propria attività rispetto alla tipologia alla quale quei parametri intendono riferirsi o la sussistenza, nella propria attività di caratteri per così dire anormali, cioè di elementi che la diversificano rispetto a quelle in riferimento alle quali è stata individuata la normalità reddituale. Ove il contribuente, pur essendo stato messo in condizione di dedurre, nulla dice, legittimamente ‘l’Ufficio impositore prima e il giudice poi non avranno elementi per escludere che l’attività in questione sia un’attività “normale” ed abbia quindi una redditività normale’; ove il contribuente prospetti, invece, la sussistenza di circostanze di fatto, tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, ‘spetterà all’ufficio prima e al giudice poi valutare in primo luogo se tali circostanze sono vere e poi se esse possono essere effettivamente idonee a “giustificare” un reddito inferiore a quello che sarebbe normale e quindi presuntivamente vero in assenza di esse’“.

Tanto premesso, nel caso di specie, la società contribuente, anche in sede di contraddittorio ma soprattutto nel corso del giudizio, prima dell’emissione dell’atto impositivo, ed i soci avevano evidenziato la sussistenza di elementi oggettivi che inducevano a ritenere inadeguato il percorso tecnico-metodologico seguito dallo studio per giungere alla stima, in presenza di cause particolari che avevano potuto influire negativamente sul normale svolgimento dell’attività nell’anno 2000 “la situazione di conflitto tra due soci, P.V. ed A.; la volontà del P.V. di sciogliere il rapporto sociale, in scadenza al 31/12/2000; la soluzione della cessione delle quote, dai soci P.G. ed A., a V. e Ga., intervenuta tuttavia soltanto nell’anno 2001, a marzo; i licenziamenti di due dipendenti nell’anno 2000”, collocando la società contribuente al di sotto del livello determinato dallo studio, anche col contributo degli indicatori di normalità.

 

Brevi riflessioni

L’atto di accertamento fondato sugli studi di settore è legittimo se il contribuente non fornisce e documenta debitamente la prova contraria.

In pratica, il dato di partenza è la legittimità dello strumento, che può essere modificato solo se il contribuente dimostra di non essere in una situazione di normalità. Nel caso di specie, il contribuente ha dimostrato di non trovarsi in una situazione di normalità (conflitti fra i soci, licenziamenti…).

Per certi versi, gli ultimi orientamenti giurisprudenziali si avvicinano molto al pensiero della circolare n. 5/E del 23 gennaio 2008, con la quale l’Agenzia delle Entrate ha fornito una serie di indicazioni, in ordine alle modalità di utilizzo dello studio di settore, in fase di accertamento, utilizzabili anche per i parametri.

Di recente, con l’ordinanza n. 29185 del 28 dicembre 2011 (ud. 7 dicembre 2011) la Corte di Cassazione, chiamata in causa ancora una volta in materia di studi di settore, ha riaffermato e confermato il principio delle SS.UU. del 2009: nel caso di specie, che “a fronte della dimostrazione da parte del contribuente che trattavasi di attività iniziata da poco e che il socio F.M. per questioni di salute non aveva potuto offrire la propria collaborazione e che quindi la redditività non ha raggiunto i parametri prefissati…, ha affermato l’obbligo dell’Ufficio di motivare adeguatamente sulla inattendibilità delle suddette controdeduzioni“.

E da ultimo, con la sentenza n.6234 del 13 marzo 2013 la Corte di Cassazione ha ritenuto non applicabile lo studio di settore, atteso che nel caso sottoposto ai massimi giudici, “il contribuente ha depositato fotocopia del libretto universitario, attestante il superamento di tre esami nell’anno 1998, dimostrando così di non aver esercitato la propria attività professionale di geometra a tempo pieno per l’intero anno di riferimento, circostanza, ritenuta dall’ufficio inidonea a modificare i valori accertati ma ritenuta, al contrario, dalla CTR, implicitamente idonea a ritenere congruo il reddito dichiarato, sconfessando la valutazione sulla base dei parametri, con valutazione di merito incensurabile in sede di legittimità”.

 

8 maggio 2013

Roberta De Marchi