Transfer pricing: su chi grava l'onere probatorio?

il c.d. transfer price è quella tecnica mediante la quale, nell’ambito di un rapporto tra società «correlate», è posto in essere il tentativo di trasferire gli utili da un paese ad alta pressione fiscale a un altro più interessante fiscalmente, attraverso lo scambio di beni e servizi, svincolati dalle normali pratiche commerciali, alterando il valore normale delle cessioni dei beni o delle prestazioni di servizi effettuate o ricevute

Aspetti generali

Il c.d. transfer price è quella tecnica mediante la quale, nell’ambito di un rapporto tra società «correlate», è posto in essere il tentativo di trasferire gli utili da un paese ad alta pressione fiscale a un altro più interessante fiscalmente, attraverso lo scambio di beni e servizi, svincolati dalle normali pratiche commerciali, alterando il valore normale delle cessioni dei beni o delle prestazioni di servizi effettuate o ricevute.

L’ordinamento tributario italiano contrasta tale pratica mediante l’art. 110, settimo comma, del TUIR, il quale dispone che «i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali “procedure amichevoli” previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi. La presente disposizione si applica anche per i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per conto delle quali l’impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o lavorazione di prodotti».

Diversamente da quanto accade nel contesto della disciplina di indeducibilità dei «costi esteri» black list (art. 110, decimo comma, TUIR), si tratta qui di transazioni che intercorrono tra società caratterizzate da rapporti partecipativi (al di là dell’eventuale configurazione di un «gruppo» in senso formale), con la possibilità di coinvolgere anche soggetti fiscalmente residenti in Stati del tutto estranei alle black list.

 

Il sistema documentale e l’esonero dalle sanzioni

L’art. 26 del D.L. 31.5.2010, n. 78, convertito dalla L. 30.7.2010, n. 122, si occupa dell’adeguamento alle direttive OCSE in materia di documentazione dei prezzi di trasferimento, prevedendo una documentazione standardizzata, che consente il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati dalle imprese.

Il sistema consente alle imprese di fruire di un regime di esonero dalle sanzioni per infedeltà delle dichiarazioni fiscali di cui all’articolo 1, comma 2 del d.lgs. n. 471 del 1997 (dal 100% al 200% della maggiore imposta accertata) connesse con le rettifiche di transfer pricing, permettendo altresì all’amministrazione di disporre in sede di controllo della documentazione necessaria a riscontrare la corrispondenza dei prezzi determinati tra imprese associate multinazionali con quelli praticati in regime di libera concorrenza.

Il sistema documentale ha trovato la sua attuazione con il provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate del 29.9.2010, coerente con le direttive emanate dall’OCSE e con il Codice di condotta dell’Unione europea sulla documentazione dei prezzi di trasferimento per le imprese associate nell’Unione europea, approvato con risoluzione del Consiglio del 27.6.2006, e ha come obiettivo principale quello di tutelare la buona fede delle imprese che provvedono ad un’elaborazione interna dei criteri di determinazione dei prezzi praticati e alla loro esplicitazione in caso di richiesta delle Amministrazioni degli Stati interessati.

La documentazione da produrre prevede un c.d. masterfile, riguardante il gruppo, e una documentazione nazionale, che più specificamente riguarda l’impresa residente.

Il provvedimento contiene un’opportuna articolazione delle informazioni a seconda della tipologia di impresa interessata, distinguendo a seconda che questa sia una società holding, una subholding, una società partecipata, ovvero una stabile organizzazione di un’impresa residente.

La documentazione deve essere predisposta annualmente: l’unica eccezione a tale regola è prevista per le piccole e medie imprese (imprese industriali, commerciali o di servizi con volume d’affari o ricavi annui non superiori a 50 milioni di euro), le quali possono esimersi dall’aggiornare i dati relativi all’analisi di comparabilità per i due anni successivi a quello di predisposizione della documentazione.

La documentazione (che può comunque essere integrata su richiesta degli uffici) deve essere consegnata ai verificatori entro 10 giorni dalla richiesta, e la possibilità di ottenere la disapplicazione delle sanzioni è subordinata alla valutazione degli elementi trasmessi dalle imprese. Per quanto attiene ai termini per la comunicazione all’Agenzia delle Entrate relativa al possesso della documentazione, il provvedimento stabilisce che, a regime, essa deve avvenire in sede di dichiarazione dei redditi.

 

La questione sottoposta alla Cassazione

Il contenzioso di merito sul quale si innesta la pronuncia della sezione tributaria della S.C. n. 11949 del 13.7.2012 riguarda soprattutto la dimostrazione dell’inerenza dei costi addebitati a una società italiana dalla società «consociata» non residente, in presenza dei presupposti per l’applicazione delle norme sui prezzi di trasferimento.

In grado d’appello, la CTR Lombardia aveva rigettato l’appello dell’Agenzia delle Entrate, in particolare disconoscendo le rettifiche fondate sul transfer pricing, formulate in sede di accertamento.

Omettendo tutti gli altri punti sui quali il contenzioso si articola, riferiti ad aspetti che fuoriescono dall’ambito del presente intervento, si osserva che l’Agenzia delle Entrate denunciava la violazione dell’art. 110, settimo comma, del TUIR, in relazione all’art. 360, n. 3, del c.p.c., nonché l’insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia, in relazione all’ art. 360, n. 5, del c.p.c.

Nel ricostruire i termini della controversia, la Cassazione precisa che la società italiana T. S.r.l. è interamente controllata dalla svizzera H. S.A., e fa parte del gruppo multinazionale T. statunitense, del quale costituisce la filiale unica per l’Italia, per la commercializzazione in esclusiva dei prodotti software (giochi per pc, per play station, etc.). Questi prodotti vengono importati dalla T. S.r.l. tramite la consorella (a sua volta controllata dalla medesima casa madre) T. LTD, con sede in Gran Bretagna, fornitore unico dei prodotti commercializzati dalla filiale italiana.

Il 31.10.2004, ultimo giorno dell’esercizio fiscale, la T. S.r.l. aveva contabilizzato una fattura emessa dalla predetta «consorella» T. LTD, per l’importo di 947.456 sterline. Detta somma era riferibile all’addebito alla società italiana di consistenti rettifiche in aumento dei prezzi in precedenza applicati, in relazione ad alcuni prodotti software acquistati dalla medesima nel corso dell’esercizio 2004.

L’ufficio fiscale riteneva trattarsi dì un’operazione elusiva, «finalizzata al drenaggio degli utili conseguiti dalla filiale italiana mediante l’abuso dello strumento costituito dai ‘prezzi di trasferimento’ all’interno del gruppo multinazionale».

Tale orientamento veniva supportato con le seguenti argomentazioni di tipo presuntivo:

  1. la data dell’operazione, effettuata l’ultimo giorno dell’esercizio fiscale, era concomitante con la disponibilità dei consuntivi sulla redditività della stessa società contribuente;

  2. l’operazione economica si traduceva nella contabilizzazione di una fattura passiva per rettifica in aumento del prezzo già praticato dalla società fornitrice, su vendite quantitativamente rilevanti di prodotti software;

  3. il prezzo praticato si scostava da quello medio di acquisto degli stessi prodotti da parte della T. s.r.l.

In conseguenza della rettifica, l’ufficio procedente aveva applicato il criterio del valore normale, come richiesto dalla norma, determinato secondo il prezzo medio di vendita applicato dalla fornitrice inglese alla consorella italiana, nel corso dell’esercizio fiscale esaminato.

Secondo la CTR, l’appello dell’Agenzia doveva ritenersi infondato perché:

  1. l’onere della prova in ordine al comportamento elusivo del contribuente doveva incombere sull’amministrazione;

  2. tale onere non sarebbe stato, nel caso di specie, adempiuto da parte dell’Agenzia delle Entrate, a fronte degli elementi di prova forniti dalla contribuente sulla scorta di uno studio prodotto dalla propria consulente;

  3. non era stato dimostrato l’intento elusivo della contribuente, e neppure che quest’ultima avesse conseguito un effettivo beneficio fiscale dal comportamento contestato dall’amministrazione.

 

La ricostruzione della normativa di riferimento e delle sue motivazioni

La Corte accoglie nella sentenza esaminata le censure mosse alla CTR dall’Agenzia delle Entrate, sostanzialmente fondate sull’asserzione che l’onere della prova riguardo alla dimostrazione dell’inerenza dei costi da transfer pricing compete non all’amministrazione, bensì ai contribuenti.

La normativa in considerazione, secondo la S.C., ha «la finalità di consentire all’amministrazione finanziaria un controllo dei corrispettivi applicati alle operazioni commerciali e/o finanziarie intercorse tra società collegate e/o controllate residenti in nazioni diverse, al fine di evitare che vi siano aggiustamenti artificiali di tali prezzi, determinati dallo scopo di ottimizzare il carico fiscale di gruppo, ad esempio canalizzando il reddito verso le società dislocate in aree o giurisdizioni caratterizzate da una fiscalità più mite».

In tale prospettiva assume un ruolo centrale, nell’ordinamento tributario italiano, l’art. 110, settimo comma, del TUIR, a norma del quale i componenti reddituali che hanno comportato il trasferimento di base imponibile verso le società «consociate» estere vengono valutati d’ufficio secondo il criterio del valore normale (ex art. 9 del TUIR), ignorando gli importi manifestati nelle fatture e nella contabilità ufficiale.

«La norma succitata costituisce (…) una deroga al principio per cui, nel sistema di imposizione sul reddito, questo viene determinato sulla base dei corrispettivi pattuiti dalle parti della singola transazione commerciale (…). Nelle ipotesi in cui tali corrispettivi risultano scarsamente attendibili e possono essere manipolati in danno del fisco italiano, come nel caso degli scambi transnazionali tra soggetti i cui processi decisionali sono condizionati, poiché funzionali ad un unitario centro di interessi, i corrispettivi medesimi sono – per vero – sostituiti, per volontà di legge, dal valore normale dei beni o dei servizi oggetto dello scambio, qualora tale sostituzione ricada, in concreto, a vantaggio del fisco italiano».

La previsione normativa in rassegna completa «il catalogo delle garanzie offerte dalla legislazione a favore dell’Erario, con riferimento a tutte quelle ipotesi nelle quali il corrispettivo pattuito – data la sostanziale unicità del soggetto economico, trattandosi di rapporti commerciali tra articolazioni dello stesso gruppo – può non riflettere il reale valore dei beni e dei servizi scambiati».

Ciò sia per impedire le «condotte ‘simulatorie’ danti luogo a fenomeni di tipo evasivo», sia per «evitare che, mediante fenomeni non simulatori come l’alterazione del prezzo di trasferimento, l’Erario italiano abbia a subire comunque un concreto pregiudizio».

Sulla base di tali considerazioni, ritiene la S.C. che la disciplina sul transfer pricing costituisca una clausola antielusiva, coerente con i principi comunitari in tema di abuso del diritto, finalizzata ad evitare che all’interno del gruppo di società vengano effettuati trasferimenti di utili mediante l’applicazione di prezzi inferiori o superiori al valore normale dei beni ceduti, al fine di sottrarli all’imposizione fiscale in Italia a favore di tassazioni estere inferiori.

L’articolo del TUIR deve essere coordinato con l’art. 9 del modello di convenzione OCSE1, secondo il quale «quando le condizioni convenute o imposte tra le due imprese, nelle loro relazioni commerciali o finanziarie, sono diverse da quelle che sarebbero state convenute tra imprese indipendenti, gli utili che in mancanza di tali condizioni sarebbero stati realizzati da una delle due imprese, ma che a causa di dette condizioni non lo sono stati, possono essere inclusi negli utili di questa impresa e tassati di conseguenza».

Pertanto, il criterio principale per la valutazione dei prezzi di trasferimento tra le imprese associate di un gruppo multinazionale è costituito dal principio di libera concorrenza, fondato sul regime che si instaura tra imprese indipendenti.

Ciò spiega perché – in assenza di adeguate motivazioni – le transazioni tra parti correlate, non indipendenti, nel contesto del transfer price vengano valorizzate secondo il criterio del valore normale, che è ancorato al regime della libera concorrenza.

 

L’orientamento della Corte: l’onere probatorio incombe sul contribuente

Secondo le considerazioni della Corte:

  • la violazione di una clausola antielusiva comporta in linea generale, come aveva affermato la CTR, che l’onere della prova circa la ricorrenza dei presupposti di fatto dell’elusione gravi sull’amministrazione finanziaria;

  • per quanto concerne i componenti positivi del reddito,incombe certamente sull’amministrazione finanziaria – secondo le regole generali in materia (art. 2697, c.c. ) – l’onere di provare la fondatezza della rettifica da transfer price, con riferimento allo scostamento tra il corrispettivo pattuito e il valore normale dei beni o dei servizi scambiati;

  • ciò nonostante, osserva la Cassazione che il problema della ripartizione dei costi infragruppo involge anche il profilo dell’inerenza, oltre che quello dell’esistenza, dei costi dichiarati in seguito all’addebito di un servizio o di una cessione di beni, effettuati alla società controllata dalla controllante, o da altra società soggetta al medesimo controllo;

  • l’onere di fornire la dimostrazione dell’esistenza e dell’inerenza delle componenti negative del reddito, riferite a costi derivanti da servizi o beni prestati o ceduti da una società controllante estera alla controllata italiana, «non può pertanto che cedere – in forza del c.d. principio di vicinanza alla prova – a carico del contribuente»2.

In definitiva, quindi:

  • la prova dell’esistenza del costo è posta a carico dell’amministrazione;

  • la prova dell’inerenza del costo medesimo, ossia dell’asservimento dello stesso all’attività dell’impresa (della società che lo sostiene) è posta a carico della contribuente.

«Da quanto fin qui esposto deve, pertanto, necessariamente inferirsi l’erroneità dell’impugnata sentenza, laddove ha ritenuto l’Agenzia non avesse adempiuto l’onere, sulla medesima incombente, di provare il dedotto comportamento elusivo del contribuente, in violazione delle norme sul transfer pricing».

Detto incidentalmente: la prova che il costo concretamene esiste può essere fornita sulla base delle evidenze contabili e dell’esame della gestione contabile e fiscale della società italiana. La contestazione viene però fondata nel caso di specie sul difetto di inerenza, ossia sulla mancata prova che il costo rappresenta un’utilità per l’impresa (per la società italiana medesima).

Nella situazione in esame, è stato quindi in pratica affermato che la parte non aveva fornito la dimostrazione – che le competeva – che il maggior costo dei beni (il quale aveva giustificato la fattura di rettifica dalla società inglese a quella italiana) era effettivamente rispondente a un’esigenza di quest’ultima, legata alla sua attività economica anche in termini di inerenza del costo.

 

Il parere di parte non è vincolante

Quanto allo studio (prodotto da una società di consulenza) che la società aveva prodotto nel giudizio, ritenendolo utile a dimostrare la bontà delle proprie tesi, ha affermato la Corte che esso «si traduce in un mero parere, non vincolante per l’amministrazione, del quale, peraltro, la sentenza impugnata non riferisce neppure sommariamente il contenuto, fino a lasciare indeterminato se si tratti di uno studio di carattere generale, ovvero di uno studio riguardante la concreta operazione per cui è giudizio».

Esso non può quindi integrare la prova dell’inerenza del costo, il cui onere incombeva sulla società contribuente.

 

15 novembre 2012

Fabio Carrirolo

1 La Corte da riferimento alla versione 1995/1996 del Modello OCSE.

2 La Corte fa richiamo a tale riguardo al precedente costituito da Cass. n. 1709/2007.