Società cessate, ma debiti sopravvissuti: ecco come ne rispondono i soci

Il punto sulla disciplina delle società cessate e cancellate dal registro imprese che hanno debiti ancora da onorare: ecco qual’è il regime di responsabilità dei soci.

Con la sentenza n.6070 del 12 marzo 2013, la Corte di Cassazione, a SS.UU., ha indicato le linee che contribuenti e uffici devono seguire nei casi di cancellazione delle società dal registro delle imprese.

 

IL PRONUNCIAMENTO

In apertura, la Corte di Cassazione a SS.UU. prende atto delle sentenze nn. 4060, 4061 e 4062 del 2010, ove è stato affermato che la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese, che nel precedente regime normativo si riteneva non valesse a provocare l’estinzione dell’ente, qualora non tutti i rapporti giuridici ad esso facenti capo fossero stati definiti, è ora invece da considerarsi produttiva di quest’effetto estintivo.

Per ragioni di ordine sistematico, la stessa regola è applicabile anche alla cancellazione volontaria delle società di persone dal registro, quantunque tali società non siano direttamente interessate dalla nuova disposizione del menzionato art. 2495 c.c. e sia rimasto per loro in vigore l’invariato disposto dell’art. 2312 (integrato, per le società in accomandita semplice, dal successivo art. 2324 c.c.).

Dalla lettura della sentenza emessa emerge che:

  • con l’estinzione della società derivante dalla sua volontaria cancellazione dal registro delle imprese, non si estinguono anche i debiti ancora insoddisfatti che ad essa facevano capo;

  • la volontaria estinzione dell’ente collettivo non comporta la cessazione della materia del contendere nei giudizi contro di esso pendenti per l’accertamento di debiti sociali tuttora insoddisfatti, in quanto ciò significherebbe imporre un ingiustificato sacrificio del diritto dei creditori;

  • i debiti insoddisfatti che la società aveva nei riguardi dei terzi si trasferiscono “in capo a dei successori e … la previsione di chiamata in responsabilità dei soci operata dal citato art. 2495 implica, per l’appunto, un meccanismo di tipo successorio, che tale è anche se si vogliano rifiutare improprie suggestioni antropomorfiche derivanti dal possibile accostamento tra l’estinzione della società e la morte di una persona fisica. La ratio della norma dianzi citata, d’altronde, palesemente risiede proprio in questo: nell’intento d’impedire che la società debitrice possa, con un proprio comportamento unilaterale, che sfugge al controllo del creditore, espropriare quest’ultimo del suo diritto. Ma questo risultato si realizza appieno solo se si riconosce che i debiti non liquidati della società estinta si trasferiscono in capo ai soci, salvo i limiti di responsabilità nella medesima norma indicati. Il dissolversi della struttura organizzativa su cui riposa la soggettività giuridica dell’ente collettivo fa naturalmente emergere il sostrato personale che, in qualche misura, ne è comunque alla base e rende perciò del tutto plausibile la ricostruzione del fenomeno in termini successori (sembra dubitarne Cass. 13 luglio 2012, n.11968, ma in base ad una motivazione in buona parte imperniata sulla disposizione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art.36, comma 3, operante solo nello specifico settore del diritto tributario)… Persuade di ciò anche il fatto che il debito del quale, in situazioni di tal genere, possono essere chiamati a rispondere i soci della società cancellata dal registro non si configura come un debito nuovo, quasi traesse la propria origine dalla liquidazione sociale, ma s’identifica col medesimo debito che faceva capo alla società, conservando intatta la propria causa e la propria originaria natura giuridica (si veda, in argomento, Cass. 3 aprile 2003, n.5113). Nessun ingiustificato pregiudizio viene arrecato alle ragioni dei creditori, del resto, per il fatto che i soci di società di capitali rispondono solo nei limiti dell’attivo loro distribuito all’esito della liquidazione. Infatti, se la società è stata cancellata senza distribuzione di attivo, ciò evidentemente vuoi dire che vi sarebbe stata comunque incapienza del patrimonio sociale rispetto ai crediti da soddisfare”;

  • anche nei rapporti attivi non definiti in sede di liquidazione del patrimonio sociale viene “a determinarsi un analogo meccanismo successorio. Se l’esistenza dell’ente collettivo e l’autonomia patrimoniale che lo contraddistingue impediscono, pendente societate, di riferire ai soci la titolarità dei beni e dei diritti unificati dalla destinazione impressa loro dal vincolo societario, è ragionevole ipotizzare che, venuto meno tale vincolo, la titolarità dei beni e dei diritti residui o sopravvenuti torni ad essere direttamente imputabile a coloro che della società costituivano il sostrato personale. Il fatto che sia mancata la liquidazione di quei beni o di quei diritti, il cui valore economico sarebbe stato altrimenti ripartito tra i soci, comporta soltanto che, sparita la società, s’instauri tra i soci medesimi, ai quali quei diritti o quei beni pertengono, un regime di contitolarità o di comunione indivisa, onde anche la relativa gestione seguirà il regime proprio della contitolarità o della comunione”;

  • una società non più esistente, perché cancellata dal registro delle imprese, non può validamente intraprendere una causa, nè esservi convenuta;

  • qualora la cancellazione intervenga a causa già iniziata è inammissibile l’impugnazione proposta dalla società estinta, così come di quella proposta nei suoi confronti; nei processi in corso, anche se non siano stati interrotti per mancata dichiarazione dell’evento interruttivo da parte del difensore, la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva, si trasferisce automaticamente, ex art.110 c.p.c., ai soci, che, per effetto della vicenda estintiva, divengono partecipi della comunione in ordine ai beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione, e, se ritualmente evocati in giudizio, parti di questo, pur se estranei ai precedenti gradi del processo. La “perdita della capacità di stare in giudizio” è, infatti, inevitabile conseguenza della sopravvenuta estinzione dell’ente collettivo che sia parte in causa; “e ricorrono qui tutte le ragioni per le quali il legislatore ha dettato la suaccennata disciplina dell’interruzione e dell’eventuale prosecuzione o riassunzione del giudizio, così da contemperare i diritti processuali del successore della parte venuta meno e quelli della controparte”;

  • l’esigenza di stabilità del processo, che eccezionalmente ne consente la prosecuzione pur quando sia venuta meno la parte, se l’evento interruttivo non sia stato fatto constare nei modi di legge, deve considerarsi limitata al grado di giudizio in cui quell’evento è occorso, in difetto di indicazioni normative univoche che ne consentano una più ampia esplicazione; “viceversa, è principio generale, condiviso dalla giurisprudenza di gran lunga maggioritaria, quello per cui il giudizio d’impugnazione deve sempre esser promosso da e contro i soggetti effettivamente legittimati, ovvero, come anche si usa dire, della “giusta parte” (si vedano, tra le altre, Cass. 3 agosto 2012, n. 14106; Cass. 8 febbraio 2012, n. 1760; Cass. 13 maggio 2011, n. 10649; Cass. 7 gennaio 2011, n. 259; Sez. un. 18 giugno 2010, n. 14699; Cass. 8 giugno 2007, n. 13395; Sez. un. 28 luglio 2005, n. 15783). Non appare davvero un onere troppo gravoso – nè tanto meno un’ingiustificata limitazione del diritto d’azione, a fronte dell’esigenza di tutelare anche i successori della controparte, che potrebbero essere ignari della pendenza giudiziaria – quello di svolgere, per chi intenda dare inizio ad un nuovo grado di giudizio, i medesimi accertamenti circa la condizione soggettiva della controparte che sono normalmente richiesti al momento introduttivo della lite. L’evento estintivo del quale qui si sta parlando, ossia la cancellazione della società dal registro delle imprese, è oggetto di pubblicità legale. Salvo impedimenti particolari (sempre in teoria possibili, ma da dimostrare di volta in volta ai fini di un’eventuale rimessione in termini), non appare quindi ammissibile che l’impugnazione provenga dalla – o sia indirizzata alla – società cancellata, e perciò non più esistente, giacchè la pubblicità legale cui l’evento estintivo è soggetto impone di ritenere che i terzi, e quindi anche le controparti processuali, ne siano a conoscenza; emergono appieno, in questo caso, le già accennate esigenze di tutela del successore che sono a base tanto dell’istituto dell’interruzione quanto del principio per cui il giudizio d’impugnazione deve esser sempre instaurato nei confronti della “giusta parte”, cui soltanto ormai fa capo il rapporto litigioso”;

  • quando l’impugnazione non sia diretta nei confronti della “giusta parte”, o non provenga da essa, “l’impugnazione medesima dev’essere dichiarata inammissibile”. Vero è che la giurisprudenza della Corte “è apparsa talora incline a ritenere nullo, per errore sull’identità del soggetto (anzichè inammissibile), l’atto d’impugnazione rivolto ad una parte ormai estinta anzichè ai successori (si vedano, ad esempio, Cass. 30 marzo 2007, n. 7981; e Cass. 8 giugno 2007, n. 13395). Ma tale indicazione appare difficilmente condivisibile, ove si rifletta sul fatto che la nullità, in coerenza con la funzione anche informativa dell’atto introduttivo del giudizio, è contemplata dall’art. 163 c.p.c., comma 3, n. 2, e art.164 c.p.c., comma 1, nel caso in cui la lettura di quell’atto evidenzi l’omissione o l’assoluta incertezza degli elementi che occorrono per la corretta identificazione delle parti. Non di questo si tratta nella situazione di cui si sta qui discutendo: perchè, lungi dall’esservi incertezza sull’identità della parte, questa è ben chiara, ma accade che il giudizio sia stato promosso, oppure che in esso sia stata evocata, una parte (la società estinta) diversa da quella (i relativi soci) che quel giudizio avrebbero potuto promuovere, o che avrebbero dovuto esservi evocati. Non è, insomma, l’identificazione della parte del processo ad essere in gioco, bensì la stessa possibilità di assumere la veste di parte per l’autore o per il destinatario della chiamata in giudizio. Ed allora, ove tale possibilità di assumere la veste di parte faccia difetto, si è in presenza di un giudizio (o grado di giudizio) che, per l’inesistenza di uno dei soggetti del rapporto processuale che si vorrebbe instaurare, si rivela strutturalmente inidoneo a realizzare il proprio scopo: donde l’inammissibilità dell’atto che lo promuove”.

 

10 aprile 2013

Francesco Buetto