La mancata esposizione del credito IVA nella dichiarazione annuale non impedisce il rimborso

la dichiarazione fiscale è una dichiarazione di scienza (e non è pertanto fonte dell’obbligo tributario); essa è quindi superabile a mezzo di una successiva attività di rettifica. Se il contribuente non espone il credito nell’ultima dichiarazione IVA, quali sono le opzioni?

Aspetti generali

La dichiarazione fiscale è una dichiarazione di scienza (e non è pertanto fonte dell’obbligo tributario); essa è quindi superabile a mezzo di una successiva attività di rettifica: ciò è stato recentemente riaffermato dalla Corte di Cassazione (Cass., sezione tributaria, 28.6.2012, n. 10808) con riferimento a una casistica nella quale la mancata esposizione del credito IVA è stata superata mediante una richiesta di rimborso da parte del cessionario.

Occorre dire che la fattispecie sulla quale è intervenuta la decisione della S.C. riguardava non la rettifica della dichiarazione fiscale, bensì l’intervento rettificativo «sanante» del contribuente, il quale non aveva affatto esposto il proprio credito IVA nella dichiarazione. Ciò nondimeno, sotto il profilo sostanziale doveva riconoscersi il diritto al credito medesimo.

Il pensiero della Corte si orienta dunque alla valorizzazione dell’unica «fonte» costituita dall’art. 1 del decreto IVA e dalle altre norme a carattere sostanziale (le quali prevalgono rispetto al momento dichiarativo)1.

 

L’intervento del 2002

Relativamente all’omessa dichiarazione che non fa perdere il diritto all’utilizzo del credito IVA, la Cassazione era già intervenuta, tra le altre, con la sentenza 18.1.2002, n. 523.

In tale pronuncia, la Corte ha chiarito che, se un contribuente a credito non presenta la dichiarazione annuale, può computare l’imposta detraibile nella dichiarazione dell’anno successivo.

La stessa mancata detrazione del credito nella dichiarazione successiva a quella relativa all’anno in cui il credito è maturato, non fa inoltre venir meno il diritto al rimborso.

«Infatti, la perdita di un tale diritto, avendo natura di vera e propria decadenza (e cioè di sanzione) dovrebbe essere espressamente prevista dalla legge, mentre una previsione al riguardo manca nell’art. 30 cit., né è riscontrabile in altre norme dello stesso D.P.R.. Inoltre la negazione del diritto al rimborso determinerebbe un indebito incameramento del credito da parte dell’erario».

Il principio espresso è inequivocabile: se il rimborso spetta secondo le disposizioni normative sostanziali (credito IVA maturato e presenza degli altri presupposti), il suo diniego rappresenterebbe un indebito arricchimento erariale.

La condizione necessaria e sufficiente per evitare la decadenza del diritto è costituita dall’esposizione del credito nella prima dichiarazione utile.

 

Il diritto alla ripetizione dell’indebito in materia fiscale

La problematica affrontata dalla Corte si lega al generale principio del diritto alla ripetizione dell’indebito, che travalica i confini dei singoli campi delle scienze giuridiche, e certamente sussiste ed è operante anche in materia di obblighi tributari.

Il dovere di contribuire alla spesa pubblica attraverso i tributi, incardinato negli articoli 23 e 53 della Costituzione italiana, comporta infatti il correlato diritto al ripristino della situazione antigiuridica che si determinerebbe in assenza dei presupposti che, nell’ordinamento positivo, fanno sorgere l’obbligo. In tale contesto, il legislatore non può frapporre ostacoli all’esercizio di un diritto che rappresenta la pura e semplice reintegrazione di una legittimità violata.

Può essere a tale riguardo fatto un parallelo con l’art. 2033 del codice civile, in base al quale «chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda».

L’art. 8, c. 4, u.p., della legge n. 212 del 2000 (Statuto del contribuente), disposizione che concorre a porre i principi generali dell’ordinamento tributario, stabilisce che «il rimborso va effettuato quando sia stato definitivamente accertato che l’imposta non era dovuta o era dovuta in misura minore rispetto a quella accertata».

In linea generale, il fisco è dunque tenuto a disporre il rimborso delle somme indebitamente percepite, quando l’indebito scaturisce da un «accertamento definitivo». Tale formulazione può generare dubbi: il riferimento è alla definitività dell’azione dell’amministrazione, coincidente con la notificazione dell’avviso di accertamento, oppure alla raggiunta inoppugnabilità dello stesso, che può seguire solo all’esperimento di tutti i gradi di giudizio?

Non si dimentichi, poi, che il rimborso può essere provocato da un’istanza all’Amministrazione fiscale, la quale può disporlo, negarlo o rimanere silente; il contribuente può dunque impugnare il diniego espresso o tacito, con il formarsi del relativo contenzioso: il fatto di avere pronta soddisfazione del proprio diritto al reintegro del pagamento indebito non è dunque pacifico, sicché il diritto medesimo, benché codificato, può essere ostacolato dalle lungaggini e dagli oneri procedurali e processuali necessari a garantirne l’effettività.

La giurisprudenza tributaria ha però ricavato la regola di diritto che, nell’ipotesi dell’errore causato dall’ufficio fiscale nell’iscrivere a ruolo somme maggiori del dovuto, scatta l’obbligo del relativo rimborso che non può essere sottoposto ad alcuna condizione.

Non può, infatti, tollerarsi che il fisco possa, in qualsiasi modo, avvalersi del proprio errore per depauperare ingiustamente il contribuente (eccependo, in particolare, la produzione del ricorso oltre i termini decadenziali previsti).

 

Alcuni precedenti giurisprudenziali

La sentenza della sezione tributaria n. 12012 del 22.5.2006 ha riaffermato che «ove il contribuente fruisca di un credito di imposta per un determinato anno e lo esponga nella dichiarazione annuale, se omette di riportarlo nella dichiarazione relativa all’anno successivo non perde il diritto alla detrazione, atteso che la decadenza dal diritto è comminata, dall’art. 28, quarto comma, del D.P.R. n. 633/1972, soltanto per il caso in cui il credito (o l’eccedenza di imposta versata) non venga indicato nella prima dichiarazione utile…».

La stessa sezione tributaria, nella successiva pronuncia n. 19326 del 22.9.2011, ha avuto modo di affermare che:

  • l’omessa presentazione della dichiarazione annuale esclude, per il contribuente, la possibilità di recuperare il credito maturato nel relativo periodo di imposta (nella specie il 1999), attraverso il trasferimento della detrazione nel periodo d’imposta successivo, nella specie il 2000);

  • in tale situazione il contribuente può soltanto esercitare il diritto al rimborso, ricorrendone i presupposti.

Nel ribadire che l’omessa esposizione del credito nella dichiarazione annuale preclude per il contribuente il recupero del credito in sede di dichiarazione, residuando solamente la possibilità del rimborso (che non viene mai posta in discussione dalla Corte), la sentenza n. 7172 del 25.3.2009 puntualizza che l’inottemperanza all’obbligo della dichiarazione annuale espone il contribuente all’accertamento induttivo.

Il sistema prevede quindi già una «punizione» per l’omissione della dichiarazione, fattispecie che peraltro è sanzionata in senso proprio in via amministrativa e, ricorrendone le particolari condizioni, anche in via penale. Evidentemente, la necessità di attivare un accertamento, ancorché induttivo, richiede l’effettuazione di contestazioni puntuali al contribuente, e non si accompagna al disconoscimento di un credito, il quale comunque trae la propria giustificazione e fonte dall’avvenuto compimento di operazioni che conferiscono il diritto alla detrazione.

 

La sentenza del 2012

Il contenzioso di merito sul quale è intervenuta la Cassazione con la sentenza n. 10808 del 28.6.2012 trae origine da un credito IVA risultante da una dichiarazione relativa all’anno 2003, ceduto dalla società «C. S.r.l. in liquidazione» alla società «G.C.F. S.p.a.».

Avverso il silenzio-rifiuto dell’amministrazione al rimborso, la CTP aveva accolto il ricorso della società per azioni, e la CTR aveva confermato tale decisione in grado d’appello.

Secondo le affermazioni della Commissione Regionale, il diritto al rimborso del credito IVA spettava alla società appellata perché:

  • il credito era sorto civilisticamente a seguito della liquidazione IVA del mese di dicembre 2003;

  • la cessione del credito, avvenuta il 30 dicembre 2003, era civilisticamente perfetta e atta a trasferire le ragioni di credito in capo al cessionario;

  • la comunicazione della cessione, notificata all’Agenzia delle Entrate, e la presentazione della dichiarazione e del mod. VR da parte della cedente, costituiscono meri adempimenti formali necessari per rendere la cessione efficace anche nei confronti dell’amministrazione finanziaria;

  • l’art. 5, primo comma, del D.M. 26.2.1992, dispone che il rimborso può essere eseguito al liquidatore sempreché il credito d’imposta sia evidenziato nel bilancio finale di liquidazione: questo non era però il caso in esame in quanto il credito IVA doveva essere rimborsato al cessionario, il quale, dopo gli adempimenti formali posti in essere dal cedente, era il solo creditore anche nei confronti dell’amministrazione finanziaria.

L’Agenzia delle Entrate aveva invece affermato che:

  • il credito IVA sorge al momento della sua esposizione nella dichiarazione annuale;

  • giacché il credito era stato ceduto anteriormente alla sua esposizione nella dichiarazione (esposizione che poi non vi era stata) e alla richiesta di rimborso attraverso il modello VR, la cessione intervenuta aveva a oggetto un credito futuro;

  • una situazione di credito in capo al cessionario nei confronti del ceduto» può costituirsi solo se e quando il credito venga ad esistenza, ciò che doveva ritenersi non avvenuto nel caso di specie dato che la cedente non aveva esposto il credito in dichiarazione;

  • la possibilità (prevista dall’art. 5 del D.M. 26.2.1992) di eseguire il rimborso al liquidatore, sempreché il credito di imposta sia stato evidenziato nel bilancio di liquidazione finale, confermava che «l’effetto derivante da un’eventuale cessione è contemporaneo all’insorgenza del credito e postula la sua venuta ad esistenza attraverso l’esposizione nel bilancio finale di liquidazione».

 

La mancata esposizione in dichiarazione non impedisce il rimborso IVA

Interviene la Cassazione sulle questioni sopra riportate, in primo luogo negando che il credito IVA sorga al momento della sua esposizione in dichiarazione, e che una situazione di credito in capo al cessionario nei confronti del ceduto possa costituirsi solo se e quando il credito venga ad esistenza.

In tema di IVA, come per qualsiasi altra imposta, valorizzando quanto già espresso in precedenza2 la Corte chiarisce che «la dichiarazione del contribuente non costituisce la fonte dell’obbligo tributario» (per «obbligo tributario» intendendo il complesso dei reciproci rapporti, attivi e passivi, tra contribuente ed ente impositore in relazione a quel tributo), «né produce effetti assimilabili a quelli di una confessione».

La dichiarazione rappresenta infatti solamente un momento essenziale del procedimento di accertamento e riscossione dell’imposta, mentre la fonte sostanziale dell’obbligazione tributaria, in particolare per l’IVA, «è data unicamente dal coinvolgimento del contribuente in una delle operazioni imponibili considerate dalla norma (cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni; importazioni da chiunque effettuate)».

Nonostante l’omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA, secondo la Cassazione, il contribuente può esercitare il diritto al rimborso, giacché l’omissione esclude solamente la possibilità di recuperare il credito maturato nel relativo periodo di imposta attraverso il trasferimento della detrazione nel periodo d’imposta successivo3.

L’inottemperanza del contribuente all’obbligo dichiarativo lo espone altresì all’accertamento induttivo, escludendo implicitamente la possibilità di recuperare il credito maturato in ordine al relativo periodo d’imposta, attraverso il trasferimento della detrazione nel periodo d’imposta successivo, mentre «residua» solamente la possibilità di chiederne il rimborso4.

Il credito di imposta IVA, quindi, secondo le argomentazioni della Cassazione non sorge affatto al momento della sua esposizione nella dichiarazione annuale; conseguentemente, la sussistenza del credito in capo al contribuente non può essere negata per la sola ragione che detto credito non è stato indicato nella dichiarazione annuale perché ceduto a terzi prima del momento di formazione erroneamente individuato (analogamente a quanto è stato affermato per il caso del credito IVA ceduto a terzi ma non esposto in bilancio5).

 

Le rettifiche induttive nell’IVA

L’omissione della dichiarazione IVA da parte dei contribuenti tenuti alla sua presentazione consente, secondo quanto è stato osservato dalla Corte, il ricorso a metodologie induttive, ossia a un ampio utilizzo di presunzioni, per quanto è previsto dall’art. 55 del D.P.R. n. 633/1972.

Ciò significa che, in primo luogo, se il contribuente non ha presentato la dichiarazione annuale l’ufficio può procedere in ogni caso all’accertamento prescindendo dal preventivo controllo della contabilità. In tale evenienza, l’ammontare imponibile complessivo e quello della relativa imposta sono determinati sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolte o venute a conoscenza dell’ufficio finanziario; sono computati in detrazione i soli versamenti eventualmente eseguiti dal contribuente e le imposte detraibili ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972 risultanti dalle liquidazioni mensili (art. 27 del decreto IVA).

Secondo quanto affermato nella C.M. 30.11.2000, n. 222/E, in caso di accertamento induttivo per omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA va portato in deduzione dall’imposta dovuta anche il credito maturato nell’anno solare precedente non richiesto a rimborso, ma annotato nel registro degli acquisti ai sensi del precedente art. 30. La dichiarazione si considera omessa se non è presentata, ovvero se è presentata oltre i 90 giorni dal termine di scadenza previsto.

L’accertamento induttivo è altresì esperibile se dal verbale di ispezione risulta che il contribuente ha sottratto all’ispezione i registri e le scritture contabili obbligatorie a norma dell’art. 2214, primo comma, c.c. (libro giornale e libro degli inventari) o delle leggi in materia di imposte sui redditi. L’ufficio può procedere ad accertamento induttivo anche nei confronti del contribuente che:

  • in sede di verbale di ispezione risulta non aver emesso fatture per una parte rilevante delle operazioni effettuate;

  • (ovvero) non ha conservato, ha rifiutato di esibire o comunque ha sottratto all’ispezione tutte o una parte rilevante delle fatture emesse.

Inoltre, l’accertamento induttivo ai fini IVA può essere adottato quando sono riscontrate:

  • omissioni, falsità e inesattezze;

  • irregolarità formali dei registri e delle altre scritture contabili tanto gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibile le scritture contabili del contribuente.

Per quanto attiene ai criteri in base ai quali stabilire l’inattendibilità della contabilità ordinaria ai fini fiscali, può esser fatto riferimento al D.P.R. 16.9.1996, n. 570. Se vi è pericolo per la riscossione dell’imposta da parte dell’ufficio, questi può procedere ad accertamento induttivo per la parte dell’anno già trascorsa, senza dover attendere la scadenza del termine stabilito per la presentazione della dichiarazione annuale.

 

Le recenti indicazioni dell’Agenzia delle Entrate

Riconoscendo la legittimità sostanziale del credito e quindi la sua spettanza, ma riaffermando altresì la correttezza dell’operato degli uffici in sede di liquidazione IVA, la circolare dell’Agenzia Entrate 6.8.2012, n. 34/E, pone in luce quanto segue:

  • ai sensi del secondo comma dell’art. 30 del decreto IVA, se dalla dichiarazione annuale risulta una eccedenza di imposta detraibile «il contribuente ha diritto di computare l’importo dell’eccedenza in detrazione nell’anno successivo, ovvero di chiedere il rimborso nelle ipotesi di cui ai commi successivi e comunque in caso di cessazione di attività»: sulla base di tale normativa è possibile affermare che in caso di omessa dichiarazione annuale il contribuente non può riportare l’eccedenza di IVA detraibile nella dichiarazione dell’anno successivo 4, né chiederne il rimborso nelle ipotesi regolate dall’art. 30 medesimo»;

  • è quindi del tutto legittimo l’operato degli uffici nell’ambito della procedura di cui all’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972, volta alla correzione degli errori materiali commessi dai contribuenti nel riporto delle eccedenze di imposta risultanti dalle precedenti dichiarazioni, nel caso in cui la dichiarazione sia stata omessa;

  • «il credito, pertanto, non essendo stato dichiarato nell’anno in cui è maturato, non è utilizzabile in detrazione del debito d’imposta in una dichiarazione successiva, a nulla rilevando che lo stesso sia, in ipotesi, effettivamente maturato»;

  • la giurisprudenza di legittimità, in coerenza con il principio di neutralità che ispira il sistema IVA, più volte ribadito anche dalla CGCE, ha affermato che nella fattispecie in esame, ove venga riscontrata l’effettività del credito, il contribuente è ammesso al rimborso dell’eccedenza medesima, attraverso la procedura di cui all’art. 21 del D.Lgs. 31.12.1992, n. 546;

  • «il credito maturato in un’annualità per la quale non sia stata presentata la dichiarazione, se effettivamente esistente e spettante, potrà essere riconosciuto al contribuente (benché attenga ad una dichiarazione omessa); più precisamente, il contribuente sarà ammesso a presentare istanza di rimborso del credito, ai sensi dell’articolo 21 del d.lgs. n. 546 del 1992, entro due anni dal pagamento degli esiti della liquidazione ovvero dell’esito del contenzioso relativo alla cartella di pagamento conseguente alla liquidazione stessa, favorevole all’Agenzia».

Da tale posizione consegue che il contribuente, fatta salva l’attività di rettifica e controllo che compete agli uffici dell’Agenzia delle Entrate, può richiedere il rimborso e quindi, se questo è denegato espressamente o tacitamente, agire in sede contenziosa impugnando il provvedimento di rigetto, ovvero il silenzio rifiuto, a norma dell’art. 19, primo comma, lett. g), del D.Lgs. n. 546/1992.

Tale ricorso, ai sensi del secondo comma dell’art. 21, «può essere proposto dopo il novantesimo giorno dalla domanda di restituzione presentata entro i termini previsti da ciascuna legge d’imposta e fino a quando il diritto alla restituzione non è prescritto. La domanda di restituzione, in mancanza di disposizioni specifiche, non può essere presentata dopo due anni dal pagamento, ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione».

Per quanto attiene in particolare al comportamento del contribuente che riporti in dichiarazione un credito maturato in un periodo di imposta per il quale la dichiarazione risulta omessa, secondo l’Agenzia, espressasi nella richiamata circolare n. 34/E del 2012, gli uffici devono comunque sostenere le contestazioni, con recupero di imposta e irrogazione di sanzioni per il comportamento scorretto posto in essere dal contribuente, fatta salva la possibilità di dar luogo a rimborso secondo quanto sopra osservato, nel caso in cui questo effettivamente spetti, anche procedendo alla riduzione delle sanzioni in sede di mediazione o conciliazione giudiziale, «qualora il contribuente riconosca a sua volta la legittimità delle sanzioni e degli interessi iscritti a ruolo».

 

9 ottobre 2012

Fabio Carrirolo

1 Nelle precedenti sentenze 22.5.2006, n. 12012 e 18.1.2002, n. 523, la S.C. ha riconosciuto il diritto al rimborso al contribuente che aveva omesso la presentazione della dichiarazione annuale IVA, pur avendo maturato nel corso dell’anno un’eccedenza d’imposta detraibile, che veniva riportata nella prima dichiarazione utile successiva.

2Cass., trib., 19.10.2007 n. 21944.

3 La Corte richiama al riguardo le precedenti sentenze Cass., trib., 22.9.2011 n. 19326, 16477/2004, 433/2008, 7172/2009.

4 Cfr. Cass., trib., 25.3.2009, n. 7172.

5Cass., trib., 17.2.2006, n. 3530.