Consulenti occasionali: studi di settore inapplicabili

l’accertamento standardizzato va tarato sul singolo contribuente: è difficile far rientrare in tali standard i consulenti che operano di fatto in modo saltuario e occasionale

La Corte di Cassazione ha stabilito, con la sentenza n.19223 del 7 novembre scorso, che gli studi di settore non possono essere applicati nei confronti di un professionista che svolge in maniera occasionale consulenze conferite dall’autorità giudiziale.

La vicenda presa in considerazione dalla Corte di Cassazione riguarda l’impugnazione di un avviso di accertamento ai fini delle imposte dirette (Irpef), IRAP e IVA , emesso dall’amministrazione finanziaria che, a seguito della non congruità dei ricavi dichiarati rispetto a quelli attribuiti dai parametri, rideterminava il reddito del contribuente in riferimento al supposto esercizio dell’attività di consulente agronomo svolto in maniera “occasionale”.

La CTR aveva accolto l’impugnazione del professionista; l’Agenzia delle Entrate si era, di conseguenza, rivolta in Cassazione.

Va osservato che con la circ. 4 giugno 1998, n. 141/E, l’Amministrazione finanziaria nel fornire i primi chiarimenti in ordine alla disciplina Irap, ha specificato che all’imposizione della stessa sono sottratte quelle attività che, pur potendosi astrattamente ricondurre all’esercizio di arte o professione, non sono esercitate mediante un’organizzazione autonoma da parte del soggetto interessato. Successivamente, con la risoluzione 31 gennaio 2002, n. 32/E, l’Agenzia delle Entrate ha assunto una posizione radicale, precisando che l’autonomia organizzativa sussiste tutte le volte in cui si è in presenza di lavoro autonomo ai sensi dell’art. 53, c. 1 (all’epoca, art. 49, c. 1) del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, fatta eccezione per le attività svolte occasionalmente.

Tale documento di prassi ha sostanzialmente affermato un principio che l’esistenza, pur minima, del requisito dell’organizzazione è una connotazione tipica del lavoro autonomo. Tuttavia, alcuni anni dopo, con la circ. 13 giugno 2008, n. 45/E, contenente le istruzioni agli Uffici per la gestione del contenzioso pendente, l’Agenzia delle Entrate ha abbandonato tale posizione, accogliendo il consolidato orientamento dei giudici di legittimità contrario alla tesi secondo cui gli esercenti arti e professioni sono sempre assoggettati ad Irap.

L’Amministrazione finanziaria, ha quindi invitato gli Uffici a riesaminare caso per caso il contenzioso pendente, abbandonandolo, anche previa esecuzione del rimborso richiesto, allorché riscontrino l’assenza del requisito dell’organizzazione .

Come raccomandato dalla Corte di Cassazione, può essere di aiuto, per accertare la sussistenza del requisito di autonoma organizzazione, il riferimento alla disciplina dei c.d. contribuenti minimi ex art. 1, cc. da 96 a 117, della L. 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008). Il requisito in questione va escluso nei casi in cui l’artista o il professionista sia minimo, a prescindere dalla circostanza che lo stesso si sia avvalso o meno del relativo regime fiscale. Naturalmente, ha sottolineato l’Amministrazione finanziaria, il regime dei minimi non esaurisce le ipotesi caratterizzate dall’assenza di autonoma organizzazione, la quale deve essere valutata caso per caso dagli Uffici, anche in presenza di parametri che esprimano valori superiori a quelli utilizzati per la definizione dei contribuenti minimi.

Informazioni utili ai fini dell’individuazione dell’autonoma organizzazione, possono scaturire anche:

  1. dalle dichiarazioni, con specifico riguardo al contenuto del quadro concernente i redditi di lavoro autonomo (Quadro RE);

  2. dai modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore che integrano la dichiarazione dei redditi, in particolare dai quadri relativi al personale addetto all’attività, all’unità locale destinata all’esercizio dell’attività e ai beni strumentali;

  3. dai dati contenuti nel sistema informativo dell’Agenzia e dalla documentazione di cui dispone l’Ufficio, comprese le informazioni emerse nell’attività di controllo a carico del ricorrente o di terzi.

E’ di rilievo sottolineare le sentenze n.26635, 26636, 26637 e 26638 depositate il 18 dicembre 2009, con cui la Corte di Cassazione ha affermato che gli studi di settore, così come i parametri, rappresentano un sistema di presunzioni semplici, che devono essere necessariamente personalizzati nell’ambito del contraddittorio. Per i giudici di legittimità la procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore risulta basata su delle presunzioni semplici “la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati , ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente con il contribuente”. Le presunzioni sono le conseguenze che la legge (presunzioni legali) o il giudice (presunzioni semplici) trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato. Le presunzioni semplici, per avere valenza probatoria, devono essere gravi, precise e concordanti.

Con riferimento alla sentenza oggetto del presente commento i giudici di legittimità ritengono che il ricorso dell’Agenzia delle Entrate non sia fondato.

Il contribuente, ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.

Nel caso in esame le prestazioni offerte erano di carattere occasionale e solo conferite nei confronti dell’autorità giudiziale. Occorre , infatti, ricordare che se il lavoratore occasionale è completamente autonomo nell’espletamento del proprio incarico, potranno trovare applicazione gli artt. 2222 e seguenti del codice civile. E’ necessario , pertanto, la presenza di una persona che compie un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente. È indispensabile, quindi, che il concreto espletamento della prestazione lavorativa non presenti gli indici tipici della subordinazione, quali:

  1. adozione di direttive specifiche da parte del committente. Sono ammissibili quelle che precedono l’(auto)organizzazione della fase esecutiva (è opportuno che esse siano fissate nel documento contrattuale), con l’individuazione di “un programma aziendale fissato preventivamente, con indicazione dei tempi e delle modalità…”, la cui realizzazione “viene rimessa alla capacità autorganizzativa del lavoratore autonomo” (cfr. Sentenza Cass., n. 1182 del 1993);

  2. inserimento funzionale del lavoratore nell’organizzazione d’impresa;

  3. assenza di rischio;

  4. vincoli di orario;

  5. retribuzione legata alla durata della prestazione.

Se l’autonomia, spesso, può essere facilmente riscontrabile nelle prestazioni ad alto contenuto professionale (intellettuale o manuali che siano), in altri casi, in cui la specializzazione non sia così evidente, ci possono essere delle “aree grigie”, che potrebbero generare contestazioni in sede di verifica ispettiva, con conseguenti disconoscimenti contrattuali (riconduzione del rapporto alla parasubordinazione o addirittura alla subordinazione).

La realizzazione di un sito Internet così come la stesura di un articolo, per esempio, può avvenire in autonomia, mentre lo svolgimento delle mansioni di commesso, cameriere o manovale ha in sé caratteristiche più marcatamente riconducibili al rapporto subordinato. A tal riguardo, la Cassazione ha affermato che “la scarsità e saltuarietà delle prestazioni rese da un lavoratore come cameriere ai tavoli di un ristorante (da sole) non qualificano come autonomo il rapporto di lavoro. Nell’ipotesi di espletamento di mansioni di cameriere, chi afferma l’autonomia del rapporto è tenuto a dimostrare in concreto come sia possibile lavorare quale cameriere in un ristorante senza coordinamento con i colleghi e libero dalle direttive del datore” (cfr. Sentenza Cassazione n.58 del 7 gennaio 2009).

Per la Corte di Cassazione l’esito del contraddittorio, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non ha risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli standards, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito.

Alla luce di tale principio si rivela infondata la pretesa dell’amministrazione tanto di sorreggere il proprio accertamento sulla sola base del presunto scostamento dai parametri, quanto di determinare un inversione dell’onere della prova a carico del contribuente di fronte alla non dimostrata applicabilità nella specie degli standard richiamati.

I giudici , tra l’altro , nel caso in esame riconoscono come un numero assai limitato di prestazioni di consulenza, tutte su incarico dell’autorità giudiziaria, non possono essere prova di una attività continuativa del tipo presunto nell’accertamento.

Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

 

5 marzo 2013

Federico Gavioli

La Corte di Cassazione ha stabilito, con la sentenza n.19223 del 7 novembre scorso, che gli studi di settore non possono essere applicati nei confronti di un professionista che svolge in maniera occasionale consulenze conferite dall’autorità giudiziale.

 

La vicenda presa in considerazione dalla Corte di Cassazione riguarda l’impugnazione di un avviso di accertamento ai fini delle imposte dirette (Irpef), IRAP e IVA , emesso dall’amministrazione finanziaria che, a seguito della non congruità dei ricavi dichiarati rispetto a quelli attribuiti dai parametri, rideterminava il reddito del contribuente in riferimento al supposto esercizio dell’attività di consulente agronomo svolto in maniera “occasionale”.

 

La CTR aveva accolto l’impugnazione del professionista; l’Agenzia delle Entrate si era, di conseguenza, rivolta in Cassazione.

 

Va osservato che con la circ. 4 giugno 1998, n. 141/E, l’Amministrazione finanziaria nel fornire i primi chiarimenti in ordine alla disciplina Irap, ha specificato che all’imposizione della stessa sono sottratte quelle attività che, pur potendosi astrattamente ricondurre all’esercizio di arte o professione, non sono esercitate mediante un’organizzazione autonoma da parte del soggetto interessato. Successivamente, con la risoluzione 31 gennaio 2002, n. 32/E, l’Agenzia delle Entrate ha assunto una posizione radicale, precisando che l’autonomia organizzativa sussiste tutte le volte in cui si è in presenza di lavoro autonomo ai sensi dell’art. 53, c. 1 (all’epoca, art. 49, c. 1) del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, fatta eccezione per le attività svolte occasionalmente.

 

Tale documento di prassi ha sostanzialmente affermato un principio che l’esistenza, pur minima, del requisito dell’organizzazione è una connotazione tipica del lavoro autonomo. Tuttavia, alcuni anni dopo, con la circ. 13 giugno 2008, n. 45/E, contenente le istruzioni agli Uffici per la gestione del contenzioso pendente, l’Agenzia delle Entrate ha abbandonato tale posizione, accogliendo il consolidato orientamento dei giudici di legittimità contrario alla tesi secondo cui gli esercenti arti e professioni sono sempre assoggettati ad Irap.

 

L’Amministrazione finanziaria, ha quindi invitato gli Uffici a riesaminare caso per caso il contenzioso pendente, abbandonandolo, anche previa esecuzione del rimborso richiesto, allorché riscontrino l’assenza del requisito dell’organizzazione .

 

Come raccomandato dalla Corte di Cassazione, può essere di aiuto, per accertare la sussistenza del requisito di autonoma organizzazione, il riferimento alla disciplina dei c.d. contribuenti minimi ex art. 1, cc. da 96 a 117, della L. 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008). Il requisito in questione va escluso nei casi in cui l’artista o il professionista sia minimo, a prescindere dalla circostanza che lo stesso si sia avvalso o meno del relativo regime fiscale. Naturalmente, ha sottolineato l’Amministrazione finanziaria, il regime dei minimi non esaurisce le ipotesi caratterizzate dall’assenza di autonoma organizzazione, la quale deve essere valutata caso per caso dagli Uffici, anche in presenza di parametri che esprimano valori superiori a quelli utilizzati per la definizione dei contribuenti minimi.

 

Informazioni utili ai fini dell’individuazione dell’autonoma organizzazione, possono scaturire anche:

 

  1. dalle dichiarazioni, con specifico riguardo al contenuto del quadro concernente i redditi di lavoro autonomo (Quadro RE);

  2. dai modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore che integrano la dichiarazione dei redditi, in particolare dai quadri relativi al personale addetto all’attività, all’unità locale destinata all’esercizio dell’attività e ai beni strumentali;

  3. dai dati contenuti nel sistema informativo dell’Agenzia e dalla documentazione di cui dispone l’Ufficio, comprese le informazioni emerse nell’attività di controllo a carico del ricorrente o di terzi.

 

E’ di rilievo sottolineare le sentenze n.26635, 26636, 26637 e 26638 depositate il 18 dicembre 2009, con cui la Corte di Cassazione ha affermato che gli studi di settore, così come i parametri, rappresentano un sistema di presunzioni semplici, che devono essere necessariamente personalizzati nell’ambito del contraddittorio. Per i giudici di legittimità la procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore risulta basata su delle presunzioni semplici “la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati , ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente con il contribuente”. Le presunzioni sono le conseguenze che la legge (presunzioni legali) o il giudice (presunzioni semplici) trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato. Le presunzioni semplici, per avere valenza probatoria, devono essere gravi, precise e concordanti.

 

Con riferimento alla sentenza oggetto del presente commento i giudici di legittimità ritengono che il ricorso dell’Agenzia delle Entrate non sia fondato.

 

Il contribuente, ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.

 

Nel caso in esame le prestazioni offerte erano di carattere occasionale e solo conferite nei confronti dell’autorità giudiziale. Occorre , infatti, ricordare che se il lavoratore occasionale è completamente autonomo nell’espletamento del proprio incarico, potranno trovare applicazione gli artt. 2222 e seguenti del codice civile. E’ necessario , pertanto, la presenza di una persona che compie un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente. È indispensabile, quindi, che il concreto espletamento della prestazione lavorativa non presenti gli indici tipici della subordinazione, quali:

 

  1. adozione di direttive specifiche da parte del committente. Sono ammissibili quelle che precedono l’(auto)organizzazione della fase esecutiva (è opportuno che esse siano fissate nel documento contrattuale), con l’individuazione di “un programma aziendale fissato preventivamente, con indicazione dei tempi e delle modalità…”, la cui realizzazione “viene rimessa alla capacità autorganizzativa del lavoratore autonomo” (cfr. Sentenza Cass., n. 1182 del 1993);

  2. inserimento funzionale del lavoratore nell’organizzazione d’impresa;

  3. assenza di rischio;

  4. vincoli di orario;

  5. retribuzione legata alla durata della prestazione.

 

Se l’autonomia, spesso, può essere facilmente riscontrabile nelle prestazioni ad alto contenuto professionale (intellettuale o manuali che siano), in altri casi, in cui la specializzazione non sia così evidente, ci possono essere delle “aree grigie”, che potrebbero generare contestazioni in sede di verifica ispettiva, con conseguenti disconoscimenti contrattuali (riconduzione del rapporto alla parasubordinazione o addirittura alla subordinazione).

 

La realizzazione di un sito Internet così come la stesura di un articolo, per esempio, può avvenire in autonomia, mentre lo svolgimento delle mansioni di commesso, cameriere o manovale ha in sé caratteristiche più marcatamente riconducibili al rapporto subordinato. A tal riguardo, la Cassazione ha affermato che “la scarsità e saltuarietà delle prestazioni rese da un lavoratore come cameriere ai tavoli di un ristorante (da sole) non qualificano come autonomo il rapporto di lavoro. Nell’ipotesi di espletamento di mansioni di cameriere, chi afferma l’autonomia del rapporto è tenuto a dimostrare in concreto come sia possibile lavorare quale cameriere in un ristorante senza coordinamento con i colleghi e libero dalle direttive del datore” (cfr. Sentenza Cassazione n.58 del 7 gennaio 2009).

 

Per la Corte di Cassazione l’esito del contraddittorio, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non ha risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli standards, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito.

 

Alla luce di tale principio si rivela infondata la pretesa dell’amministrazione tanto di sorreggere il proprio accertamento sulla sola base del presunto scostamento dai parametri, quanto di determinare un inversione dell’onere della prova a carico del contribuente di fronte alla non dimostrata applicabilità nella specie degli standard richiamati.

 

I giudici , tra l’altro , nel caso in esame riconoscono come un numero assai limitato di prestazioni di consulenza, tutte su incarico dell’autorità giudiziaria, non possono essere prova di una attività continuativa del tipo presunto nell’accertamento.

 

Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

 

 

 

5 marzo 2013

 

Federico Gavioli