Si può contestare il transfer princing anche senza elusione

è legittimo il rilievo dell’ufficio in materia di transfer pricing, anche in assenza di elusione, in quanto la pratica considerata scorretta è il trasferimento fittizio di imponibile fiscale fra diversi Paesi

Con la sentenza n. 10739 dell’ 8 maggio 2013 (ud. 28 novembre 2012) la Corte di Cassazione ha riconosciuto legittimo il rilievo dell’ufficio in materia di transfer pricing, anche in assenza di elusione.

 

Il quesito in Cassazione delle Entrate

Il quesito posto dall’Amministrazione finanziaria davanti la Corte di Cassazione è il seguente:

“se – in fattispecie in cui l’Amministrazione abbia ripreso a tassazione ai fini IRPEG e IRAP i maggiori ricavi in capo a Società di capitali derivanti da operazioni intercorse con Società controllate estere in applicazione del criterio del valore normale di mercato dei beni oggetto di scambio in applicazione dell’art. 76, comma 5, cit. T.U.I.R., incorra nella violazione di tale disposizione (e, conseguentemente del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 4 e 5) la sentenza della CTR la quale affermi che l’Amministrazione finanziaria sia tenuta a provare che in Italia viga un carico fiscale maggiore rispetto a quello del Paese di residenza delle Società controllate con cui sono intercorse le operazioni, in quanto l’anzidetto art. 76, comma 5, cit. T.U.I.R. deve esser correttamente interpretato nel senso che l’aspetto della potenziale elusività complessiva dell’operazione non riveste alcuna rilevanza ai fini dell’applicazione dell’anzidetta disposizione, soggiacendo le operazioni infragruppo unicamente al rispetto del valore normale”.

 

La sentenza

In apertura, la Corte evidenzia come il cosiddetto transfer pricing costituisca, dal lato economico, un’alterazione del principio della libera concorrenza. E questo nel senso che transazioni tra Società appartenenti ad uno stesso Gruppo, ma con sede in Paesi diversi, avvengono per prezzi che non hanno corrispondenza con quelli praticati in regime di libero mercato. Il fenomeno, quindi, da luogo ad uno spostamento di imponibile fiscale. E, pertanto, permette di sottrarre imponibile a Stati con maggiore fiscalità.

Cosicchè, proprio allo scopo di preservare la esatta pretesa impositiva di ciascuno Stato, sono state adottate normative nazionali predisposte a eliminare il fenomeno stesso del transfer pricing. Normative che recepiscono il principio del prezzo normale delle transazioni commerciali, contenuto nel Modello OCSE art. 9, c. 1, Convenzione del 1995.

Principio recepito anche in Italia.

“La disciplina italiana del transfer pricing, come negli altri Paesi, prescinde dalla dimostrazione di una più elevata fiscalità nazionale.

Se si vuole, la disciplina in parola rappresenta una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva della elusione. Elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare.

E questo, appunto, perchè la disciplina di che trattasi è rivolta a reprimere il fenomeno economico in sè. Difatti, tra gli elementi costitutivi della fattispecie repressiva del transfer pricing di cui dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 76, comma 5, non si rinviene quello della maggiore fiscalità nazionale.

Non occorre, si ripete, provare la elusione”.

Pertanto, secondo la Corte di Cassazione, è

“necessario, da parte dell’Amministrazione, soltanto dimostrare l’esistenza di transazioni tra imprese collegate. Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all’art. 2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3.

Disposizione per la quale, come noto, son da intendersi normali i prezzi di beni e servizi praticati ‘in condizioni di libera concorrenza’ con riferimento, ‘in quanto possibile’, a listini e tariffe d’uso.

Ciò che, quindi, non esclude altri mezzi di prova documentali (Cass. n. 11949 del 2012; Cass. n. 7343 del 2011). La CTR, quindi, non ha correttamente interpretato la disciplina, quando ha preteso dall’Amministrazione la prova dell’elusione e particolarmente la prova di una fiscalità di favore della legge straniera e della anormalità dei prezzi di transazione intergruppo”.

 

Il recente precedente

Con la sentenza n. 11949 del 13 luglio 2012 (ud. 4 aprile 2012) la Corte di Cassazione aveva, invece, classificato come elusiva un’operazione di transfer pricing all’interno di un gruppo multinazionale.

Per la Corte, se è vero che la violazione di una clausola antielusiva comporta, come ritenuto dal giudice di seconde cure, che l’onere della prova della ricorrenza dei presupposti di fatto dell’elusione gravi, in via di principio, sull’amministrazione finanziaria che intenda operare le conseguenti rettifiche (cfr. Cass. 22023/06), è pur vero che,

“ai fini della deducibilità di un costo addebitato da una controllante ad una controllata, è pur sempre necessario che risulti, se non che il costo sia correlato a specifici ricavi conseguiti da quest’ultima, quanto meno che l’addebito di tale costo si sia tradotto in un’effettiva utilità per la controllata. L’onere di fornire la dimostrazione dell’esistenza e dell’inerenza di tali componenti negative del reddito, e qualora si tratti – come nella specie – di costi derivanti da servizi o beni prestati o ceduti da una società controllante estera ad una controllata italiana, anche di ogni elemento che consenta all’amministrazione di verificare il normale valore dei relativi corrispettivi, non può pertanto che cedere – in forza del ed principio di vicinanza alla prova – a carico del contribuente (cfr. Cass. 1709/07)”.

La Corte, quindi, rileva l’erroneità dell’impugnata sentenza, laddove ha ritenuto che l’Agenzia non avesse adempiuto l’onere di provare il dedotto comportamento elusivo del contribuente, in violazione delle norme sul transfer pricing. La CTR ha, invero, del tutto pretermesso l’esame dei numerosi e consistenti rilievi, “che l’amministrazione aveva formulato in ordine all’epoca ‘sospetta’ (a fine esercizio) in cui era stata operata la contabilizzazione della predetta fattura passiva, nonchè alla natura stessa dell’operazione, consistente in una rettifica in aumento del prezzo già praticato dalla fornitrice estera su vendite quantitativamente rilevanti di prodotti software, ed in un notevole scostamento dai prezzi di acquisto degli stessi beni da parte della contribuente italiana”.

 

10 maggio 2013

Roberta De Marchi